5 Settembre 2021 - XXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 4 set 2021
- Tempo di lettura: 7 min
Is 35, 4-7; Sal 145; Gc 2, 3-5; Mc 7, 31-37
Effatà: apriti e esci da te stesso

L’ipocrisia costituisce – come abbiamo visto domenica scorsa – il principale motivo di polemica tra Gesù e i farisei. Tale atteggiamento si manifestava principalmente nella loro interpretazione della Legge, particolarmente incentrata sull’osservanza tradizionale e formale che, secondo Gesù, impediva di giungere alla sua essenza, di praticare cioè il “sacrificio di lode”, consistente nella reale trasformazione del cuore secondo la volontà di Dio. A questa controversia fa seguito la discussione sul “puro e sull’impuro” (cf. Mc 7,14-23), che per i farisei costituisce il criterio per definire cosa sia o non sia peccato: per Gesù invece l’impurità non sta nell’assumere un cibo contaminato e neppure nel trasgredire una norma proveniente dalla tradizione religiosa culturale, quanto nell’avere un cuore impuro, capace cioè di decidere pensieri e maturare scelte di vita contrarie al piano salvifico di Dio. È qui che l’uomo necessita di trasformare e conformare i suoi pensieri a quelli di Dio (cf. Is55,1-11). Ne scaturisce un’esigenza purificativa del cuore, inteso come centro decisionale dell’uomo.
In questa prospettiva teologica gli episodi che Marco fa seguire nel suo Vangelo (quello della Donna siro-fenicia cf. Mc 7,24-30 e quello della Guarigione del sordomuto cf. Mc 7,31-37), vengono proposti come percorsi di purificazione, e quindi come condizione per giungere ad un’autentica conversione. Noi ci soffermeremo solo sul secondo episodio, che presenta una struttura intrinsecamente battesimale, modulata sulla logica del cammino esodale. Il miracolo del sordomuto esprime simbolicamente la durezza del cuore a quindi l’incapacità di ascoltare e proclamare la parola di Dio che, alla luce della fede biblica, è la massima espressione di peccato, per questo motivo necessita di un intervento liberatorio di Dio, simile a quello raccontato nel libro dell’Esodo. In questo senso esso traccia il cammino del nuovo esodo, a cui è chiamato il popolo d’Israele, deportato in Babilonia, così come ci racconta Isaia nella prima lettura (cf. Is 35,4-7). Quest’ultima pertanto ci fornisce la chiave di lettura per comprendere il brano evangelico.
Riletto in chiave esodale vediamo che Gesù, nel brano, si comporta col sordomuto esattamente come Dio si comporta col suo popolo, durante l’uscita dall’Egitto e il cammino nel deserto. Anche Gesù, infatti, come il popolo d’Israele si trova in pieno territorio pagano quando gli viene presentato un sordomuto. In realtà più che “sordomuto”, Marco usa un termine che indica un uomo che farfuglia, “moghilalo”, che parla poco e male. Alla radice di questa difficoltà espressiva c’è la sordità, che allude alla mancanza di ascolto della parola di Dio. Il parlare male e la sordità sono alla base di qualsiasi difficoltà relazionale di una persona col mondo esterno. Ciascuno comunica con la realtà oggettiva ascoltando e parlando. Un bambino impara a parlare imitando il suono delle parole di quanti lo circondano, attraverso le quali apprende anche i loro contenuti. Questa caratteristica, tipicamente umana, è alla base anche della relazione dell’uomo con Dio. Solo ascoltando e comunicando con la sua Parola noi impariamo a conoscerlo e a vivere con lui e di lui.
Questo sordomuto non conosce la parola di Cristo, semplicemente perché non l’ha mai ascoltata, perciò per accostarsi a lui ha bisogno di essere condotto dagli altri (cf. Mc 7,32), i quali intercedono per lui e per la sua salvezza. È bello vedere in questa semplice operazione di accompagnamento quella di tante persone che ci hanno guidato alla fede e insegnato a capire e a conoscere Dio, durante l’infanzia. Forse è già a questi livelli che comincia la preghiera di intercessione. Attraverso il loro operato e le loro preghiere noi veniamo continuamente portati e consegnati a Dio. Solo Dio conosce l’efficacia delle preghiere di tanti che in silenzio e nel nascondimento pregano incessantemente per noi.
Anche Gesù, come Dio col suo popolo, prende questo uomo “in disparte” (Mc 7,33), lontano dalla folla, loro due soli. Egli lo “separa” dall’abituale contesto ordinario e quotidiano, non tanto per dividerlo dai suoi, quanto per congiungerlo a sé. L’atto del “separare” è tipico di chi entra nella dimensione sacra o religiosa della vita. Il chiamato si separa dal mondo per meglio predisporsi all’ascolto della voce di Dio. È questa anche la dinamica del cammino battesimale. Il distacco dal mondo non è solo un motivo morale, ma una condizione pedagogica. Dio per prepararci alla sua vita ha bisogno di relazionarsi personalmente con ciascuno di noi e ciò può avvenire solo se anche noi prendiamo le distanze dalla logica della vita del mondo.
