5 Gennaio 2025 - Anno C - II Domenica dopo Natale
- don luigi
- 4 gen
- Tempo di lettura: 7 min
Sir 24,1-4.12-16 (gr. 24,1-2.8-12); Sal 147/146; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
La speranza cristiana

“Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo … vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi” (Ef 1,18).
Più che mai attuale e in perfetta sintonia con le indicazioni giubilari del papa, è questo versetto paolino, che ci stimola a sviluppare una riflessione sulla speranza. Noi cogliamo l’occasione che la Liturgia ci propone, per conoscere le radici antropologiche di questo atteggiamento, di capire la sua dinamica e soprattutto il contenuto specificamente cristiano.
A quale speranza siamo chiamati? Come accrescerla nella nostra vita? Perché è così importante sperare? È possibile vivere senza di essa? Come custodirla contro le attuali minacce culturali? Per rispondere a queste domande occorre in primo luogo capire: cos’è la speranza? Senza pretendere di voler dare una definizione univoca, potremmo dire che la speranza è la tensione verso un obiettivo o un ideale di vita che viene ritenuto giusto, buono e fondamentale. Non importa quale esso sia e a quale ambito appartenga: intellettuale, morale, culturale, religioso, spirituale. In ogni caso si tratta di qualcosa verso il quale si nutre l’attesa del suo compimento. Nella prospettiva cristiana essa assume un’importanza così fondamentale, da essere annoverata, insieme alla fede e alla carità, tra le virtù teologali, ovvero quelle disposizioni spirituali che contribuiscono a far conoscere Dio e a ritenere concrete e attuabili le sue verità.
Ogni persona spera in qualcosa. Alcuni sperano di possedere i beni materiali e ripongono in essi tutte le loro aspettative, convinti che la vita consista solo nell’appagare le esigenze fisiche, alimentari, biologiche, procreative, vestiarie ... Altri sperano di realizzare i sogni della loro vita personale, come un matrimonio, un impiego professionale, sociale, politico, culturale, sportivo … Altri invece avvertono l’esigenza di dedicarsi anche a valori collettivi e universalmente condivisi, come la vita, la salute, l’amore, l’amicizia, la famiglia, la giustizia, la pace, la libertà, l’ecologia ... Vi sono poi anche quelli che nutrono speranze verso gli ideali di altruismo, dettati dalla generosità, come può essere il volontariato o una qualsiasi altra forma di solidarietà umana gratuita. E altri che invece nutrono la speranza verso un qualcosa che va al di là del loro benessere personale, sociale, materiale, insomma verso qualcosa che trascende la loro vita, come la fede religiosa in una potenza soprannaturale. Tutti, chi più e chi meno, tendono verso qualcosa o qualcuno, ritenuto come il bene sommo della loro vita. La questione è capire cos’è questo bene verso cui si tende, e per il quale si è disposti a spendere le energie e le forze della propria vita. Qualunque sia l’identità di questo bene, rimane vero che la speranza è in funzione di esso, della sua conquista e del suo compimento.
Ma l’esperienza della vita ci insegna che non tutti i beni si rivelano autentici. Ve ne sono alcuni che deludono le attese e altri che le appagano solo parzialmente. Dinanzi a questo epilogo viene da chiedersi: ma esiste un bene stabile, duraturo, assoluto, da tutti compreso e condiviso come tale? E qual è questo bene? Più che mai, oggi, condizionati come siamo dalla cultura liquida, nichilista, relativista, individualista risulta particolarmente difficile rispondere a questa domanda. In nome del pluralismo culturale, etnico, morale, religioso, spirituale, educativo nessuno più gode dell’autorità assoluta, in grado di stabilire i principi razionali e morali unanimemente condivisi. A ben guardare sembra che neppure il bene, la pace, la giustizia, la libertà godono della stessa comprensione e stima universale. Per avere un’idea di questo relativismo, basta osservare come viene intesa, per esempio, la libertà o la giustizia all’interno di uno paese a regime dittatoriale che si arroga il poter di decidere le sorti del proprio popolo? E come invece vengono intesi gli stessi valori all’interno di una società democratica o liberale?
Eppure nonostante questa imperante confusione generale, la speranza continua ad essere praticata dalle persone. Magari molti non hanno chiaro né le realtà in cui sperano, né sanno come custodire, coltivare e alimentare questo atteggiamento nella loro vita. In un simile contesto l’esortazione che san Pietro formula nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni” (1Pt 3,15), sembra profilarsi come una flebile fiammella che si accende all’orizzonte della nostra esistenza e che noi, oggi, più che mai, intendiamo prendere in considerazione, per comprendere il significato della speranza cristiana. Qual è questo contenuto al quale ci si riferisce? Esso ci viene esplicitato dal brano paolino della sua lettera agli Efesini, là dove dice: “Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo … vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui”. Si tratta allora di conoscere Cristo e più chiaramente la sua missione salvifica, la sua promessa di ereditarci l’identità filiale che lui condivide col Padre. È questa conoscenza che ci dischiude lo specifico della speranza cristiana, grazie alla quale, ogni credente in lui, nutre l’attesa di quel rinnovamento esistenziale che riguarda l’uomo, il mondo e perfino la terra e il cielo, come afferma Pietro nella sua seconda lettera, dove, parlando della promessa di Cristo, dice: “Noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace” (2Pt 3,13-14). Eventi che Cristo ha già inaugurato con la sua risurrezione e prima ancora con la sua incarnazione. È di questa promessa che noi attendiamo il compimento escatologico, nella misura in cui condividiamo il suo stile di vita evangelico.
