7 Dicembre 2025 - Anno A - II Domenica di Avvento
- don luigi
- 6 dic
- Tempo di lettura: 7 min
Is 11,1-10; Sal 71; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12
L’urgenza della conversione

“Giovanni il Battista predicava nel deserto della Giudea dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino! Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! … Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Mt 3,1-3.7.11).
“Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2) è la formula con la quale l’evangelista Matteo sintetizza il senso della predicazione del Battista; praticamente la stessa che pone anche sulla bocca di Cristo (cf. Mt 4,17), quando dà inizio alla sua missione pubblica. Per entrambi la predicazione si concentra sulla prossimità del regno di Dio nel mondo, per cui sollecitano una conversione rapida e urgente. A loro giudizio non c’è più tempo e motivo per tergiversare. Il regno è imminente e occorre predisporsi rapidamente ad accoglierlo. Dalla loro predicazione traspare l’urgenza di un cambiamento morale e spirituale e l’ansia di vedere già realizzata nel mondo la realtà della vita divina, della quale avvertono la struggente passione di vedervi partecipare tutti coloro ai quali si rivolgono.
La realtà che scaturisce da questo commento evangelico contrasta però con quella che emerge dalla storia, dove si delinea il profilo di una realtà del tutto diversa: a poco più di duemila anni di distanza dalla predicazione del Battista e di Gesù, il regno di Dio sembra ancora faticare a istaurarsi nel mondo. L’imminenza e la prossimità da essi predicata sembra essere stata dilazionata nel tempo e l’attesa continuare a prolungarsi oltre il dovuto. Anche la carica escatologica e l’ardore spirituale che caratterizzava la loro predicazione sembra essere venuta meno nei singoli cristiani e nella Chiesa in generale. Il regno del mondo pare aver preso il sopravvento, determinando un clima di diffuso disinteresse spirituale e rilassamento morale, come attesta l’atteggiamento provocato dalla cultura del benessere, che sembra aver cancellato ogni traccia di quello divino.
Dinanzi a questo scenario alquanto disarmante viene da chiedersi: cosa attendono i cristiani, oggi? Che fine ha fatto l’annuncio del regno, tanto caro al Battista e a Gesù da costituire l’oggetto principale della loro predicazione? Che ricordo conservano di questo annuncio i nostri cristiani e che interesse nutrono per la sua realizzazione nel mondo? Cosa è rimasto della predicazione del Battista e di Gesù, della loro ansia, della loro passione, del loro fervore spirituale, della loro attesa escatologica? Lungi dal voler tracciare un quadro scoraggiante, la formulazione di queste domande sembra invitarci invece a farci prendere coscienza della necessità e dell’urgenza di accogliere la loro eredità e tradurla nel presente della nostra fede. Anche noi, infatti, siamo chiamati a farci interpreti degli attuali segni dei tempi, per divenire come il Battista, nel deserto del nostro contesto sociale e culturale: “voce di uno che grida: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Mt 3,3). Si tratta allora di cogliere il senso che spinse il Battista e Gesù a nutrire l’ansia e l’urgenza dell’attesa e ad assumerle come atteggiamento perenne della fede, da praticare durante tutta la nostra vita, così da fronteggiare quella diffusa mentalità culturale che ci induce a circoscrivere la nostra esistenza solo nell’immanenza della vita terrena[1]. Per fare ciò è fondamentale recuperare le radici di quello spirito profetico che nel corso dei secoli ha contribuito a maturare, nel popolo d’Israele, l’attesa messianica e regale e a permettere, ad alcuni di loro, di intravederla già realizzata in Gesù di Nazaret. Si capisce allora il senso dei brani biblici che la Chiesa ci propone in questo periodo di Avvento, come a voler offrirci un fondamento teologico che giustifichi la nostra attesa escatologica di Cristo. Una ragione in più per ricordarci che essa si innesta sullo stesso ceppo della tradizione profetica, come ci ricorda il brano della prima lettura, tratta dal libro di Isaia.
