6 Ottobre 2024 - Anno B - XXVII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 5 ott 2024
- Tempo di lettura: 10 min
Gen 2,18-24; Sal 127/128; Eb 2,9-11; Mc10,2-16
Il matrimonio cristiano: una indissolubilità ad immagine dell’unità divina

“Alcuni farisei si avvicinarono a Gesù per metterlo alla prova e domandarono: È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie? E Gesù disse loro: Che cosa vi ha ordinato Mosè? Dissero: Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e rimandarla. Gesù disse loro: Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola, così non sono più due, ma una carne sola. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Mc 10,2-9).
Questo breve, ma significativo, dialogo tra Gesù e alcuni farisei ci consente di delineare il tema liturgico di questa domenica, che ruota, com’è evidente, intorno alla realtà del matrimonio, e più specificamente, alla ragione teologica della sua indissolubilità. Un tema delicato e da sempre molto controverso, specie nell’attuale contesto sociale e relazionale, dove non mancano le ragioni che inducono i due coniugi a sciogliere la loro unione e a rendere la separazione un fenomeno sempre più diffuso, anche tra i cristiani. Da dove nasce questa difficoltà ed è indice di che cosa? La risposta ci induce a fare una verifica personale e comunitaria dell’attuale realtà matrimoniale, per capire più da vicino le ragioni di questo stato di cose. Contrariamente a una tradizione religiosa che nel corso della storia ha conosciuto, a livello sociale, pacifici consensi, oggi, il modello biblico-cristiano del matrimonio viene messo in discussione, con critiche culturali piuttosto aspre, dando adito a dibattiti politici che fanno sorgere l’esigenza di rivedere dal punto di vista giuridico, le norme che regolano l’attuale statuto matrimoniale.
Veniamo allora alla domanda centrale della nostra riflessione: perché la Chiesa Cattolica ritiene il matrimonio indissolubile?[1] Trattandosi di un argomento che riguarda la relazione tra persone che decidono di vivere per sempre insieme (almeno nel consenso iniziale), e considerando l’attuale difficoltà personale e coniugale a mantenere un rapporto duraturo nel tempo, è necessario che la risposte tenga presente delle rinnovate istanze relazionali, sempre più fondate sul rispetto della libertà e dell’autonomia delle singole persone. Da qui l’idea di essere il più chiaro possibile nel delineare le condizioni ed esigenze del matrimonio cattolico a chi, nel contrarre il matrimonio, decide di ispirarsi a questo ideale di vita cristiano. Si capisce allora che una simile scelta non può più essere fatta sulla base di una presunta tradizione religiosa, che si rivela sempre più vuota e incapace di offrire risposte adeguate e convincenti. Si avverte invece l’esigenza di una rinnovata convinzione religiosa e più specificamente spirituale[2], senza le quali risulta praticamente impossibile rimanere fedele a una simile scelta matrimoniale. Ne scaturisce l’urgenza di mettere a fuoco la sua natura e soprattutto le condizioni teologiche che ne rendono possibile la realizzazione, nell’attuale contesto sociale, giuridico e culturale.
