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4 Febbraio 2024 - Anno B - V Domenica del Tempo Ordinario


Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39


Predicare e praticare il regno di Dio: scopo della missione di Gesù



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Mosaico di scuola bizantina, Gesù guarisce la suocera di Pietro (XII-XIII sec.), Duomo di Monreale.

“Usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea. La suocera di Simone era a letto con la febbre … egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli.

Venuta la sera … gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie …

Al mattino presto si alzò … e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e gli altri si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: Tutti ti cercano! Egli disse loro: Andiamocene altrove … perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!” (Mc 1,29-39).

In un unico brano evangelico la Liturgia ci presenta tre piccole scene, che ci danno l’idea dell’attività pubblica di Gesù: la guarigione della suocera di Pietro; la liberazione degli indemoniati e la pratica della preghiera. Si va così delineando il quadro della sua missione, i cui esordi sembrano caratterizzati da due grossi impegni: la chiamata dei discepoli (cf. Mc 1,16-20) e la predicazione del regno (cf. Mc 1,14). Sulla chiamata ci siamo già soffermati più o meno estesamente nelle ultime domeniche; quest’oggi, invece, vorremmo soffermarci sulla predicazione che, come Gesù stesso dice ai suoi discepoli, costituisce lo scopo della sua missione: “per questo infatti sono venuto!”.

Proviamo allora ad addentrarci in questo tema con qualche domanda guida. Quanto tempo Gesù dedica a questa attività? Quale prassi metodologica segue? E soprattutto che cos’è questo regno che va predicando? Partiamo da quest’ultima domanda, riallacciandoci così a quello che abbiamo già detto in merito nei precedenti commenti. Per l’evangelista Marco l’annuncio del regno costituisce il leitmotiv dell’evangelizzazione di Gesù. Egli parla del regno sin dagli inizi della sua missione pubblica: “Il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete nel Vangelo” (cf. Mc 1,15). Tutta la predicazione di Gesù è finalizzata a questo scopo. Ma cos’è il regno di Dio? Si tratta di una realtà che solo apparentemente ha qualche affinità con l’antico regno davidico, col quale però non condivide nessuna dimensione politica, né alcuna forma di dominio o di potere sociale, culturale o religioso. Esso è semplicemente la vita d’amore di Dio che Gesù intende creare in primo luogo tra i suoi discepoli e poi nel mondo attraverso la loro testimonianza evangelica. Uno stile di vita inedito il suo, che lascia intravedere il volto di Dio, come quello di un Padre che ha a cuore i lontani e perfino i nemici, quelli cioè che vengono additati dai moralisti come ostili, avversi alle pratiche religiose e morali, e perciò definiti ingiusti, pubblicani, prostitute, peccatori; verso i quali Gesù manifesta la misericordia e la gioia di chi è felice di recuperarli e restituirli a Dio (cf. Lc 15,7), suscitando in loro il desiderio di una vita e una mentalità conforme alla prassi evangelica, come suggerisce l’esortazione che accompagna il suo annuncio: “convertitevi e credete nel Vangelo” (cf. Mc 1,15). Per questo scopo egli spende tutta la sua vita. Da qui l’ardore, la passione, l’ansia di vedere questo regno presto realizzato: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49).

Nonostante questa chiara e mirata prassi evangelica il regno, però, rimane misterioso ai più, ai quali Gesù viene incontro con le sue parabole: una serie di racconti, tratti per lo più dalla vita quotidiana, che grazie all’ausilio delle metafore ne lasciano intuire il contenuto. Esso appare sì misterioso, piccolo e insignificante, come un granello di senape (cf. Lc 13,18-19), ma custodisce in sé una straordinaria forza espansiva, che ne esplicita anche la dinamica evolutiva. Ne scaturisce un insegnamento semplice, ma non banale, anzi fatto con autorità, tanto da suscitare stupore nei suoi interlocutori (cf. Mc 1,22), i quali si chiedono: “Donde gli vengono questi insegnamenti? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani?” (Mc 6,2). In effetti la predicazione di Gesù si distingue da quella degli scribi, perché a differenza loro associa le opere all’insegnamento. E questo conferisce autorevolezza alla sua predicazione. In altri termini Gesù non si limita ad annunciare il regno, ma anche a renderlo visibile. Egli evangelizza parlando e operando. Ecco lo speciale metodo che rende la sua predicazione credibile, persuasiva e operativa. Parole ed opere costituiscono gli elementi fondamentali della sua predicazione evangelica (cf. Lc 24,19). Pur distinte esse si completano le une nelle altre: mentre le opere realizzano le parole (cf. Gv 5,36), le parole esplicitano il senso delle opere (cf. Mc 8,17-21). Per questa ragione esse costituiscono un tutt’uno inscindibile. Entrambe trovano nella preghiera la loro efficacia. La preghiera costituisce la condizione fondamentale per essere esauditi: “Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Mt 21,22; cf. Gv 14,13-14; 15,16; 16,23). Senza la preghiera nessuna opera del regno può compiersi. Nulla di tutto ciò che egli dice e fa esula da essa, ma tutto avviene nella e per mezzo della preghiera (cf. Mc 1,35), attraverso la quale egli fa spazio all’azione salvifica di Dio in lui. La preghiera precede, accompagna e segue tutta l’attività predicativa di Gesù.

