6 Giugno 2021 - Corpus Domini Anno B
- don luigi
- 6 giu 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Es 24,3-8; Sal 115/116; Eb9,11-15; Mc 14,12-16.22-26
Verso uno stile di vita eucaristico

Oggi celebriamo la solennità del Corpus Domini, attraverso la quale la Chiesa ci invita a riscoprire la sorgente che alimenta la sua fede nell’Eucaristia. Tale festa ci riporta, infatti, direttamente all’istituzione dell’Eucaristia, avvenuta il Giovedì Santo, durante l’Ultima Cena, come ci ricorda il brano evangelico di Marco 14,12-16.22-26. Entrambe infatti hanno come oggetto il Corpo e Sangue di Cristo. Tuttavia mentre l’Eucaristia pone l’accento sull’amore che è all’origine del mistero salvifico di Cristo, il Corpus Domini intende evidenziare l’amore che la Chiesa nutre per Cristo e per la comunione con lui. Occorre perciò entrare in questo dinamismo d’amore reciproco, per capire la ragione storiche e spirituali che hanno portato la Chiesa ad istituirla, il nucleo propulsivo che la rende viva e soprattutto le conseguenze che essa ha per la vita spirituale personale, ecclesiale e sociale, al fine di evitare quell’atteggiamento devozionistico, tipico di coloro che tendono a ridurre tale festa ad una celebrazione esclusivamente intimistica.
La festa venne istituita originariamente nel 1246, in Belgio, grazie alla visione mistica di una suora di Liegi, la beata Giuliana di Retìne la quale, durante un’estasi, comprese che nella Chiesa del suo tempo mancava ancora una solennità in onore del SS. Sacramento. Due anni più tardi, papa Urbano IV, la estesa a tutta la Chiesa, a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, nel quale dall’ostia consacrata uscirono delle gocce di sangue a testimonianza della presenza reale del Corpo di Cristo. La festa venne istituita anche per far fronte ai Patarini[1] che in quel tempo negavano il Sacramento dell’Eucaristia (cf. FC, 3/4/2021). Si tratta dunque di una solennità con la quale la Chiesa intende portare al centro dell’attenzione il sacrificio di Cristo, inteso come manifestazione di un’esistenza vissuta esclusivamente a favore del prossimo, quale espressione di un amore che nasce e si radica profondamente in quello di Dio (cf. Mc 12,28-34). In questo senso le parole pronunciate sul pane e sul vino, durante l’Ultima Cena, vanno comprese nell’orizzonte di tutta la sua vita evangelica. Esse prefigurano ed esprimono quell’amore che egli compie realmente durante la sua passione e morte. Come il pane anche la sua vita è spezzata e donata; come il vino anche la sua esistenza è pigiata e versata, realizzando in questo modo quel suo detto, secondo il quale: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Partecipando dell’eucaristia ogni credente non fa che rinnovare e ribadire la sua decisione di condividere la stessa logica d’amore che ha caratterizzato la vita di Cristo e quindi la scelta di continuare ad estendere nel tempo e nel mondo la stessa causa evangelica. Per la sua attualizzazione, pertanto, egli non può limitarsi alla sola celebrazione liturgica, ma, come Cristo, è chiamato a concretizzare il suo amore nelle varie forme di “passione e morte” che si manifestano durante la sua vita quotidiana. Anche per lui eucaristia-passione-morte costituiscono un tutt’uno inscindibile. In questo senso la sua celebrazione eucaristica è tanto più autentica e credibile, quanto più concreto ed evidente è l’amore che egli compie verso il prossimo, inteso come manifestazione dell’amore che nutre per Cristo. È in questo binomio inscindibile che si compie il sacrificio eucaristico nel senso più pieno del termine.