Il tema viene inserito da Marco all’interno del capitolo 10 del suo Vangelo, che secondo alcuni studiosi costituisce una raccolta di insegnamenti di Gesù, sui problemi della vita cristiana, sistemati a mo’ di regolamento interno, per la comunità dei discepoli. Trattandosi di una nascente comunità religiosa è chiaro che non troveremo uno statuto matrimoniale già ben delineato, cosi come si è andato sviluppando nel corso della storia, piuttosto solo il principio teologico formulato da Gesù. Partiamo allora dalla domanda più immediata: cos’è il matrimonio? Una semplice convivenza umana? Un contratto giuridico? Una forma di vita sociale? Una comunione di vita spirituale? È chiaro che la risposta dipende dal contesto culturale e religioso nel quale il matrimonio viene concepito e vissuto. E ogni contesto propone le ragioni per giustificare la propria idea di matrimonio. Naturalmente noi non possiamo analizzarlo sotto tutti questi punti di vista. Ci limiteremo a quello biblico che lo colloca all’interno del disegno creativo di Dio. Pertanto se vogliamo capire la prospettiva divina occorre acquisire la mentalità biblica di coloro che hanno scritto questi testi[3]. Per farlo partiamo da brano della Genesi, che racconta l’evento creativo con cui Dio ha dato origine alla vita delle cose, da quelle più semplici come la materia inorganica, a quelle più articolate e complesse come i vegetali, gli animali fino ad arrivare all’uomo. Di questo racconto noi abbiamo due versioni, entrambe conservate nello stesso testo biblico. Nella prima, assistiamo ad un crescendo creativo di Dio, quasi ad evidenziare un processo evolutivo, di cui l’uomo costituisce l’apice, perché fatto “ad immagine di Dio” (cf. Gen 1). Nella seconda versione la descrizione della creazione appare più sommaria, ma più pertinente al rapporto tra l’uomo e la donna. L’uomo viene colto all’interno di un giardino, definito Edenche significa delizia, piacere, nel quale viene posato da Dio, con l’esplicito comando di continuare ad esercitare la sua autorità divina (tradotta erroneamente con dominio – con tutte le conseguenze che questo termine ha comportato sul creato –), su tutte le creature, attraverso la facoltà di dare il nome ad ognuna di esse. Un aspetto questo che evidenzia la modalità con cui Dio rende partecipe l’uomo della sua capacità di governare il creato, esercitando la provvidenza. Malgrado questo potere di cui disponeva, l’uomo avverte una solitudine esistenziale, della quale Dio prende atto, decidendo di offrirgli “un aiuto che gli fosse simile” (Gen 2,18), dando così forma alla donna, con una sorta di supplemento creativo: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo … e plasmò dal suo fianco (tradotto solitamente “da una costola”) … una donna” (Gen 2,21-22), subito riconosciuta dall’uomo come “carne della sua carne e osso delle sue ossa” (Gen 2,23). Così mentre tutte le cose vengono plasmate dalla materia originaria, la donna viene tratta dall’uomo, come a sottolineare la stessa origine naturale e la sua indissociabile unità con l’uomo[4]. Essi sono distinti, ma non contrapposti, uniti, ma non uniformi. Maschio e femmina sono complementari, l’uno all’altro. Ecco allora una prima e fondamentale verità della vita relazionale tra uomo e donna: la diversità di genere, costituito dal maschile e femminile, non va pensata in termini di contrapposizione, ma di complementarietà. L’uno realizza e completa pienamente se stesso non da solo, ma nell’altro e con l’altro da sé[5].
Ed è proprio su questa base che viene fondata la realtà del matrimonio. Pertanto, nella visione biblica, esso non costituisce una semplice forma di convivenza umana, ma il luogo in cui l’immagine di Dio si manifesta pienamente.[6] È in questi termini che va inteso il disegno di Dio, secondo il quale: “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola cosa” (Gen 2,24). Questa forma di unità viene riproposta da Gesù, non tanto come un ideale spirituale o morale, ma come chiara interpretazione della volontà salvifica di Dio (cf. Mc 10,6-9). Il che significa che, chi decide di unirsi in matrimonio, senza perdere la propria individualità, deve maturare la decisione di rinunciare a se stesso[7], esattamente come la condizione che Cristo chiede a coloro che si mettono alla sua sequela, e amare l’altro come se stesso. La via della salvezza per entrambi è quella tracciata dall’unità matrimoniale, nel senso che la salvezza dell’uno passa attraverso la salvezza dell’altro. I due sono chiamati a diventare una sola cosa, a vivere cioè all’unisono, esattamente come l’unità divina tra il Padre e il Figlio nello Spirito. Il matrimonio diviene così l’immagine dell’unità divina che si manifesta attraverso l’unione di Dio col suo popolo. Da qui l’immagine sponsale dell’alleanza. Come Dio rimane fedele al patto, malgrado l’infedeltà del popolo, così l’uomo e la donna sono chiamati a rimanere fedele a Dio prima ancora che all’uno all’altro nel matrimonio. Fondamento di questa unione matrimoniale è l’unità che entrambi sono chiamati a realizzare in Dio. Il sì che ciascuno è invitato a pronunciare all’atto del matrimonio è rivolto a Dio prima ancora che al coniuge.
