7 Marzo 2021 - 3° Domenica di Quaresima Anno B
- don luigi
- 7 mar 2021
- Tempo di lettura: 9 min
Es 20,1-17; Sal 18/19; 1Cor 22-25; Gv 2,13-25
La cacciata dei venditori dal tempio

Nella terza domenica di Quaresima la liturgia della Parola ci propone l’episodio evangelico della Cacciata dei venditori dal tempio (cf. Gv 2,13-25), accompagnato dal brano esodale dell’Alleanza sinaitica, con la proclamazione del Decalogo (cf. Es 20,1-17). Si tratta di due brani biblici che la Chiesa ci indica come ulteriori tappe di sviluppo del nostro cammino di conversione verso la Pasqua. La ragione di questa proposta, come il significato rispettivo dei singoli brani, non è immediatamente comprensibile, in questo contesto quaresimale, perciò necessita da parte nostra, di un surplus meditativo, un di più della nostra intelligenza spirituale, simile a quello che l’evangelista Giovanni sviluppa quando nel presentarci il gesto di Gesù nel tempio, non si limita alla sola descrizione cronachistica, come fanno gli altri evangelisti, ma si impegna ad inserirlo nel piano rivelativo di Cristo. Giovanni, infatti, a differenza dei Sinottici, colloca questo episodio all’inizio dell’attività pubblica di Gesù, subito dopo il miracolo della Nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12) e prima del Colloquio con Nicodemo (cf. Gv 3,1-21), come a volere suggerirci la prospettiva teologica con cui interpretarlo, secondo la quale tale episodio costituirebbe un segno con cui Gesù rivela la sua identità divina. In questa prospettiva esso più che un gesto di purificazione del tempio sarebbe un evento escatologico, un vero e proprio momento in cui Dio irrompe nella storia dell’uomo. Pertanto se con la Trasfigurazione Gesù ci ha consentito di intravedere l’origine divina della sua vita, con la Cacciata dei venditori dal tempio introduce la vita divina nella storia degli uomini. L’esistenza storica di Gesù sarebbe, dunque, nient’altro che la manifestazione definitiva dell’opera di Dio in lui, secondo quanto l’evangelista ci dice nel Discorso sull’opera del Figlio (cf. Gv 5,19-47). Tutto il suo Vangelo viene pensato, infatti, come un unico viaggio di Gesù verso Gerusalemme, luogo in cui porta a compimento il piano salvifico di Dio, che è esattamente la prospettiva con la quale anche noi siamo chiamati a vivere questo tempo di Quaresima, verso la Pasqua.
Per cogliere la prospettiva teologica di Giovanni vi suggerisco di partire da una lettura sinottica dell’episodio evangelico. Tutti gli evangelisti lo riportano, ma ciascuno lo fa secondo le caratteristiche del proprio stile narrativo e prospettiva teologica. Luca, per esempio si limita solo a citarlo, raccontandolo nel breve spazio di due versetti (cf. Lc 19,45-46). Come Luca, anche Marco e Matteo, collocano questo episodio verso la fine della vita di Gesù, in prossimità della sua passione e morte. Per essi Gesù compie un gesto di purificazione, avallato anche dalla citazione di Is 56,7 e di Ger 7,11: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate una spelonca di ladri”. Giovanni, invece, è l’unico ad associarlo alla profezia che Gesù fa sulla distruzione del tempio: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19), che Matteo riporta durante lo svolgimento del processo di Gesù, davanti al sinedrio (cf. Mt 26,61). Ed è appunto questa associazione, tipicamente giovannea, ad offrirci la chiave di lettura dell’episodio. Si tratta di una stratificazione di significati che in Giovanni diventano comprensibili solo alla luce di quell’attività che lui esprime con la seguente formula: “i discepoli si ricordarono” (cf. Gv 2,17.22), come a sottolineare quel processo di comprensione dal quale ogni cristiano non può assolutamente prescindere. Esso consiste in un’attività sincronica della mente e del cuore e si attua attraverso tre operazioni, inscindibilmente unite: fare memoria, meditare, comprendere. Con la prima non ci si limita a