Un amore vissuto in questi termini diventa testimonianza della presenza viva ed operante di Cristo nella Chiesa e nel mondo, attraverso il quale la promessa di Cristo: “Ecco, io sarò con voi sempre, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), divine attuale ed evidente. Si tratta ovviamente di un amore che necessita di essere trasfigurato dallo Spirito, allo stesso modo con cui lo Spirito trasforma la sostanza delle specie del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo. È chiaro che non si tratta di una presenza fisica di Cristo, ma spirituale, mistica ed eucaristica. Spirituale, perché Cristo continua a vivere nella forma del Cosolatore, che accompagna, guida e protegge i discepoli in tutte le loro vicende della vita (cf. Gv 14,16), in modo particolare attraverso quell’intelligenza che consente loro di scrutare ed avere una conoscenza sempre più viva, profonda, piena ed estesa del mistero della vita di Cristo, della sua identità e missione salvifica (cf. Gv 15,26); mistica, perché continua a vivere nel corpo della Chiesa, che “cresce in età sapienza e grazia” (cf. Lc 2,52), attraverso la multiforme varietà dei membri e carismi che la costituiscono (cf. 1Cor12-14); eucaristica, perché facendo memoria del dono che Gesù ha fatto di sé nella passione e morte, i discepoli rendono viva la sua presenza attraverso il comandamento dell’amore reciproco (Gv 15,1-17), così che tutte le volte che un suo discepolo, come Gesù, fa dono della sua vita per gli amici (cf. Gv 15,13), attualizza l’eucaristia, diventando sacramento di salvezza, per quanti credono nel suo amore.
Conformato a Cristo il discepolo diventa egli stesso alter Cristus: sacramento di comunione della Chiesa con Dio e di salvezza di Cristo nel mondo. Egli diventa l’immagine realizzata dell’uomo nuovo, di cui Cristo è la prefigurazione escatologica. Attraverso la sua testimonianza eucaristica Cristo entra in comunione col mondo, realizzando quell’anelito di salvezza che è insito nel cuore di ogni uomo e donna e, stando a san Paolo, perfino nel creato (cf. Rm 8,19-23).
È in questa ottica eucaristica che si comprende il senso della Lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-15), con cui Giovanni sostituisce il racconto dell’Ultima Cena. Nella visione giovannea la lavanda dei piedi compiuta da Gesù costituisce la forma più autentica dell’amore evangelico, di chi pur potendo esercitarlo come forma di prestigio religioso, lo pratica ponendosi al servizio degli altri. Essa traduce quell’amore oblativo che è alla radice del sacrificio mosaico, di cui il brano biblico tratto dal libro dell’Esodo (cf. Es 24,3-8), evidenzia il mistero salvifico attribuito al sangue dei giovenchi sacrificati. Secondo la visione religiosa veterotestamentaria il sangue aveva un potere apotrapaico, che serviva cioè ad allontanare o a ridurre un influsso del male e, nello specifico, del peccato. Nei giovenchi sottoposti al sacrificio il sacerdote faceva confluire tutti i peccati del popolo, che venivano consegnati a Dio attraverso l’olocausto. In questo modo i peccati venivano ritenuti perdonati. Col rito dell’aspersione del sangue sacrificato il sacerdote comunicava al popolo la rinnovata riconciliazione divina. Il sangue, infatti, era ritenuto simbolo della vita, elemento principale attraverso cui la vita divina fluiva di nuovo nel corpo delle creature. Esso diventa così segno dell’alleanza ricostituita tra il Signore e il suo popolo (cf. Es 24,8).
È su questa comprensione veterotestamentaria che si innesta la riflessione teologica dell’autore della lettera agli Ebrei (cf. Eb 9,11-15), secondo il quale il sangue di Cristo, ancora più di quello dell’animale, non solo perdona i peccati, ma estingue perfino l’influsso del potere del maligno sull’uomo. Se Mosè attribuisce al sangue di un animale sacrificato un simile valore riconciliativo, ancor più quello di Cristo ne realizza la redenzione. Cristo, infatti, a differenza dell’animale che viene sacrificato, suo malgrado, si sottopone liberamente e volontariamente alla sua “passione e morte”. Pertanto questo atto non è da intendersi come sacrificio compiuto da Dio, il quale, in quanto Dio, non necessita di sacrificare niente a nessuno, quanto come espressione del suo amore oblativo per l’umanità. La logica che anima il sacrificio di Cristo non è la sofferenza in sé, ma il dono che intende fare del suo amore. Il sacrificio non è finalizzato a se stesso, ma è un modo attraverso il quale egli veicola il suo amore per