Predicare, guarire e pregare costituiscono allora i requisiti del predicatore autorevole. Lo stesso vale per chiunque decide di porsi alla sua sequela e aderire alla sua predicazione. Annunciare e compiere il regno significa sottrarre l’uomo all’azione del nemico e riportarlo alla sua originaria relazione col Padre. Ecco il senso delle guarigioni e degli esorcismi che egli compie. È qui che l’uomo coglie il senso della sua esistenza, anche quando questa è piena di “duro lavoro”, di “illusioni”, di “affanni”, di “dolore” e perfino “priva di speranza” come descrive, in modo realistico e con tratti di spietata crudezza, il brano del libro di Giobbe 7,1-4.6-7, col quale la Liturgia sembra volerci darci un’idea del panorama esistenziale nel quale Gesù svolge la sua predicazione. Lungi dunque da qualsiasi visione idilliaca[1], predicare e praticare il regno di Dio comporta l’impegno di trasfigurare la dura realtà della vita, sottraendola all’azione del nemico. Si capisce allora l’urgenza che Gesù aveva nel predicare il regno di Dio, come manifesta chiaramente in questo brano evangelico: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là”. Porsi alla sequela di Gesù significa provare la sua stessa ansia pastorale, per la quale non basta essere guariti, ma porsi, come la suocera di Pietro, subito al suo servizio. Occorre fare presto dunque: con l’avvento di Cristo l’annuncio del Regno non ammette dilazionamenti o ritardi. La salvezza è nell’oggi della fede in lui. Forse è per aver colto questa urgenza e reale opportunità salvifica che i suoi discepoli “si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: tutti ti cercano!” (Mc 1,36-37). In Gesù la millenaria promessa della salvezza si compie. L’attesa è finita. La salvezza è qui ed ora. Non è più possibile prorogarla. È per questa salvezza che Paolo si prodiga senza misura, donando tutto se stesso a favore di quanti non sono stati ancora raggiunti dall’annuncio evangelico: “Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor 9,23). Lasciamoci dunque coinvolgere da questo pathos paolino affinché possiamo ritrovare quell’ardore evangelico, tanto auspicato da Giovanni Paolo II, per la Nuova Evangelizzazione. È qui il segreto per dare una svolta radicale all’attuale attività pastorale ordinaria della Chiesa. Nessun’altra strategia pastorale potrà rinnovare i suoi metodie le sue espressioni se non quella passione paolina per Cristo e per la causa del suo regno. Da qui scaturisce anche la forza persuasiva che consente di darne ragione (cf. 1Pt 3,15) nell’attuale opera missionaria della Chiesa nel mondo. 

 

 

 

 


[1] L’autore del libro di Giobbe non fa mistero della sua visione cruda e dura della vita. D’altronde è in questo contesto che ha avuto origine e si si è sviluppata la fede biblica. Lo stesso Gesù non è esente dalle sofferenze che la vita gli ha riservato. Per molte persone essa appare avara, vana, sfuggente e piena di sofferenze, come lascia intendere Giobbe in questa sua amara considerazione: “L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario? ... I miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non vedrà mai più il bene” (Gb 7,1). L’immagine del mercenario rende l’idea di una vita che non concede nulla gratuitamente, ma solo attraverso un duro lavoro quotidiano; mentre quelle della spola è del soffio sottolineano la rapidità e l’inconsistenza del suo passaggio. Nulla dà garanzia della solidità ed eternità dell’esistenza. È chiaro che si tratta di una riflessione non ancora illuminata dalla speranza della risurrezione, tuttavia è una riflessione che scaturisce da una lettura onestà e autentica della realtà, capace di attraversare il mistero del dolore senza lasciarsene schiacciare e neppure cedere alle lusinghe o illusioni (cf. Gb 7,3), che scaturiscono dalla tradizione teologica degli amici, i quali vedono nella teoria della retribuzione la sua migliore interpretazione. Malgrado tutto Giobbe rimane fedele a Dio, al punto da interpretare la stessa sofferenza non come una conseguenza del peccato, come sostenevano i suoi amici, ma come una prova attraverso la quale Dio conduce l'uomo alla maturità della fede. La sofferenza, così, lungi dall’essere schivata e rifiutata, diventa per Giobbe il luogo in cui Dio plasma il cuore dell’uomo, per conformarlo alla sua volontà e renderlo partecipe della sua vita divina. L’esperienza della sofferenza consente a Giobbe di fare emergere la forma più autentica e gratuita della sua fede in Dio: egli non crede per propiziarsi la benevolenza di Dio, ma solo per Dio stesso, lasciandolo libero di donare gratuitamente la sua salvezza. Ecco il nuovo orizzonte teologico al quale apre il libro di Giobbe.

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