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4 Dicembre 2022 - Anno A - II Domenica di Avvento


Is 11,1-10; Sal 71; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12


“Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”


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Il discorso sulla conversione a cui abbiamo accennato domenica scorsa trova un efficace riscontro nella predicazione del Battista che la Chiesa ci propone in questa seconda domenica di Avvento: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2), praticamente lo stesso messaggio che animerà in seguito anche la missione di Cristo (cf. Mt 4,17). L’annuncio dell’imminente venuta del Messia proclamato dal Battista, diventa per noi un monito per raccogliere la sua eredità e tradurla nell’oggi della nostra fede. Anche noi, infatti, siamo chiamati a farci interpreti degli attuali segni dei tempi, per divenire come lui, nel deserto del nostro contesto sociale e culturale: “voce di uno che grida: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Mt 3,3).

Si tratta allora di cogliere l’imminente attesa predicata dal Battista come atteggiamento perenne della fede, da praticare durante tutta la nostra vita, così da fronteggiare quella diffusa mentalità culturale che ci induce a circoscrivere la nostra esistenza solo nell’immanenza della vita terrena. Una mentalità purtroppo molto diffusa anche in ambito ecclesiale. Per fare ciò ritengo fondamentale recuperare le radici di quello spirito profetico che nel corso dei secoli ha contribuito a maturare, nel popolo d’Israele, l’attesa messianica e a permettere, ad alcuni di loro, di vederla realizzata in Gesù di Nazaret. Si capisce allora il senso dei brani biblici che la Chiesa ci propone in questo periodo di Avvento, come a voler offrirci un fondamento teologico che giustifichi la nostra attesa escatologica di Cristo. Una ragione in più per ricordarci che essa si innesta sullo stesso ceppo della tradizione profetica, come ci ricorda il brano della prima lettura, tratta dal libro di Isaia.

Non è facile stabilire la data di questo oracolo profetico, ma a giudicare dal suo contenuto, si può intuire che la crisi spirituale indotta dal fallimento della dinastia davidica, abbia ingenerato un forte senso di delusione presso il popolo d’Israele. Un esito alquanto sconfortante e triste per coloro che puntavano a fondare la gloria d’Israele sulla potenza politica del proprio regno, e che ora invece sembrava non offrire più alcuna speranza per un ritorno trionfale. Ma proprio in questo clima di frustrazione generale si inserisce la profezia di Isaia, così carica di speranza. Una testimonianza la sua che conferma la straordinaria capacità di rileggere gli eventi della storia alla luce del piano salvifico di Dio. Il profeta, infatti, a differenza di coloro che vedevano in quel drammatico epilogo solo motivi di sfiducia, coglie invece i segni che lasciano emergere il vero senso del “regno d’Israele”, il cui scopo non è quello politico, come finora era stato inteso, ma spirituale. La sua profezia si rivela, perciò, come un’operazione niente affatto facile, perché cogliere un disegno teologico oltre l’evidenza drammatica dei fatti storici, è solo di chi è abituato a vedere la realtà con l’occhio di Dio. Non è un caso allora che Isaia, sui resti della casa davidica, ridotta ormai solo ad un “ceppo” inaridito dal potere politico, veda spuntare il “germoglio di Iesse” (Is 11,1), ovvero quel germe di speranza che dà continuità storica alla promessa davidica. Il suo Messia, tuttavia, non si identifica più col profilo politico del re terreno, ma con quello divino del Cristo salvatore. Nel ritrarre il suo volto, infatti, Isaia dice che egli sarà pieno di “spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, … di consiglio e di fortezza, … di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2). Egli sarà “portatore di giustizia e di pace”: due qualità che gli consentiranno di riscattare e condurre alla salvezza tutte le vittime delle oppressioni politiche, sociali e culturali (cf. Is 11,3), e di trasformare le tensioni conflittuali generate dal sopruso dei potenti, in quella condizione definitiva di riconciliazione degli uomini tra loro e del creato con Dio. Si comprendono allora in questa ottica di riconciliazione e di pace quelle paradossali scene da lui descritte: dove convivono, incredibilmente insieme, fiere selvagge e animali domestici, bambini e rettili velenosi (cf. Is 11,6-7), scene che danno luogo a una relazione pacifica, dove nessuna forza maligna potrà più condizionare la vita del creato, poiché la conoscenza dell’amore di Dio colmerà il mondo intero (cf. Is 11,8-9).

Riletto alla luce dei numerosi conflitti bellici, tutt’ora in corso nel mondo, tra i quali quello recente tra Russia e Ucraina, questo oracolo di Isaia sembra avere più il sapore di un’utopia che di una profezia. Eppure è proprio in questo stesso clima conflittuale che scrive Isaia. Pertanto la sua missione diventa per noi un invito a interpretare gli eventi della nostra storia con lo stesso sguardo profetico. Si delinea così ancora più chiaramente il senso della missione del Battista e soprattutto l’urgenza del suo annuncio: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,1), la salvezza di Cristo infatti, come ribadisce san Paolo “è ancora più vicina di quanto diventammo credenti” (cf. Rm 13,11). Pertanto se Isaia ci insegna a guardare oltre le vicende storiche del nostro tempo e a cogliere in esso il futuro della promessa salvifica di Dio, il Battista ci conferma che quel futuro si è già attualizzato in Cristo Gesù. La conversione, perciò, non può essere più rimandata o dilazionata nel tempo, al contrario, va attuata nel presente e, più specificamente, nel “qui ed ora” della fede in Cristo. È lui l’oggi della salvezza.

Come non rileggere in questa ottica le parole che l’apostolo Paolo rivolge ai Romani, secondo le quali: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per la nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15,4). Si tratta perciò di riscoprire la Scrittura come luogo originario della nostra fede, per cogliere in essa il fondamento della nostra missione, esattamente come fa il Battista quando scopre negli scritti di Isaia il senso della sua missione profetica (cf. Mt 3,3; Is 40,3s). Una missione scomoda quella del Battista, perché ci inchioda nella responsabilità della nostra fede. La sua onestà intellettiva e spirituale ci sprona, infatti, ad uscire fuori da quegli schemi di perbenismo religioso e morale che con tanta fatica ci siamo costruiti nel tempo, ma contro i quali il Battista si scaglia con veemenza, senza mezzi termini: “Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente” (Mt 3,7); “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10).

Un linguaggio certamente duro che forse per questo oggi, ancora più di allora, rischia di rimanere inascoltato, condizionati come siamo da quella fragilità psicologica che ci impedisce di recepire anche il più innocuo rimprovero morale, ma che invece il Battista non esita a scagliare contro coloro che, con ostinata furbizia, ritengono di corazzarsi dietro le ferree tradizioni religiose, quando dicono: “Abbiamo Abramo per padre” (Mt 3,9), rischiando così di minimizzare la gravità della loro condizione esistenziale. È chiaro che non siamo più educati a questo linguaggio franco e diretto, ma al di là della sua forma, non possiamo non cogliere l’esortazione a quello stile di vita battesimale che la Chiesa ci invita ad assumere in questo tempo di Avvento, affinché ciascuno impari a nutrire verso gli altri, gli stessi sentimenti di riconciliazione e di pace che furono in Cristo Gesù (cf. Rm 15,5).

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