6 Novembre 2022 - Anno C - XXXII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 5 nov 2022
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 16 nov 2022
Mac 7,1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
Il Dio dei vivi

“Che i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè, a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono in lui” (Lc 20,38), è il passo biblico col quale Gesù attesta la realtà della “risurrezione”, tema della 32a Domenica del Tempo Ordinario. In concomitanza alla fine dell’Anno Liturgico la Chiesa ci invita a riflettere sul futuro della nostra esistenza terrena, come a voler fondare la speranza nella vita eterna, alla quale Gesù ci ha aperto con la sua testimonianza di fede sulla comunione di vita col Padre che è nei cieli[1].
Quello appena citato è un versetto di non facile comprensione. Non si capisce, infatti, almeno immediatamente, in che termini la formula: “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe” costituisca per Gesù la prova della fede nella “risurrezione”, già delineata nei testi mosaici della Torah e come venga usata da lui per confutare la tesi dei Sadducei[2] che invece la negano (cf. Lc 20,27). Che forse Abramo, Isacco e Giacobbe non sono morti al pari di tutti gli altri credenti in Dio o che siano risorti dalla morte? Su quale base, allora, egli ritiene che il Dio professato dai patriarchi costituisca il “Dio dei vivi” e la fede in lui sia garanzia di vita eterna? Questa serie di domande ci inducono a calarci nella mentalità biblica di allora, per capire da una parte, le ragioni dello scetticismo sadduciaico e dall’altra, le ragioni che consentono a Gesù di interpretare questa formula come un fondamento della “risurrezione”. Stando alla sua interpretazione tutti coloro che credono nel “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”, pur morendo fisicamente, continuano a “vivere in lui”. Un’affermazione senza dubbio suggestiva, ma che non ci consente di capire ancora a quale tipo di vita allude Gesù, come si acceda ad essa e cosa ne garantisce la sussistenza?
Ma proviamo a capire la questione partendo dall’episodio evangelico, cercando di cogliere il senso della risposta piuttosto articolata di Gesù, secondo il quale viene affermato che la fede nella risurrezione, contrariamente a quello che ritenevano i Sadducei, ha radici antichissime, che risalgono addirittura alla rivelazione di Dio a Mosè, l’unico mediatore che essi prendono in considerazione. L’episodio della disputa viene collocato da Luca a Gerusalemme, la città nella quale Gesù porta a compimento la sua missione salvifica, attraverso gli eventi della passione, morte e risurrezione. Una collocazione questa già fortemente simbolica. Tra i vari argomenti che egli si ritrova ad affrontare con i Farisei, Sommi sacerdoti e Dottori della legge, ve ne uno riguardante la “risurrezione”, vero e proprio cavallo di battaglia dei Sadducei, i quali ritenevano infondata questa verità di fede, semplicemente perché non veniva attestata in nessun luogo dalla Torah[3], unica testimonianza scritta alla quale essi prestavano fede. I Sadducei infatti rifiutavano tutti gli altri scritti profetici e sapienziali, ritenuti non rivelati. Stando alla loro conoscenza l’unica forma di vita era quella biologica, pertanto l’“eternità” della vita veniva garantita dalla discendenza perpetuata dalle generazioni nel tempo. Una mentalità chiaramente empirica, animata da uno scetticismo che esclude ogni forma di trascendenza divina. La loro convinzione scaturisce da una interpretazione esclusivamente letterale dei testi mosaici, secondo la quale la discendenza dei figli è ciò che assicura l’immortalità di una persona nel tempo[4]. Ad avallare questa loro convinzione veniva preso come riferimento scritturistico la norma mosaica, conosciuta come “legge del Levirato” (dall’ebraico levir che significa “cognato”), contenuta nel libro del Deuteronomio 25,5-10 e riportata anche da Luca, nel nostro brano evangelico. Stando ad essa: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello” (Lc 20,28). Secondo questa norma il fratello deve sposare la cognata rimasta senza figli, per garantire il proseguimento della vita della propria stirpe. Da qui la necessità di avere una discendenza. Ne scaturisce una visione che riduce la vita solo a quella terrena. Nessuna altra forma vita viene ipotizzata oltre la morte. Tutto si ferma a questo mondo.