Nonostante questa chiarezza espositiva, la questione del matrimonio continua ad essere dibattuta ancora al tempo di Gesù, a testimonianza di quanto la sua interpretazione religiosa fosse legata a visioni culturali, prevalentemente maschiliste. Esattamente come oggi. La questione mossa dai farisei, tuttavia non riguarda il matrimonio in sé, quanto la possibilità del divorzio. Secondo alcuni farisei tale possibilità era ammessa anche da Dio. Ad avallare questa loro tesi c’era la norma stabilita dallo stesso Mosè, secondo il quale era possibile dare l’atto di ripudio alla moglie e mandarla via (cf. Mc 10,4; Mt 19,7)[8]. L’interpretazione appariva loro così plausibile che fu usata per contrastare la posizione di Gesù, al quale la questione fu sottoposta non tanto per avere una sua visione in merito, quanto per metterlo alla prova (cf. Mc 10,2), ovvero per verificare fino a che punto la sua interpretazione fosse fedele alla Legge mosaica. Gesù nel dirimere la questione non fa sfoggio di argomentazioni complesse, e senza perdersi nei cavilli conduce direttamente i suoi interlocutori al cuore della Legge mosaica, mettendo in evidenza la chiara volontà di Dio circa l’indissolubilità del matrimonio: se l’unione matrimoniale dei due è a immagine dell’unità divina allora “non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce” (Mc 10,9). L’interpretazione di Gesù risulta molto impegnativa ai farisei, i quali, stando alla versione matteana dello stesso episodio, dicono: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10)[9]. Al che Gesù risponde: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,11). Evidentemente l’interpretazione di Gesù risultò difficile agli stessi apostoli, dal momento che in privato chiesero ulteriori spiegazioni (cf. Mc 10,10). E anche in questo caso Gesù non esita a ribadire, con maggiore decisione: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio verso di lei: e se lei ripudiato il marito ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,11-12). L’evangelista Matteo, su questo punto, sembra essere meno restrittivo rispetto a Marco. Nel riportare la risposta di Gesù, ammette un’eccezione: “Chiunque ripudia la moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19,9). Ecco profilarsi il presunto passo biblico col quale si ritiene di giustificare la possibilità del divorzio. Come va intesa questa eccezione? Il termine originale greco tradotto con “concubinato” è porneia che indicava principalmente la prostituzione, ovvero un rapporto sessuale illecito. Tuttavia il termine si riferisce anche a un altro caso, come quello dell’incesto, ovvero dell’unione illegittima tra un uomo e la sua matrigna, accettata dal mondo pagano, ma condannata dal Levitico 18,8; 20,11 e da san Paolo 1Cor 5,1. In pratica si tratterebbe di una relazione fra persone legate da rapporti di parentela o di consanguineità, riconosciuta come causa di nullità del matrimonio.[10]
In conclusione, occorre riconoscere che il matrimonio cristiano è un mistero grande, che nessun può comprende se non dall’interno, ovvero se non decide di viverlo in vista del regno di Dio. “Questo mistero è grande” dice san Paolo agli Efesini, ammettendone l’insondabile conoscenza; ma subito dopo ne offre la chiave interpretativa, aggiungendo: “lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,32). Fuori dalla prospettiva cristiana ed ecclesiale, dunque, il matrimonio si riduce ad una semplice forma di convivenza umana e sociale e difficilmente può essere compreso come luogo manifestativo dell’amore salvifico che Dio nutre per il suo popolo.
Mi piace leggere in questa ottica il riferimento di Gesù ai bambini e che l’evangelista Marco colloca in questo preciso contesto: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”, come a voler dire che chi non accoglie il mistero del matrimonio come un bambino non può comprenderlo (cf. Mc 10,14-15). Il che significa che non è possibile acquisire la visione cristiana del matrimonio se non all’interno di una relazione filiale con Dio, fuori dalla quale risulta particolarmente difficile darne ragione nell’attuale contesto culturale, fortemente caratterizzato da una mentalità individualista ed egocentrica, incapace cioè di vivere e pensare la vita matrimoniale dall’altro e con l’altro. Molti si sposano con l’idea di soddisfare i propri bisogni personali: fisici, sociali, culturali, economici non per condividere una vita d’amore, all’insegna della reciprocità e della complementarietà. Il matrimonio cristiano non è una realtà da affrontare a cuor leggero o come “così fan tutti”. Il contesto culturale attuale non lo permette più. Da qui la necessità di un serio discernimento previo, per affrontare con responsabilità e cognizione di causa una simile scelta, se s’intendono limitare le drammatiche e diffuse conseguenze che la separazione comporta non solo per i due, ma anche per i diversi familiari che ne sono coinvolti.