Ma a giudicare dalla testimonianza piuttosto ambigua, vaga e confusa che diamo della nostra fede, sembra invece che di queste verità, noi abbiamo non solo una scarsa conoscenza, ma tacitamente nutriamo perfino sfiducia, perplessità e dubbi sulla loro vera realizzazione. Talvolta siamo attraversati dalla convinzione che si tratti solo di un’utopia. Da qui la domanda: se questo è lo stato della nostra fede come giungere a questa conoscenza e determinazione di cui parla Pietro? Ecco allora profilarsi il senso del brano del Siracide e del Prologo di Giovanni, i cui contenuti vertono tutti sull’identità della Sapienza, definita come “conoscenza dell’Altissimo” (Sir 24,2-3). Per questa ragione essa, per quanto abbia delle affinità con la sapienza del mondo, non si riduce a una conoscenza culturale, tesa solitamente ad ostentare le qualità intellettive umane, ma consente di accedere direttamente alla vita stessa di Dio. Per partecipare alla quale occorre tuttavia ricevere quella luce spirituale che “illumina gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza siamo chiamati”. Si tratta, infatti, di una sapienza apparentemente assurda, che Paolo formula in termini di “croce”. Essa appare al mondo debole, molle, insignificante, stolta. In realtà è potenza per quelli che nutrono la speranza di essere salvati da Cristo (cf. 1Cor 1,18). Sembra un paradosso eppure a Dio piace salvare coloro che nutrono questa speranza con la “stoltezza della predicazione cristiana” (cf. 1Cor 1,21). Essa non proclama un Cristo potente e dominatore, bensì un “Cristo crocifisso, scandalo per Giudei e stoltezza per i pagani”. Egli “è potenza di Dio e sapienza di Dio” (cf. 1Cor 1,23-24). Non a caso Giovanni, nel Prologo, identifica Cristo col Verbo di Dio, per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato fatto di ciò che esiste (cf. Gv 1,1-3). Si capisce allora il motivo per cui Giovanni ritiene Cristo capace di dare la “vita divina che è luce degli uomini” (Gv 1,4). Egli infatti non volle tenere per sé la vita divina, ma, in comunione col Padre, decise “di farsi carne e venire ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14), integrandosi perfettamente nella nostra vita, senza tuttavia perdere le abitudini della vita divina dalla quale proveniva. Abitando in mezzo a noi, infatti, portò gli “usi e costumi”, della vita trinitaria. In realtà più che “abitare”, come solitamente traduciamo questo passo, il termine andrebbe tradotto con “attendarsi”, nel senso di “mettere la tenda”, esattamente come afferma il passo del Siracide: “Allora il creatore dell’universo mi diete un ordine … e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità in Israele, affonda le radici tra i miei eletti … Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion ... Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso … nell’assemblea dei santi ho preso dimora” (Sir 24,12-16).
Purtroppo, però, questa Sapienza non è da tutti accolta e condivisa. Essa “Venne fra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”. La formula figli di Dio è così comune che noi siamo soliti attribuirla a qualsiasi creatura umana, come se tutti, indipendentemente dalla fede in Cristo, fossero “figli di Dio”. In realtà non c’è espressione più fraintesa di questa. La filialità divina non dipende dal fatto che siamo stati creati da Dio. L’atto creativo ci fa creature di Dio, ma non figli. Per diventare figli occorre riconoscere Gesù di Nazareth come Figlio di Dio. Un simile riconoscimento avviene solo per mezzo della fede in lui. È in lui Figlio che diventiamo figli. In altre parole non si nasce figli di Dio, ma si diventa professando la fede in Cristo Figlio di Dio. La prova di questa filialità divina – come afferma san Paolo – è che disponiamo della stessa eredità, ovvero dello Spirito filiale, di Cristo, per mezzo del quale anche noi possiamo rivolgerci a Dio, chiamandolo Padre (cf. Gal 4,6).
Come pervenire, dunque, a questa conoscenza? Per rispondere a questa ulteriore domanda ci rifacciamo all’esercizio spirituale della meditazione, di cui abbiamo avuto modo di parlare già domenica scorsa, in occasione degli atteggiamenti con cui Maria faceva suoi i significati delle parole che le riferivano i pastori e degli eventi che andava vivendo. Meditare significa sforzarsi di cogliere il significato delle verità di fede in cui speriamo. Grazie a questa operazione noi abbiamo modo di sviluppare l’intelligenza spirituale, e quindi di pervenire a quella sapienza che ci consente di sperimentare la salvezza già nell’oggi della nostra vita. Ecco la speranza che abbiamo ereditata da Cristo e della quale attendiamo la sua realizzazione escatologica.




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