7 Agosto 2022 - Anno C - XIX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 6 ago 2022
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Sap 18,3.6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-481
Le declinazioni della fede

Dopo aver compreso la necessità di avere un cuore libero da qualsiasi forma di attaccamento alle cose “vane” di quaggiù, la liturgia della Parola di quest’oggi ci propone un insegnamento sulla fede, compresa come ciò che educa il nostro spirito a volgere l’attenzione alle “cose di lassù” (Col 3,1). E lo fa con una serie di immagini che ci consentono di declinarla nelle varie circostanze della vita e comprenderne il suo sviluppo storico. “Siate pronti con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese” (Lc 12,35) diventa così l’immagine con cui tutti noi siamo chiamati a vivere l’atteggiamento di “attesa del padrone che torna dalle nozze”, tanto da riconoscerlo e essere pronti ad “aprirgli subito, appena arriva e bussa” (Lc 12,36). Saper riconoscere Dio nel buio della notte, ovvero nei momenti di crisi esistenziale e spirituale, significa vivere la fede come “il fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb 11, 1). Una sorta di sguardo spirituale che consente di intravedere il suo Volto oltre le vicende drammatiche della vita. Non si tratta solo di uno sguardo intuitivo, effetto della capacità percettiva, ma di un vedere teologico che fa scorgere la Verità di Dio come ciò che dà senso alle cose, più esplicitamente come il principio, il fondamento e il fine della nostra esistenza.
Una proposta piuttosto provocante e impegnativa, dunque, quella che emerge dall’attuale liturgia, in profonda dissonanza col clima vacanziero che caratterizza questo periodo: nel mentre siamo tutti proiettati ad uscire fuori dalle nostre case, dalle nostre città e dalle nostre nazioni, verso una meta che si auspica rilassante, riposante e liberante, la Parola di Dio ci propone di uscire da noi stessi, verso una meta che ci viene promessa come condizione di vera libertà e pienezza di vita eterna. Un esodo tutt’altro che evasivo, perciò, quello a cui veniamo invitati. Se quello vacanziero, infatti, è spesso vissuto, per così dire, come occasione di “sballo”, quello spirituale è volto, invece, al recupero dell’eternità perduta.
Diverse sono le immagini che contribuiscono al recupero di questo aspetto della fede. Alcune di esse hanno un sapore d’Avvento – nel senso che siamo abituati a considerarle in questo particolare tempo liturgico – per il carattere escatologico che le contraddistingue, come: “le vesti strette ai fianchi”, “le lampade accese”, “l’attesa vigilante e prolungata del padrone che torna dalle nozze”, l’arrivo imprevedibile del ladro nella notte”; altre invece ci aiutano a coglierla come “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. In ogni caso si tratta di immagini pedagogiche, atte alla conoscenza e allo sviluppo della fede.
Chi sono i destinatari di queste immagini e qual è il loro significato? È lo stesso interrogativo che emerge dalla domanda di Pietro a Gesù: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?” (Lc 12,41). Dalla risposta di Gesù emerge chiaramente che esse hanno un valore universale, nel senso che sono destinate a tutti coloro che intendono acquisire o anche recuperare il senso della fede, ovvero a quanti si predispongono ad assumere la fede come uno stile di vita esistenziale: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così” (Lc 12,43). Ciascuno, dunque, adottando questo stile di vita, può divenire quell’amministratore fedele e saggio di cui parla Gesù, che “estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
Proviamo allora a commentare singolarmente queste immagini. “La veste stretta ai fianchi” evoca l’atteggiamento tipico di chi è pronto a cominciare un cammino di fede, ma anche quello di chi si dispone a viverla come “servizio”, come emerge dalla lavanda dei piedi di Gesù durante l’Ultima Cena (cf. Gv 13,3-6) e dall’atteggiamento che il padrone assume nei confronti dei quei servi che trova ancora svegli al suo ritorno (cf. Lc 12,37). Un’immagine decisamente fuori luogo per noi che siamo abituati a vestire casual, ovvero con un abbigliamento che enfatizza il confort. Al tempo di Gesù, invece, ci si vestiva spesso con una tunica lunga fino alle caviglie, come è possibile riscontrare ancora, oggi, presso tanti popoli arabi. Un abito che però necessitava di una cintura, per impedirne l’intralcio durante il cammino, così da farlo aderire meglio al corpo. Tradotta a livello spiritale questa operazione comporta l’acquisizione di uno stile di vita evangelico, un abitus per l’appunto che consente di far aderire il corpo alla vita dello spirito, esattamente come il vestito lo diventa per il corpo.
