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6 Agosto 2023 - Anno A - Trasfigurazione del Signore


Dan 7,9-10.13-14; Sal 96; 2Pt 1,16-19; Mt 17,1-9


Estendere al mondo

l’opera trasfiguratrice di Cristo


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“In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2).

“Non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria giunse a lui questa voce: ‘Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto’. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).

Questi appena citati sono i passi biblici che attestano l’episodio della Trasfigurazione di Cristo – di cui, oggi, celebriamo la solennità – e la testimonianza che l’apostolo Pietro fa dello stesso evento, al quale lui partecipò personalmente, insieme a Giacomo e Giovanni. Quest’ultima, in particolare, costituisce per noi una dichiarazione fondamentale, non solo perché è resa da un testimone oculare, ma perché ci spinge ad andare al di là di quei pregiudizi culturali che potrebbero indurci a considerata questo straordinario evento divino parte di “una favola artificiosamente inventata”, come afferma lo stesso Pietro, mentre invece intende rivelarci il segreto della forza rinnovatrice dello Spirito che Dio stesso, per mezzo di Cristo, ha impresso nella vita del mondo.

Sollecitati da questa testimonianza apostolica, dunque, ci sentiamo interpellati a capire non solo il senso teologico di questo evento divino, ma anche il modo con cui accogliere questa sua eredità, così da continuare nel tempo l’opera trasfiguratrice di Cristo. Si tratta allora di individuare gli elementi che strutturano questo episodio, che l’evangelista Matteo sembra suggerirci già a partire dal contesto narrativo, entro cui colloca il suo racconto. L’evento, infatti, è preceduto da tre brani evangelici che hanno come tema: la professione di fede di Pietro (cf. Mt 16,13-20), il primo annuncio della passione (cf. Mt 16,21-23) e le condizioni della sequela (cf. Mt 16,24-28). Tre aspetti molto significativi – per altro condivisi anche da Marco e Luca – che costituiscono la chiave di lettura per addentrarci nel mistero dell’identità divina di Cristo, di cui la Trasfigurazione è un episodio rivelativo, come dichiara la voce che proviene dalla nube: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5). La comprensione dell’episodio sembra allora presupporre questi tre elementi imprescindibili: l’apertura della mente alla rivelazione di Dio, la docilità alla logica della croce e la disponibilità al rinnegamento di sé. Non a caso l’argomento intorno al quale ruota la discussione di Gesù con Mosè ed Elia, apparsi insieme a lui nella gloria, verte proprio sul “suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme”, come attesta più esplicitamente l’evangelista Luca 9,31. Il che significa che la passione e morte di Gesù, lungi dall’essere considerate un fallimento, vengono prospettate, invece, come le condizioni per portare a termine l’esodo salvifico di Dio iniziato con Mosè, e compiuto da Cristo attraverso il suo passaggio dalla morte alla risurrezione. Ecco allora dischiudersi il senso teologico dell’evento: la Trasfigurazione rivela agli apostoli l’identità divina di Gesù, attestata direttamente dalla voce del Padre che lo dichiara “suo Figlio prediletto”. Una dichiarazione che rivela non solo l’identità filiale di Gesù, ma anche l’immagine autentica dell’uomo secondo il cuore di Dio (cf. 1Sam 13,14; At 13,22). Gesù incarna, per così dire, l’ideale umano da sempre agognato da Dio. Egli è quello che più di tutti soddisfa i suoi desideri e perciò diventa per lui motivo di gioia. Da qui l’imperativo: “Ascoltatelo!”. Ovvero prendete in seria considerazione tutto ciò che dice e fa, poiché nessuno più di lui ha rivelato più chiaramente la sua volontà, nessuno più di lui ha svelato l’uomo a se stesso (Gaudium et spes, 19-22; 33-39; 57-62).

La sua “gloria”, tuttavia, si palesa in modo del tutto diverso rispetto alle attese umane: non secondo la prassi del potere e del dominio, ma attraverso la sua totale obbedienza alla logica della passione e morte, quale condizione della fedeltà al piano salvifico divino (cf. Fil 2,5-11). Gesù viene quindi riconosciuto come colui che porta a compimento la legge di Mosè e le promesse dei profeti, di cui Elia è rappresentante autorevole. Egli è la shekinà, ovvero la vera “tenda”, la vera “dimora” di Dio tra gli uomini (cf. Gv 1,14), l’unico nome nel quale “è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Si spiega così la dimensione apocalittica dell’episodio, secondo la quale Cristo viene presentato come il profeta ultimo e definitivo, al quale è stato conferito ogni potere in cielo e in terra (cf. Mt 28,18). Una dimensione questa che viene ulteriormente confermata dalla prospettiva pasquale con la quale Matteo rilegge l’episodio, come attesta l’espressione introduttiva all’evento: “Sei giorni dopo” (Mt 17,1). La Trasfigurazione diventa così preludio della Risurrezione, lasciandoci intravedere già ora lo splendore della vita divina prospettata da Cristo.

Come non immaginare in questa luce mistica la gioia sperimentata da Pietro e dai suoi compagni: “Signore è bello per noi essere qui. Se vuoi farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). La bellezza della quale vengono resi partecipi gli apostoli è senza dubbio frutto della straordinaria esperienza teofanica di Dio, che Cristo estende al mondo intero: ogni cosa viene fatta oggetto della sua opera trasfiguratrice. Non solo “il suo volto brillò come il sole”, ma persino “le vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,2). Se Mosè, scendendo dal Sinai, coprì il suo volto col velo, Gesù rende del tutto evidente quello del Padre. In lui il Padre si lascia definitivamente vedere, superando gli antichi timori religiosi: “Nessuno uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,21). Con lui assistiamo a una totale identificazione col Padre, tanto da poter dire: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9). Nessuno prima di lui aveva osato così tanto.

Cosa comporta per noi questa esperienza teofanica di Cristo? Di quale responsabilità egli ci investe? Forse non c’è un passo biblico più esplicito di quello paolino per rispondere a queste domande, quando rivolgendosi ai Colossesi dice: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore della suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Come Paolo, ciascuno di noi è chiamato a continuare e a completare in sé e nel mondo ciò che manca all’opera trasfiguratrice di Cristo. “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio … e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19.21). Non è forse questa l’opera universale alla quale Cristo ci chiede di mettere mano attraverso la potenza rinnovatrice del suo amore evangelico?

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