7 Novembre 2021 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 6 nov 2021
- Tempo di lettura: 6 min
1Re 17,10-16; Sal 146/145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44
Una fede no limits

“In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri … Tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,43-44). Questa appena descritta è una considerazione che Gesù fa quando, un giorno, mentre era seduto di fronte al tesoro del tempio, rimane ad osservare il modo con cui la folla faceva le sue offerte (cf. Mc 12,41). Essa ci introduce direttamente nel cuore della nostra liturgia, aiutandoci a capire la diversa modalità con cui possiamo vivere la dimensione religiosa: una è quella formale, praticata dagli scribi come forma di prestigio sociale, con la quale giungevano perfino a strumentalizzare il rapporto con Dio, pur di attirare l’attenzione su di sé; l’altra è quella autentica, praticata dalla vedova, che giunge a compiere un gesto apparentemente insignificante per i ‘perbenisti religiosi’, ma che assume un significato esemplare per Gesù. La prima viene condannata: “Guardatevi dagli scribi …”, la seconda viene lodata: “Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri”. Questa considerazione costituisce, dunque, un invito a guardarci dalla ricchezza, specie quando siamo attraversati dall’idea di porre in essa la sicurezza della nostra vita e la certezza della nostra salvezza, nonché a intendere la modalità con cui siamo chiamati a esercitare la generosità anche nei casi di estrema povertà. La salvezza, sembra volerci dire Gesù, non è legata né alla ricchezza né alla povertà, ma dipende dalla conformità alla volontà di Dio. San Paolo ci dice che occorre stare attenti a prendersi gioco di Dio, poiché “ciascuno raccoglie quello che semina” (Gal 6,7).
Dopo l’episodio di quel “tale” (cf. Mc 10,17-20) che pur manifestando un’indiscutibile dimensione religiosa e uno struggente desiderio della vita eterna, si preclude la possibilità di sperimentarla a causa del suo forte attaccamento ai beni, ancora una volta Gesù ritorna sull’argomento della ricchezza e più specificamente sul rapporto che i suoi discepoli devono avere con essa. Il vincolo che la ricchezza crea nel cuore delle persone è troppo forte, e il rischio che esso possa allontanare da Dio è sempre in agguato, specie per chi si accinge a camminare secondo la via del vangelo. L’argomento tuttavia che intendiamo affrontare con l’episodio attuale, non è tanto la ricchezza in sé, quanto la modalità con cui siamo chiamati a gestire i nostri beni, indipendentemente dalla loro quantità. Non è questione di abbondare o scarseggiare nella ricchezza, ma di imparare a stabilire una relazione evangelica con i beni.
Comunemente siamo portati a identificare la ricchezza con l’avarizia e la povertà con la generosità, in realtà, ci sono ricchi estremamente generosi e poveri tremendamente avari. Allo stesso modo ci sono ricchi che sperperano senza misura e poveri che accumulano con avida bramosia. Per alcuni è facile dare quando si trovano nell’abbondanza, più difficile, invece, è elargire con la stessa misura, quando si trovano nell’indigenza. La liturgia di oggi ci offre, invece, due casi di persone che, pur consapevoli della propria miseria, si manifestano estremamente generose, specie nelle circostanze di maggiore bisogno. Si tratta di due esempi in cui sono protagoniste due donne, entrambe vedove – prive cioè di qualsiasi forma di assistenza familiare e sociale – ma entrambe colte a vivere la loro povertà all’interno di una relazione di fiducia: per l’una nei confronti del profeta, per l’altra nei confronti di Dio. Il riferimento alla fiducia non è casuale, al contrario, costituisce l’orizzonte di senso che può determinare un diverso modo di interpretare e vivere la povertà. Ci sono, infatti, persone per le quali la povertà è solo un motivo di sofferenza, invidia e rabbia, sentimenti che possono nascere da un’evidente forma di ingiustizia sociale o da una cattiva distribuzione dei beni comuni; e persone che colgono nella propria condizione di povertà, un modo per sperimentare, ancora più da vicino, l’estrema generosità della provvidenza divina. Per costoro la fiducia in Dio costituisce la condizione per trasformare il limite della povertà in occasione di ricchezza e crescita spirituale. Ed è proprio in questa prospettiva che siamo chiamati a interpretare i due casi biblici di indigenza. La povertà può diventare così una situazione di cui il Signore si serve per verificare il limite della nostra fiducia in lui, specie quando non possiamo più appellarci alle nostre risorse. Si tratta, allora, di situazioni estreme, necessarie per il progresso della nostra fede, senza le quali rischieremmo di avere una fede blanda e superficiale.