[1] La discussione viene trattata da una diversa prospettiva nella Chiesa Ortodossa che invece ammette la possibilità del divorzio.
[2] Per rinnovata convinzione religiosa e spirituale s’intende quella capacità con cui i due coniugi riescono a tradurre in una vita matrimoniale i principi evangelici ai quali si ispirano.
[3] Lo scopo non è quello di acquisire “armi teologiche”, con cui intraprendere lotte apologetiche, ma solo quello di fornire dei dati biblici in grado di giustificare le proprie scelte religiose.
[4] Questa unicità della natura umana viene resa molto bene dalla lingua ebraica, secondo la quale “maschio” ish e “femmina” ishà condividono la stessa radice letteraria. In una lingua più vicino a noi questo stesso gioco viene reso dall’inglese, con i termini man “uomo” e woman “donna”. In altre parole maschio e femmina costituiscono, per così dire, due facce dell’unica natura umana.
[5] Questa diversità e complementarietà è insita nel DNA della natura umana e determina la specifica differenza con la quale si qualifica l’identità dell’uomo e della donna. Pertanto non può essere considerata interscambiabile, come sostiene la teoria gender, secondo la quale, l’uomo e la donna, durante il processo formativo ed evolutivo, possono scegliere liberamente di essere l’uno o l’altra, indipendentemente dalla propria condizione originaria. Essi sono sì chiamati all’unità, ma senza tradire la rispettiva identità originaria. L’unità, biblicamente intesa, non prevede l’annullamento della diversità, in tal caso parleremmo di uniformità, ma l’integrazione dell’uno nell’altra. Diversamente si corre il rischio della confusione che nulla ha a che fare con l’unità alla quale vengono entrambi chiamati da Dio. Maschile e femminile costituiscono i due volti dell’unica natura umana fatta ad immagine divina. Distinzione, complementarietà e unità vanno pensati, perciò, come condizioni fondamentali della relazione umana e, nello specifico, della relazione matrimoniale. Esse hanno origine nella stessa vita trinitaria, secondo il dinamismo relazionale dell’unica natura divina in tre persone.
[6] È interessante notare la corrispondenza tra questo principio rivelativo dell’immagine di Dio attraverso l’unione dell’uomo e della donna e il comandamento dell’amore reciproco del “dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono io presente in mezzo a loro” (Mt 18,20).
[7] Una delle cause più frequenti della separazione è l’incapacità di uscire dal proprio individualismo e convertirsi alla rinnovata vita relazionale, prevista dal matrimonio. Molti, pur sposandosi, continuano a vivere con la stessa mentalità adolescenziale, incapaci di assumersi le responsabilità dell’altro.
[8] In realtà la loro visione era viziata dalle interpretazioni provenienti dalle varie scuole bibliche, tra le quali quella più liberale del maestro Hillel, secondo il quale l’uomo poteva ripudiare sua moglie per qualsiasi motivo, anche semplicemente per aver fatto bruciare un pasto; mentre secondo la scuola di Shammai poteva farlo solo in casi estremi, come quello della infedeltà. Hillel e Shammai furono due dottori della Legge del I sec. a.C. che diedero origine a due diverse scuole di pensiero.
[9] A testimonianza di questa interpretazione maschilista è la reputazione della donna, considerata spesso causa del fallimento matrimoniale, ridotta per lo più a oggetto di possesso, atta solo a fare da moglie, madre e custode della casa.
[10] Questa interpretazione traccia la linea seguita dalla Chiesa cattolica, mentre le Chiese ortodosse e protestanti interpretano porneia come adulterio, ovvero come violazione della fedeltà coniugale, benché in greco ci sia un termine specifico per dire l’adulterio che è moikheia. Per Gesù l’adulterio è un atto che viene compiuto non solo dalla donna, ma anche dall’uomo. Da qui la reciproca responsabilità. Etimologicamente il termine “adulterio” significa alterare, corrompere la realtà del matrimonio. Il che significa che se uno ha deciso di sposare una donna non può alterarlo con un’altra relazione.




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