Non è facile stabilire la data di questo oracolo profetico, ma a giudicare dal suo contenuto, si può intuire che la crisi spirituale indotta dal fallimento della dinastia davidica, abbia ingenerato un forte senso di delusione presso il popolo d’Israele. Un esito alquanto sconfortante e triste per coloro che puntavano a fondare la gloria d’Israele sulla potenza politica del regno, e che ora invece sembrava non offrire più alcuna speranza per un ritorno trionfale. Ma proprio in questo clima di frustrazione generale si inserisce la profezia di Isaia, così carica di speranza. Una testimonianza la sua che conferma la straordinaria capacità di rileggere gli eventi della storia alla luce del piano salvifico di Dio. Il profeta, infatti, a differenza di coloro che vedevano in quel drammatico epilogo solo motivi di sfiducia, coglie invece i segni che lasciano emergere il vero senso del “regno d’Israele”, il cui scopo non è quello politico, come finora era stato inteso, ma spirituale. La sua profezia si rivela, perciò, come un’operazione niente affatto facile: cogliere infatti un disegno teologico oltre l’evidenza drammatica dei fatti storici è solo di chi è abituato a vedere la realtà con l’occhio di Dio. Non è un caso allora che Isaia, sui resti della casa davidica, ridotta ormai solo ad un “ceppo” inaridito dal potere politico, veda spuntare il “germoglio di Iesse” (Is 11,1), ovvero quel germe di speranza che dà continuità storica alla promessa davidica. Il suo Messia, tuttavia, non si identifica più col profilo politico del re terreno, ma con quello divino del Cristo salvatore. Nel ritrarre il suo volto, infatti, Isaia dice che egli sarà pieno di “spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, … di consiglio e di fortezza, … di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2). Egli sarà “portatore di giustizia e di pace”: due qualità che gli consentiranno di riscattare e condurre alla salvezza tutte le vittime delle oppressioni politiche, sociali e culturali (cf. Is 11,3), e di trasformare le tensioni conflittuali generate dal sopruso dei potenti, in quella condizione definitiva di riconciliazione degli uomini tra loro e del creato con Dio. Si comprendono allora in questa ottica di riconciliazione e di pace quelle paradossali scene da lui descritte: dove convivono, incredibilmente insieme, fiere selvagge e animali domestici, bambini e rettili velenosi (cf. Is 11,6-7), scene che danno luogo a una relazione pacifica e di totale riconciliazione di tutte le tensioni egoistiche presenti nella natura, dove nessuna forza maligna potrà più condizionare la vita del creato, poiché la conoscenza dell’amore di Dio colmerà il mondo intero (cf. Is 11,8-9).
Riletto alla luce dei numerosi conflitti bellici, tutt’ora in corso nel mondo, tra i quali quello recente tra Russia e Ucraina e Israele e Palestina, questo oracolo di Isaia sembra avere più il sapore di un’utopia che di una profezia. Eppure è proprio in questo clima conflittuale che scrive Isaia. Pertanto la sua missione diventa per noi un invito a interpretare gli eventi della nostra storia con lo stesso sguardo profetico. Si delinea così ancora più chiaramente il senso della missione del Battista e soprattutto l’urgenza del suo annuncio: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,1), la salvezza di Cristo infatti, come ribadisce san Paolo “è ancora più vicina di quanto diventammo credenti” (cf. Rm 13,11). Pertanto se Isaia ci insegna a guardare oltre le vicende storiche del nostro tempo e a cogliere in esso il futuro della promessa salvifica di Dio, il Battista ci conferma che quel futuro è già ravvisabile in Cristo Gesù. La conversione, perciò, non può essere più rimandata o dilazionata nel tempo, al contrario, va attuata nel presente e, più specificamente, nel “qui ed ora” della fede in Cristo. È lui l’oggi della salvezza.
Come non rileggere in questa ottica le parole che l’apostolo Paolo rivolge ai Romani, secondo le quali: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per la nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15,4). Si tratta perciò di riscoprire la Scrittura come luogo originario della nostra fede, per cogliere in essa il fondamento della nostra missione, esattamente come fa il Battista quando scopre negli scritti di Isaia il senso della sua missione profetica (cf. Mt 3,3; Is 40,3s). Una missione scomoda quella del Battista, perché ci inchioda nella responsabilità attuale della nostra fede. La sua onestà intellettiva e spirituale ci sprona, infatti, ad uscire fuori da quegli schemi di perbenismo religioso e morale che con tanta fatica ci siamo costruiti nel tempo, ma contro i quali il Battista si scaglia con veemenza, senza mezzi termini: “Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente” (Mt 3,7); “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10).
Un linguaggio certamente duro che forse per questo oggi, ancora più di allora, rischia di rimanere inascoltato, condizionati come siamo da quella fragilità psicologica che ci impedisce di recepire anche il più innocuo rimprovero morale, ma che invece il Battista non esita a scagliare contro coloro che tendono costantemente a rimandare la loro conversione, pensando di avere sempre tempo e possibilità di decidersi al momento opportuno; magari convincendosi della necessità di non farlo perché convinti di avere ferree tradizioni religiose, come quelli che dicono: “Abbiamo Abramo per padre” (Mt 3,9), rischiando così di minimizzare la gravità della loro condizione esistenziale. È chiaro che non siamo più educati a questo linguaggio franco e diretto, ma al di là della sua forma, non possiamo non cogliere l’esortazione a quello stile di vita battesimale che la Chiesa ci invita ad assumere in questo tempo di Avvento, affinché ciascuno impari a nutrire verso gli altri, gli stessi sentimenti di riconciliazione e di pace che furono in Cristo Gesù (cf. Rm 15,5).
[1] Il regno dispone sì di un autonomia che lo rende indipendente dai fattori contingenti (cf. Mc 4,26-27), ma la sua realizzazione nel mondo necessita anche di una partecipazione dell’uomo.




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