La salvezza impegna Gesù anche sotto l’aspetto fisico: il suo operato richiama l’atto originario e creativo di Dio, al momento della creazione. Quando Dio crea lo fa con la potenza della suaparola e del suo braccio, intendendo con quest’ultimo l’opera con cui traduce nella realtà ciò che dice con la parola: “Sia la luce, e la luce fu” (Gen 1,3). Parola e opera costituiscono perciò le caratteristiche principali dell’atto creativo di Dio e quindi anche di Gesù. Ciò diviene particolarmente evidente negli elementi che caratterizzano questo miracolo, contrassegnati anch’essi da un simbolismo battesimale: il tocco delle dita attraverso le quali egli veicola la sua energia creativa e vitale (cf. Mc 7,33); la saliva che è una sorta di condensa del respiro divino (cf. Mc 7,33), per mezzo della quale Gesù rende partecipe l’uomo dello stesso alito divino e quindi della sua vita trinitaria, quella vita originata dalla sua relazione d’amore. Anche il rituale che Gesù segue è ricco di simbolismo teologico: prima di procedere col miracolo, egli guarda verso il cielo, emettendo un profondo respiro, come a voler attingere dal Padre la sua energia trasfigurativa, attraverso l’alito. È dopo aver ristabilito questo contatto originario e vitale, che egli pronuncia la parola “Effatà!”, cioè “Apriti!” (Mc 7,34). Marco avverte l’esigenza di riportare questa parola direttamente in aramaico, la lingua parlata da Gesù, come a voler trasmetterci anche il suono della potenza creativa. La sua parola diventa così luogo in cui converge, concentrandosi, tutta l’energia creativa di Dio e al contempo mezzo espressivo che ne attualizza l’opera. La parola di Gesù, perciò, non è, come per noi, solo un mezzo di comunicazione, ma la condizione creativa con cui riattualizza, nell’oggi della sua fede, l’opera creativa di Dio. Essa ha il potere di ricondurre il sordomuto al suo principio creativo, al momento primordiale della sua esistenza, ristabilendo le condizioni originarie della sua vita: infatti “subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente” (Mc 7,35). Per la prima volta nella sua vita questo uomo ha modo di sperimentare le straordinarie possibilità della sua persona. Esse erano rimaste tacite e inespresse e trovano, ora, a contatto con Gesù, la possibilità di essere esplicitate in tutta la loro potenza comunicativa.
Parlare correttamente significa parlare con senso, tale da farsi capire. Farfugliare, invece, significa emettere solo dei suoni, privi di senso. Questo limite non era dovuto ad un difetto di pronuncia, come può essere la dislessia, ma ad un mancato ascolto della parola stessa. Lui non sapeva parlare perché non aveva mai sentito parlare. Gesù apre il suo udito all’ascolto e sblocca la sua capacità espressiva. In senso spirituale parlare correttamente significa saper dire Dio e comunicare la sua vita divina.
Sotto l’aspetto antropologico e teologico Gesù aiuta questo uomo ad uscire dalla sua chiusa individualità e lo pone nella condizione di aprirsi agli altri. In altre parole gli fa compiere il cammino proprio del chiamato: lo fa uscire da sé – come Abramo– e lo costituisce popolo di Dio – come aveva fatto con Israele per mezzo di Mosè –. Nel cammino cristiano tutto ciò significa diventare parte integrante della Chiesa. L’uscita da sé, dalla propria individualità e più specificamente dal peccato è certamente l’esodo più difficile da attuare nella nostra vita. In questo senso il nostro vero esodo è il cammino verso l’essere persona, che consiste essenzialmente nell’acquisire una progressiva relazione trinitaria ed ecclesiale. È questa la vera conversione alla quale è chiamato ogni discepolo di Cristo. La vita ecclesiale costituisce in questo senso il culmine del cammino esodale. Essa è la terra che Dio ci ha promesso e alla quale egli continuamente ci chiama. La Chiesa è la società umana costituita dalla relazione trinitaria. E questo è un cammino che trascende tutta la nostra esistenza. Noi non finiremo mai di essere persona, perché la relazione trinitaria è il moto perenne dell’amore. Il suo compimento sarà infinito ed eterno, esattamente come quello di Dio, “poiché di lui stirpe noi siamo” (At 18,28).
Il commento evangelico potrebbe terminare qui, ma Marco ci offre ancora un’annotazione che ci fa cogliere più da vicino la metodologia salvifica di Gesù. Egli la traduce con la forma di un imperativo: “E comandò loro di non dirlo a nessuno” (Mc 7,36). Il nascondimento di Gesù è tipico della dinamica rivelativa dello Spirito. Egli si nasconde per esaltare l’opera del Padre e del Figlio. Allo stesso modo anche Gesù tutto ciò che dice e fa lo compie in vista del Padre. Questa è essenzialmente la sua opera: rivelare il Padre (cf. Gv 17). Il modo segreto con cui egli compie la sua opera rimanda alla piccolezza del granello di senape e alla kenosi del chicco di grano, nonché al silenzioso diffondersi del Regno, di contro all’evidente procedere sontuoso, sfarzoso, grandioso dell’impero umano, secondo la logica del mondo. Una logica questa purtroppo diffusa anche nella Chiesa e non solo tra i laici. Quanto siamo lontani dalla logica evangelica di Cristo perfino noi suoi sacerdoti. Così, mentre noi facciamo le cose spesso in vista del nostro nome e della nostra immagine, Gesù opera di nascosto e pur proibendo alle persone di parlare, ne è esaltato e glorificato. Questa è la logica paradossale del Vangelo. Proviamo a convertirci ad essa e sono certo che Dio esalterà quanti confidano solo nella sua grazia, esattamente come canta Maria nel suo Magnificat: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; / ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili” (Lc 1,51-52). L’umiltà costituisce perciò la virtù che ci educa ad avere lo sguardo stesso di Dio. Praticarla significa imparare a vedere le persone nella loro essenza, senza fare distinzione tra i ceti sociali, come purtroppo accade perfino nella comunità ecclesiale guidata da Giacomo (cf. Gc 2,1-5). Interroghiamoci allora se tale criterio non persiste ancora anche nelle nostre comunità parrocchiali.




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