passare in rassegna i ricordi e gli eventi, ma a riviverli e riattualizzarli nell’oggi della propria fede, nella cui luce ci si pone in ascolto, inteso come sforzo di comprensione, del significato di un evento. Meditare, oltre alla preparazione con la quale la mente si dispone ad accogliere il senso di un fatto con lo scopo di intenderlo bene e di aderirvi, comporta anche la capacità di collegarlo ad altri episodi simili, così da evidenziarne le convergenze e divergenze (cf. Lc 2,19). Infine il comprendere è l’attività propria dell’intelligenza, che come evidenzia il termine, consiste nel leggere dentro con profondità, secondo il significato latino del termine intus legere. Per questo tipo di attività non basta esercitare la sola ragione, come fanno gli spiriti impuri che dimostrano di conoscere perfettamente l’identità di Gesù (cf. Mc 1,24), ma occorre che essa sia impregnata del vissuto evangelico, compiuto nel contesto di una relazione di fede con Cristo, tanto da lasciarsela trasformare. È in questo modo che lo Spirito lascia sbocciare il loro significato alla nostra intelligenza, rendendo evidente ciò che prima era nascosto. Anche per gli apostoli infatti questo gesto di Gesù nel tempio rimane oscuro fino alla risurrezione. Sarà solo grazie all’intelligenza, ovvero la luce che lo Spirito darà loro, che essi ne comprenderanno il significato, come annota lo stesso Giovanni: “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22).
Nel tentativo di compiere questo sforzo intellettivo sotto il profilo spirituale, ritengo opportuno offrirvi una nota introduttiva al tempio, alla sua funzione e all’importanza che aveva per tutto il popolo ebraico. Presso gli Ebrei il Tempio costituiva non tanto la casa di Dio, poiché in quanto trascendente Dio non poteva essere contenuto, ma il luogo dove veniva custodito e conservata l’Arca dell’Alleanza. L’importanza di quest’ultima era dovuta al fatto che conteneva: le tavole della Legge, il bastone di Mosè e la manna, praticamente gli elementi simbolici dell’evento pasquale, ovvero dell’uscita dall’Egitto, passaggio del Mar Rosso e dell’Alleanza sinaitica nel deserto. Ciascun elemento ricordava un rispettivo momento particolare: le tavole della Legge rammentavano la “rivelazione di Dio sul Monte Sinai”. Il bastone gli “eventi prodigiosi compiuti in Egitto e il passaggio del Mar Rosso”, la manna il “pane del cielo” con cui Dio nutriva il popolo nel deserto. Tutta l’Arca era custodita all’interno di una cella chiamata Santo dei Santi, che a sua volta era custodita da una sala chiamata fanum (che costituiva il tempio vero e proprio). Il tempio era circondato dal Cortile degli Israeliti, nel quale potevano entrare solo gli uomini. Davanti ad esso vi era un altro spazio chiamato Cortile delle Donne. Il tutto era circondato dal Cortile dei Gentili (pro-fanum), letteralmente prima del tempio. Nel fanum solo il sacerdote poteva entrare, per i sacrifici, giacché l’altare era all’interno, rispetto ai templi pagani, dove invece era posto fuori; mentre nel Santo dei Santi poteva entrare solo il Sommo sacerdote, una volta l’anno. Tutti gli altri credenti che non appartenevano al popolo d’Israele, gli stranieri, per esempio, che simpatizzavano per la loro fede, potevano accedere solo nel Cortile dei Gentili, i quali per offrire un sacrificio, dovevano prima cambiare la loro valuta e poi comprare un animale, per poi offrirlo al sacerdote che lo sacrificava. Tutta questa operazione avveniva per l’appunto nel Cortile dei Gentili. Ed è proprio qui che avviene il gesto di Gesù. Infatti, Gesù, in quanto laico non poteva entrare nel fanum. La presenza delle bancarelle e dei cambiavalute era, dunque, giustificabile, per garantire le varie operazioni religiose. Col tempo però, questa operazione si era trasformata in una vera e propria attività redditizia, con cui sostenere le varie spese del tempio, fino ad assumere la forma di un commercio