Sulla base di questa norma i Sadducei costruirono un caso ad hoc, preparato esclusivamente per mettere in difficoltà Gesù: “C’erano sette fratelli. Il primo prese moglie, e morì senza figli. Il secondo pure la sposò; poi il terzo; e così, fino al settimo, morirono senza lasciare figli. Infine morì anche la donna. Nella risurrezione, dunque, di chi sarà moglie quella donna? Perché tutti e sette l’hanno avuta per moglie” (Lc 20,29-33). L’argomento, a giudizio dei Sadducei, si presentava estremamente complesso e inconfutabile, primo perché esso veniva previsto dalla legge mosaica; secondo perché non offriva molti margini di interpretazione. A loro avviso Gesù avrebbe dovuto subire uno scacco, e invece dalle sue parole si evince una visione che lascia intuire una sapienza straordinaria, con la quale chiarisce come vada intesa la risurrezione[5] e quali siano le condizioni per accedervi. È interessante notare che Gesù per confutare i sadducei dimostra di sapersi muovere sul loro stesso terreno scritturistico. Un comportamento che ci lascia immaginare anche il suo metodo argomentativo. Anche lui cita la Torah, e precisamente l’episodio del roveto, dove Mosè, nel tentativo di autenticare la rivelazione del nuovo nome divino Javhe, si rifà alla formula dei patriarchi che l’avevano preceduto nella fede: “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”. Eccoci allora giunti al nucleo della nostra questione. Perché Gesù cita questa formula per argomentare la sua posizione? Che interpretazione ne dà? In che senso la pone a fondamento della risurrezione preannunciata da Mosè. Ad una riflessione più attenta prendiamo atto che essa fa riferimento a un tipo di vita relazionale tra Dio e l’uomo, che nella Bibbia viene definita in termini di “Alleanza”, che stando all’interpretazione che ne dà Gesù costituisce l’unica realtà in grado di sfidare l’usura del tempo e il nichilismo della morte. Praticamente l’unica realtà che rimane in eterno. Se c’è dunque una forma di vita eterna questa è l’Alleanza divino-umana che ha origine già qui nella storia. Essa costituisce la condizione fondamentale che predispone l’uomo alla partecipazione della vita divina. Si tratta di una comunione di vita spirituale così reale e concreta che consente a chiunque si relaziona con Dio di vivere in eterno, tanto che neppure la morte fisica è in grado di interromperla. Per Gesù, dunque, non è la vita biologica che si perpetua nel tempo attraverso la prole e la discendenza a garantire l’eternità, come ritenevano i Sadducei, ma la fedeltà all’Alleanza di Dio. Essa è l’essenza della vita, nel senso che “Dio è vita d’amore” e chi rimane in lui vive in eterno (cf. 1Gv 4,16). Pertanto chi rimane fedele alla sua Alleanza diviene “eterno”, ovvero partecipa della stessa vita eterna di Dio. È per questo che i patriarchi, benché siano morti fisicamente, vivono ancora in Lui. L’Alleanza dei patriarchi corrisponde pressappoco a quella che noi in termini cristiani definiamo “relazione d’amore”, sostenendola come l’unica realtà che rimane in eterno. E come tali eterni rimangono anche tutti gli atti compiuti in nome di questo amore. L’eternità alla quale si riferisce Gesù, dunque, non va confusa col “perpetuarsi della vita biologica attraverso la discendenza”, di matrice sadduciaica, tipicamente materialista ed empirista[6], né con l’“immortalità dell’anima”, proveniente dalla filosofia greca che non prevede alcuna morte e risurrezione; e neppure con la “reincarnazione” di origine orientale, dove più che un premio costituisce una condanna, poiché il corpo è costretto a reincarnarsi tante volte prima della sua definitiva purificazione[7]. Essa è una forma di vita dove le leggi biologiche, fondamentali per la sussistenza della nostra vita terrena, non hanno più motivo di esistere, perché vengono sostituite da quelle spirituali, tipiche di quelle relazioni che caratterizzano la vita divina di Dio. Nell’eternità la vita non è più soggetta alle leggi della riproduzione fisica, come accade nell’amore matrimoniale tra l’uomo e la donna, ma a quelle della filiazione divina, dove l’elemento fecondante è la Parola di Dio, trasmessa per mezzo dello Spirito, attraverso l’ascolto e la pratica dell’amore evangelico.
La reale difficoltà a definire questo tipo di vita si evince già a livello evangelico. Gesù, infatti, nel tentativo di spiegarla dice: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono mariti; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito” (Lc 20,34-35). Come a dire che la vita terrena si fonda sulla relazione biologica che ha nel matrimonio, tra l’uomo e la donna, la forma fondamentale della sua trasmissione nel tempo. La vita eterna, invece, non prevede più la relazione fisica di tipo matrimoniale, ma una relazione “angelica” e “filiale”, secondo la quale i soggetti, pur vivendo secondo le leggi della vita biologica, vengono già introdotti nella vita spirituale e divina. Così mentre la vita terrena è soggetta alla legge crudele della morte che ne segna effettivamente la fine biologica, dinanzi alla quale nessuno che abbia solo una mentalità materialista, come i Sadducei, può dire che ci sia un “oltre”. Tutto finisce con la morte. La vita eterna prevede invece un “oltre”, per cogliere il quale occorre uno sguardo di fede, come quello biblico, fondato sulla rivelazione divina, sulla cui base diventa possibile intuire il tipo di vita al quale allude Gesù, quando dice che: “quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito, e nemmeno possono morire, poiché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,36-37).