Gli sforzi ascetici, tuttavia, per quanto ammirevoli, da soli non bastano se non sono animati dallo Spirito di Dio e alimentati dalla sua Parola. Il che significa che senza la chiamata divina il nostro cammino spirituale rischia di ridursi in un viaggio introspettivo, teso solo alla ricerca di noi stessi. Quello biblico-cristiano invece è esattamente l’opposto. Esso ci propone di uscire da noi stessi per dirigerci verso Dio. Ed è qui che noi ritroviamo pienamente noi stessi. Dio viene scoperto come il centro e il fondamento del nostro io. L’io divino, tuttavia, si dischiude in noi nella misura in cui siamo disposti a rinnegare noi stessi. E ciò accade grazie al confronto costante con la sua Parola, con la quale intessiamo una relazione sempre più familiare. Essa diventa così la lampada che illumina e orienta la nostra esistenza. È alla sua luce che diveniamo capaci di riconoscere il volto di Cristo, quando, inaspettatamente, sopraggiunge nel buio della nostra notte spirituale e con un dolore inatteso, con un avvenimento imprevisto o con un’intuizione spirituale improvvisa bussa alla porta del nostro cuore. Egli se ne sta fuori, senza forzare la porta, limitandosi a bussare con discrezione, come rappresenta, in modo emblematico, il pittore inglese Pre-raffaellita Holman Hunt (1827-1910) quando, nel dipingere la sua opera Cristo luce del mondo, si ispira proprio a questo brano evangelico di Luca. Egli rappresenta Gesù in piedi davanti ad una porta, intorno alla quale sono cresciute spine ed erbacce. A qualcuno che fece notare al pittore che la porta era priva di una maniglia esterna, il pittore, sempre preciso in ogni dettaglio, rispose che questo genere di porta prevede solo una maniglia interna, quella cioè destinata al proprietario della casa. Solo lui può aprire l’ospite che chiede di essere accolto.
Nel libro dell’Apocalisse l’evangelista Giovanni riprende questa immagine di Gesù, rivelandoci gli effetti che ne conseguono per chi si dispone ad aprirgli e ad accoglierlo nella propria vita: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Una volta dentro Gesù non si limita ad essere trattato come un ospite, ma si dispone a servire il servo che lo ha accolto: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37).
Nel brano della lettera agli Ebrei l’autore passa in rassegna tutti i testimoni della fede: da Abele ad Abramo, da Isacco a Mosè e così via fino alla venuta di Cristo. Un vero e proprio elogio della fede, costellato dalle testimonianze pratiche di uomini e donne che lungo la storia del popolo di Israele hanno saputo perseverare nella fede. Dalla loro testimonianza l’autore fa scaturire un principio che sostiene tutto il discorso che segue: “la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. Essa viene definita con due termini decisivi: fondamento e prova. Il primo garantisce l’esistenza della realtà sperata, il secondo ne offre la certezza. Essi, tuttavia, “morirono senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri sulla terra” (Eb 11,13). Grazie alla fede, dunque, costoro ebbero modo di acquisire uno sguardo capace di guardare al futuro, di intravedere perfino le realtà promesse da Dio e di credervi fermamente, ma il loro possesso rimase solo oggetto di speranza; alla loro morte, infatti, tale promessa non era stata ancora compiuta, attestando in questo modo la provvisorietà della loro esperienza terrena. Lo stesso concetto di “patria” al quale loro fanno riferimento, attesta questo graduale progresso della fede: inizialmente identificata con la terra promessa, solo gradualmente acquista la fisionomia di una patria celeste.
Un excursus storico dunque quello che ci viene proposto dall’autore della lettera agli Ebrei, attraverso il quale egli sembra suggerirci che anche la nostra fede, per quanto fondata e garantita da Cristo – salutato come “origine e compimento della fede” (cf. Eb 12,2) – e attestata dalla testimonianza degli apostoli e dei santi nel corso della storia ecclesiale, rimane una speranza che trova la sua conferma nella promessa della sua risurrezione. È la fede nella sua parola e l’esperienza del suo amore reciproco a garantirci la partecipazione alla comunione definitiva con Dio.




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