le persone. Non è il sacrificio in sé che redime, ma l’amore offerto come dono. Il sacrificio è solo un segno che attesta la capacità di rinunciare a ciò che si ha di più caro. È la partecipazione all’amore libero e gratuito di Dio che trasfigura e redime le persone. Solo l’amore salva. È per questo amore immenso e traboccante che nutre per ogni uomo e il mondo che Dio è disposto a donare perfino suo Figlio. Fuori di questo amore il sacrificio genera solo sofferenza. Vissuto come espressione dell’amore gratuito diventa luogo di trasformazione spirituale, morale e intellettiva e suscitando la consegna libera di sé all’altro, genera comunione. Chi si lascia trasfigurare dall’amore di Dio diventa a sua volta sorgente d’amore divino. Un amore simile nasce dalla gioia di sentirsi amato da Dio e genera gioia di amare lui nel prossimo. È alla luce di questo dono che si giunge non solo a fare dono di un qualcosa di sé, ma addirittura a fare dono della propria vita per l’altro. Inserito in questo vortice d’amore del Padre, Cristo vive la sua passione e morte come atto di consegna libero e volontario, testimoniando così che la sua vita non è tolta, ma consegnata e donata (cf. Gv 10,18). L’eucaristia diventa così cifra di uno stile di vita, espressione di una mentalità tesa a trasfigurare la vita per mezzo dell’amore. Essa diventa un perenne rendimento di grazie, che induce cioè a vivere la vita come eterna gratitudine. Vivere eucaristicamente significa perciò rimanere costantemente nella delizia dell’amore di Cristo.
Ecco allora il senso più autentico e vero della celebrazione del Corpus Domini: vivere la propria esistenza come dono per gli altri e l’amore con loro come luogo di comunione con Dio. Ricompresa in questi termini la festa del Corpus Domini assume un valore fondamentale per la nostra vita spirituale, attraverso la quale l’amore evangelico diventa lo stile di vita ecclesiale e sociale. La necessità di un simile stile di vita diventa tanto più urgente, quanto più avvertiamo sulla nostra pelle i drammatici epiloghi di quella cultura individualista che caratterizza perfino la nostra vita ecclesiale, nella quale non mancano i casi di quella suggestione di autosufficienza, che è all’origine del peccato dell’uomo. Quello evangelico è uno stile di vita certamente non facile da perseguire, specie in quegli ambiti di vita sociale in cui il nemico esercita con maggiore facilità i suoi influssi maligni, per questo motivo la sua pratica richiede quell’eccedenza d’amore che è alla base della missione stessa di Gesù e di ogni suo discepolo. Fuori di questa eccedenza d’amore non è possibile amare questa umanità. Solo chi entra e si lascia impregnare dalla logica eucaristica crea e genera una mentalità ecclesiale, ovvero traduce e manifesta, nella complessità delle relazioni interpersonali, quell’amore che esprime la vita trinitaria di Dio. La sua celebrazione liturgica pertanto mira ad una visione pasquale della vita personale ed ecclesiale. Chi vi partecipa decide di voler fare propria la logica trinitaria della vita di Cristo e il suo anelito ad estenderla al mondo intero (cf. Lc 12,49-50). Entrare in questa logica significa consegnarsi all’altro fino a dare la vita. E come l’eucaristia nutre la vita spirituale dell’uomo, così egli a sua volta, morendo, diventa nutrimento della terra, per la salvezza del mondo (cf. C. Lubich).
Per amare secondo lo stile evangelico, oggi, non basta più quella semplice ‘imitazione di Cristo’, che ha caratterizzato la nostra infanzia spirituale ed ecclesiale, occorre una scelta matura, libera e consapevole che solo un innamorato di Cristo e della sua causa evangelica può compiere. Auguro a ciascuno di giungere a questa maturità spirituale per scoprire il segreto del perenne innamoramento di Cristo che spinge tante persone a farsi dono per gli altri.
[1] Il movimento dei patarini nacque in seno alla Chiesa milanese medioevale, intorno alla metà dell’XI secolo. In origine sorsero come lotta contro la simonia, il matrimonio dei preti in generale contro tutte le forme di ricchezze e corruzioni morali delle alte cariche ecclesiastiche, in particolare degli arcivescovi di Milano. Verso la fine dell’XI secolo, però, a seguito della ricomposizione dello scisma e delle tensioni tra Roma e Milano, il movimento perse tutto il suo vigore e unità e finì per diventare un movimento ereticale critico nei confronti della gerarchia ecclesiastica in generale.




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