Proviamo per un attimo a zumare su questi due episodi, cominciando dalla vedova di Sarepta. Quando giunge all’estremo delle proprie possibilità alimentari si presenta a lei un uomo che noi sappiamo profeta, il quale gli chiede da bere, e lei, come è solito vedere nei poveri, non si sottrae alla richiesta. Spesso i poveri si mostrino generosi nel condividere la propria povertà, rendendola così meno pungente. Ma questo profeta comincia pian piano ad essere più esigente, dopo l’acqua le disse: “Prendimi anche un pezzo di pane” (1Re 17,11). La donna a questa ulteriore richiesta, avrebbe potuto reagire: lamentando la propria condizione, o brontolando, come facciamo di solito con chi non si accontenta di quello che gli diamo, e invece rimane calma, fiduciosa, mite. Tuttavia ciò non le impedisce di far presenta la sua situazione: “non ho nulla … solo un pugno di farina … e un po’ di olio … preparo (una focaccia) per me e mio figlio: la mangeremo e poi moriremo” (1Re 17,12).
Quella descritta sembra proprio una tipica situazione sociale limite, che assume anche una particolare valenza religiosa: la vedova non solo non sa come far fronte alla fame sua e del figlio, ma come se ciò non bastasse le viene chiesto di provvedere anche a quella di uno sconosciuto. Non di rado accade di sperimentare situazioni simili anche a livello spirituale, nelle quali, proprio quando ci capita di sentirci all’estremo delle nostre possibilità, Dio sembra rivelarsi più esigente che mai. Vorremmo sottrarci al peso di quella situazione, ma proprio in esse si rivela decisivo l’invito a fidarci della voce di Dio che attraverso il profeta ci dice: “Non temere, la farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà” (1Re 17,14). “Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono essa, lui e il figlio per diversi giorni” (1Re 17,15). Per aver creduto alla parola del profeta, le si apre davanti un nuovo orizzonte. Questo è ciò che fa la provvidenza: crea nuove possibilità, là dove solo fino a qualche attimo prima sembravano non esserci margini di soluzione. È in queste circostanze quotidiane che Dio entra a far parte della nostra vita, in modo concreto e stabile, generando una relazione vera, autentica e personale.
Nel caso evangelico invece la fiducia in Dio viene autenticata con l’offerta libera e volontaria dell’ultimo “spicciolo”. Quella vedova giunge a privarsi perfino di ciò di cui ha assolutamente bisogno. Un gesto che, tradotto in termini spirituali, significa consegnare a Dio anche l’ultima e unica possibilità con la quale pensiamo di risolvere le nostre situazioni. Finché non riusciremo a liberarci dell’idea di appellarci alle nostre risorse, sarà molto difficile sperimentare la provvidenza di Dio. Questa, infatti, si attiva solo quando ci ritroviamo letteralmente ‘spiantati’, incapaci cioè di trovare qualsiasi altra soluzione se non quella di appellarci a Dio. Solo a questi livelli si attiva quell’intelligenza creativa dello Spirito, con la quale Dio, in modo del tutto discreto e silente, si manifesta in noi, aprendo quell’orizzonte che prima sembrava precluderci ogni possibilità. Dio, in diversi modi e forme, come è accaduto con Mosè e il popolo d’Israele dinanzi al “mare”, ci conduce alla prova estrema della fede, oltre la quale non sappiamo più andare con le nostre possibilità, e solo in quelle circostanze, dischiude nel nostro cuore nuove occasioni risolutive, facendoci uscire da situazioni complicatissime e talvolta anche moralmente incresciose. La vedova donando l’ultimo centesimo allude dunque all’atteggiamento spirituale di chi decide di fidarsi definitivamente di Dio nelle situazioni estreme e di consegnare la propria vita totalmente nelle sue mani, convinta di dipendere da lui come il bambino dipende dai propri genitori.
Tutto questo discorso viene tradotto dall’autore della lettera agli ebrei in linguaggio chiaramente liturgico, secondo il quale l’atteggiamento che siamo chiamati ad assumere nella fede non è appena quello di donare qualcosa di nostro, ma consegnare tutto se stessi a Dio, come Cristo, al quale Dio non chiede qualcosa di proprio, ma la sua vita (cf. Eb 9,26-28). È attraverso questo gesto di consegna estrema che Dio compie la salvezza nostra e quella delle persone intorno a noi.




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