sacro, come avviene ancora oggi, presso tanti santuari. Il suo sopravvento sulle attività religiose snaturò il senso stesso del Tempio, facendolo passare da “casa di preghiera” a una “spelonca di ladri”, come fa notare Gesù. Tutta la vita che si svolgeva dentro e fuori il tempio era perciò come svuotata dello spirito religioso originario che aveva dato luogo al tempio. I sacrifici venivano offerti sì, ma con una ritualità tutta esteriore, che non comportava alcun tipo di conversione interiore, lontano dunque da quella forma di sacrificio di lode (cf. Eb 13,15) che il Signore richiedeva ad ogni pio israelita (cf. Sal 50,14; Os 14,3). È appunto contro questa prassi religiosa che Gesù, sulla scia dei profeti che l’hanno preceduto (cf. Is 1,10-17; Ger 7,1-15; Ml 3,1ss), si scaglia con una tale veemenza da suscitare scalpore in tutti gli astanti, apostoli compresi. Dinanzi a questo gesto così eclatante e provocatorio i Giudei, irritati, reagirono chiedendo spiegazioni in merito: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18). Detto in altro modo: Con quale autorità ti permetti di intervenire in questi termini? Chi sei da fare simili affermazioni? (cf. Mt 21,23-27). Essi cercavano un segno che manifestasse la statura profetica di Gesù. Solo un profeta, infatti, poteva permettersi tali cose, mentre Gesù era considerato un impostore (cf. Mt 27,63), in quanto trasgrediva la Legge e non rispettava il sabato. Alla domanda dei Giudei Gesù rispose: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2, 19).
Com’è nello stile narrativo tipicamente giovanneo, Gesù sembra dare una risposta apparentemente fuori luogo. In realtà essa diviene comprensibile solo se si compie quell’operazione di intelligenza spirituale, alla quale l’evangelista invita ogni suo lettore. Anche noi perciò, come lo stesso Giovanni, siamo invitati a leggere dentro l’episodio il significato nascosto. Per farlo è importante che anche noi ci lasciamo guidare dallo Spirito, quello stesso che ha guidato Gesù in tutte le sue scelte di vita (cf. Mc 1,12). Diversamente, come i Giudei, rischiamo di limitare la nostra comprensione alla sola interpretazione letterale: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?” (Gv 2, 20).
Può sembrare strano ma, stando all’evangelista Giovanni, l’episodio di Gesù nel tempio finisce così: senza un nulla di fatto: né un’accusa né una condanna. Tutto il seguito del racconto è interpretazione dell’evangelista, il quale rilegge l’episodio alla luce della risurrezione di Gesù e solo allora comprende il senso del gesto e della risposta di Gesù. La sua narrazione dunque è una rilettura teologica in chiave escatologica. Ed è appunto in questa prospettiva interpretativa che anche siamo chiamati ad entrare per capire il significato che esso può avere per noi in questo cammino di conversione quaresimale.
Per cogliere il senso vero del gesto nel tempio e dell’affermazione di Gesù occorre vedere come l’anno compreso i discepoli di Gesù. In fondo neppure loro, sul momento ci capirono qualcosa. Giovanni ci dice che tale significato fu compreso solo dopo la Risurrezione di Gesù. Solo allora compresero che in quella circostanza Gesù più che riferirsi al tempio parlava del suo corpo (cf. Gv 2,21). In effetti nessuno avrebbe potuto realizzare un tempio simile in soli tre giorni. Ma i tre giorni erano evidentemente quelli della morte. E la riedificazione era la sua risurrezione. Questo gesto pertanto unito alle parole acquista una portata profetica non indifferente, che nel contesto della Quaresima apre il nostro sguardo alla speranza dell’annuncio della Risurrezione di Cristo. Da gesto nel tempio diventa gesto nel tempo: con la sua morte e risurrezione Gesù inaugura un nuovo tempio e un nuovo tempo, quello del corpo e dell’eternità. È questo pertanto uno dei gesti con cui Gesù inizia la Nuova Alleanza che consiste essenzialmente nella salvezza per mezzo del sacrificio di sé.