Come sia questa forma di vita non ci è dato di spiegarla ulteriormente. Malgrado i nostri sforzi essa ci rimane misteriosa, semplicemente perché non disponiamo di alcuna conoscenza diretta, se non quella proveniente dalla rivelazione divina. In questo senso essa rimane un dato di fede, nel quale crediamo perché ci fidiamo fino in fondo di Cristo che ce lo ha rivelato. E non potrebbe essere diversamente dal momento che la fede prevede una fiducia totale nella parola di Cristo. Del resto è nella fede in lui che avremo modo di sperimentarne la verità, esattamente come Marta, quando dinanzi alla morte del fratello Lazzaro Gesù le dice: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” (Gv 11,25-26)[8]. La domanda che Gesù pose, allora, a Marta la pone anche a noi, oggi. Chi crederà, vedrà.
[1] Nel Vangelo di Giovanni Gesù dice: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). [2] I Sadducei – il cui nome deriva dall’antico Zadok (o Sadoq o ancora Zadoq), sommo sacerdote al tempo del re Salomone – erano membri dell’aristocrazia sacerdotale, una classe di ricchi possidenti, si distinguevano dai Farisei e dagli Scribi per un modo di interpretare la Scrittura basato sul ragionamento empirico. Una sorta di fede razionale, tutt’altro che scomparsa, che pensa di risolvere i problemi con la forza del ragionamento, più che sull’argomentazione animata dalla tradizione dello Spirito rivelativo di Dio. [3] Secondo la tradizione ebraica del Talmud (raccolta dei libri contenenti i commenti interpretativi delle norme giuridiche, morali e religiose del popolo ebraico) la Torah è la testimonianza di fede scritta da Mosè. Essa è costituita da Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio che formano il cosiddetto Pentateuco (dal greco pentateukhos, composta da penta = cinque e teukhos = astuccio, letteralmente “astuccio per libri”), ovvero il nucleo fondativo della Legge mosaica, perché contiene le norme religiose, morali e sociali della fede giudaica. [4] Lo scetticismo dei Sadducei dipende dalla convinzione che lo Sheol è per loro non solo il regno dei morti, ma anche la risposta ultima della vita: il nulla. Per essi tutto il senso della vita biologica è immanente: comincia e si conclude in essa. La stessa fede in Javhè si riduce a dare una ragione di senso solo a questa vita. [5] Benché la risurrezione costituisca una verità rivelata, rimane una realtà alla quale l’uomo biblico è giunto solo gradualmente e non senza difficoltà interpretative. Alcuni salmi neppure la contemplano, parlando della morte come la fine di tutto: “Chi negli inferi canta le tue lodi?” (cf. Sal 6,6); “Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre a darti lode? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, e la tua fedeltà negli inferi? Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi prodigi, e la tua giustizia nel paese dell’oblio? (Sal 88,11-13). Il modo invece in cui viene intesa nel libro dei Maccabei, nello specifico brano propostoci dalla liturgia, appare già sgrossato, rispetto per esempio del profeta Amos, o ancora al libro di Giobbe, dove la risurrezione è intesa come possibilità di guarire da una grave malattia, considerata come una forma di morte o discesa agli inferi. Nella riflessione teologica ebraica l’idea della risurrezione si fonda sulla convinzione che Dio ha potere non solo sulla vita, ma anche sugli inferi. Essa comincia ad essere timidamente considerata da alcuni libri, tra i quali Maccabei e Daniele. Da Gesù viene predicata e individuata già in alcuni passi biblici, tra i quali quello dell’Esodo, come ci riferisce il Luca 20,37. [6] Se la vita si riducesse solo a quella biologica e terrena, come sostenevano i Sadducei, non sia capisce allora per quale motivo nell’episodio narrato dal libro dei Maccabei, dove “i sette fratelli che vengono presi insieme alla madre” per essere torturati dal re Antioco a causa della loro fede, siano stati disposti a morire, se non avessero avuto la certezza della vita nuova oltre la morte (cf. 2Mac 7,9). [7] Senza contare che la “reincarnazione” per il fatto che prevede il ritorno alla vita in una creatura diversa dall’uomo (che può essere animale o vegetale) interrompe la continuità e l’unità identitaria dell’essere originario. [8] La risurrezione, tuttavia, che noi molto spesso associano immediatamente alla vita eterna, in realtà è solo una condizione di accesso alla comunione con Dio. Infatti, come afferma il profeta Daniele in 12,2 e successivamente ripreso da Gesù in Gv 5,28-29, tutti risorgeranno, ma non tutti risorgeranno alla vita eterna. Per alcuni, infatti, la risurrezione sarà per la dannazione, la vergogna e l’infamia eterna, per altri invece, alla gloria eterna. Mentre la prima condizione è il risultato del rifiuto di Cristo, la seconda è un dono che egli concede gratuitamente a chiunque lo riconosce come Figlio di Dio, salvatore del mondo. L’una o l’altra possibilità è determinata dalle nostre scelte di fede compiute nella vita quotidiana. Queste possono condurre tanto ad un punto di non ritorno qual è l’inferno, tanto alla comunione piena, qual è il paradiso.




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