Come richiesto dai Giudei, Gesù effettivamente dà loro un segno. Non un gesto evidente e inconfutabile come essi pretendevano, ma un segno, nel senso simbolico del termine, ovvero di gesto che rivela il suo significato solo all’interno di un contesto di fede. Si tratta di un segno che necessita di una rinnovata mentalità relazionale, alla quale i Giudei, come anche noi, non siamo affatto abituati. Il suo significato, infatti, non può essere compreso per mezzo della sola fredda razionalità analitica e scientifica, con la quale spesso esaminiamo tutto, anche i fenomeni religiosi, ma nella luce di una intelligenza relazionale e sinergica, tra l’attività del nostro spirito e quella dello Spirito di Dio che scruta ogni cosa, comprese le profondità del mistero di Dio (cf. 1Cor2,10).
Con questo gesto e con questa affermazione, dunque, Gesù ci invita a purificare, ovvero a rivedere tutto il nostro rapporto relazionale con Dio, il quale secondo l’alleanza mosaica viene normato da una legge, come attesta il brano dell’Esodo della prima lettura. Si tratta di una legge che diversamente da quanto viene espresso dal Salmo 18/19, viene per lo più osservata e praticata dalla casta sacerdotale come un imperativo categorico che non lascia molti margini di libertà all’uomo. Il modo infatti con cui spesso viene intesa e interpretata induce più all’obbligo e all’imposizione che non alla libertà interiore, intesa come dimensione fondamentale per ogni relazione autentica con Dio. Originariamente essa viene data per promuovere nell’uomo scelte di vita che siano conformi alla volontà di Dio e quindi che favoriscano lo sviluppo di una vita piena e autentica. In realtà essa diviene motivo di asservimento dell’uomo, come denuncia lo stesso Gesù, quando ribadisce la vera ragione del sabato: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Con questo gesto Gesù intende ristabilire il vero senso della legge e più specificamente quello che essa norma a proposito dei sacrifici. Essa intende portare l’uomo al senso originario del sacrificio: quello di lode, come afferma Dio attraverso il profeta Osea: “Amore voglio e non sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Su questa base egli abolisce i sacrifici dell’uomo a Dio e compie il sacrificio di Dio per l’uomo. Non è più l’uomo ad offrire a Dio qualcosa di sé, ma è Dio che dona all’uomo suo Figlio, vero segno dell’amore sacrificale, col quale egli realizza la salvezza dell’uomo. Ecco ciò che Dio chiede all’uomo: il sacrificio di sé, del suo io, della sua volontà, della sua mentalità. Solo chi consegna liberamente se stesso, come fa Gesù andando verso Gerusalemme, è veramente gradito a Dio. Per Dio la massima espressione del sacrificio è chi dona la propria vita come manifestazione della riconoscenza nei confronti del suo amore. Il vero tempio pertanto non è quello di pietra, ma il cuore dell’uomo, è qui che s’origina il sacrificio di lode, desiderato da Dio.
È questo il cuore dell’annuncio evangelico così come viene espresso e sintetizzato da Paolo nella sua lettera ai Corinzi (1, 22-25): Gesù crocifisso e risorto. Egli con la testimonianza della sua vita svela il segreto della sapienza di Dio, la quale mentre viene considerata stoltezza dai sapienti di questo mondo, costituisce la vera sapienza che dà senso all’esistenza dell’uomo. Una conoscenza dunque, quella che ci viene offerta da Gesù, che si rivela determinante per la salvezza di chiunque lo riconosce come luogo (tempio) di salvezza divina. Il cammino di conversione che siamo chiamati a compiere durante questo tempo di Quaresima consiste nel conformare la nostra mentalità a questa logica salvifica di Cristo. A noi accoglierla e aderirvi.




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