31 Luglio 2022 - Anno C - XVIII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 30 lug 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Qo 1,2; 2,21-23; Sal 89/90; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Vanità o eternità.
Quando il futuro dipende dalle nostre scelte

“Vanità delle vanità” (Qo 1,2) è il leitmotiv del libro di Qoèlet e che la Liturgia di quest’oggi non esita a proporci in tutto il suo realismo spregiudicato. Si tratta di un motivo conduttore che attraversa l’intero testo biblico, dove viene declinato nei diversi ambiti della vita umana. Pur posto a mo’ di esergo all’inizio del libro in realtà esso costituisce l’amara conclusione alla quale giunge l’autore al termine della sua vita. In questo senso può essere considerato come un motto per quanti, come lui, trovano nel vissuto esistenziale una ragione che giustifichi il loro pessimismo. L’autore che afferma di essere il Re Salomone (cf. Qo 1,1.12)[1], pur essendo stato educato e formato ai più nobili ideali della sapienza e della scienza israelita (cf. Qo 1,16-17), non riesce a tacere il carattere precario e fugace della vita, che nella morte rivela la forma più cruda e dura del suo nichilismo. Tutto è vano, ingannevole, illusorio, effimero, vuoto. Panta rei “tutto passa”, avrebbe ribadito Eraclito. Un’analisi spietata, ma terribilmente vera, anche se priva di trascendenza. Da qui l’inevitabile domanda che attraversa la sua mente e anche quella di tanta gente d’oggi: a che pro’ “affannarsi sotto il sole” (cf. Qo 1,3) se tutto si rivela illusorio e vano? Non è forse meglio darsi al piacere, al godimento, al divertimento? Ma l’analisi del nostro autore non dà scampo neppure a questa soluzione: “anche questo è vanità” (Qo 2,1). Quanti di noi sottoscriverebbero questa affermazione? Specie in quelle circostanze in cui la vita viene percepita nel suo carattere più enigmatico, assurdo, ambiguo, equivoco e incomprensibile?[2].
Se questo è l’epilogo dell’esistenza che senso ha vivere? Se il destino è il nulla perché esistere? Ci sarà mai qualcosa di solido, di duraturo, di vero, autentico, eterno per cui vale la pena spendere la vita? Sono le stesse domande che affiorano anche dentro di noi, interlocutori attuali della parabola di Gesù, quando ritrovandoci, come il protagonista, a fare i conti con la morte improvvisa che ci preclude la possibilità di goderci i beni per i quali abbiamo lavorato per tutta la vita, ci chiediamo: “cosa ne sarà di tutto ciò per cui ho vissuto e a chi andrà?” (cf. Lc 12,21). La parabola di Gesù viene provocata da una domanda alquanto seccante, postagli da “uno della folla” che aveva chiaramente travisato il senso della sua missione: “Maestro dì a mio fratello che divida con me l’eredità” (Lc 12,13). La questione alla quale fa riferimento il tale della parabola è chiaramente di tipo giuridico. Egli chiede a Gesù di intervenire perché il fratello maggiore avanzò la pretesa di ereditare tutta la parte più consistente dei beni immobili e lasciare al fratello minore solo quelli mobili, così da evitare il frazionamento dei terreni e quindi la possibile dispersione dell’eredità. Una questione antica dunque, ma anche estremamente attuale. L’eredità è la principale causa delle discordie all’interno delle famiglie. Ed è interessante notare come anche oggi, non pochi cristiani che si ritrovano in questo genere di questioni, si rivolgono ai sacerdoti per rappacificare gli animi di quei parenti che cercano di accaparrarsi egoisticamente dell’eredità. Personalmente mi è capitato non poche volte di essere stato coinvolto in simili questioni, e a parte il disagio, ho sempre fatto molta fatica a far capire che non è proprio questo l’ambito e il senso della giustizia che il sacerdote è chiamato a promuovere. Lo stesso Gesù dinanzi all’impellente domanda del suo interlocutore chiarisce di “non essere stato costituito giudice o mediatore per questo genere di ingiustizie” (cf. Lc 12,14). Qual è allora la giustizia di cui parla Gesù? Egli non è venuto a promuovere la giustizia giuridica, quella cioè fatta di norme e leggi, che è di competenza legale, e neppure quella morale che di competenza etica, ma quella biblico-spirituale che consiste nella fedeltà di Dio alla sua promessa salvifica. Una giustizia quella di Cristo, dunque, che ha nella proclamazione del Regno di Dio la sua manifestazione più evidente, quale segno della reale opera salvifica di Dio in mezzo al suo popolo. Aderire alla logica del regno di Dio significa allora acquisire quella mentalità di vita che porta a verificare la vanità della “cupidigia” da cui molte persone, come il protagonista della parabola (cf. Lc 12,19), fanno dipendere la consistenza e la qualità della loro vita. Da qui l’ammonizione di Gesù: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede” (Lc 12,15). Gesù non condanna i beni necessari, funzionali alla vita, ma la cupidigia, ovvero quell’atteggiamento avido con cui si cerca morbosamente di accaparrarsi di un bene altrui o di un potere, per farne oggetto esclusivo del proprio possesso e piacere. Quando essa diventa criterio esclusivo di vita rischia di restringere il campo visivo dell’intelligenza, fino a impedire di cogliere il senso autentico e pieno della vita. Purtroppo nonostante queste amare e tristi conseguenze, per altro molto diffuse e conosciute, tante persone, perfino cristiane, continuano imperterriti a lasciarsi guidare dal criterio della cupidigia, fino a sperimentare già su questa terra la dannazione, nel vedersi sottratti i bene accaparrati con tanto sforzo e avidità durante la vita. Ora se tale criterio viene giudicato vano già dall’autore del libro di Qoèlet che pure non disponeva di una visione oltre la vita terrena e concepiva la morte come la fine di ogni cosa, ancora di più la sua vanità emerge alla luce della promessa della risurrezione di Gesù. Credere alla possibilità della vita eterna, senza tuttavia rinunciare all’attaccamento ai beni terreni, significa esporsi al rischio di precludersi l’accesso alla stessa eternità.
La cupidigia rientra allora in quel genere di preoccupazioni di cui parla Gesù nella parabola del Seminatore (cf. Mc 4,7.18) che come le spine a lungo andare rischiano di soffocare la verità della vita eterna, seminata nel cuore dallo Spirito. Si coglie allora ancora più chiaramente quella condizione di libertà verso ogni genere di bene terreno che Gesù chiede ai suoi discepoli, quale presupposto fondamentale per giungere a godere del bene eterno, ovvero della piena partecipazione alla comunione di vita con Dio. È su questo presupposto che Gesù fonda la sua esortazione: “non accumulatevi tesori sulla terra … accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano” (Mt 6,19-21). Solo chi ha un cuore libero da ogni forma di attaccamento terreno potrà, come dice Paolo ai Colossesi, “cercare le cose di lassù” (Col 3,1). Per “Cercare le cose di lassù” occorre acquisire la mentalità di Cristo che consente di valutare e scegliere con ragionevolezza le cose per cui vale la pena vivere e quelle sulle quali siamo chiamati a investire le nostre risorse intellettive, creative, volitive, affettive, affinché non accada di aver corso invano alla ricerca di beni che si rivelano poi effimeri.
Cosa fare quando pur sforzandoci di nutrire la speranza per “le cose di lassù” veniamo costantemente minacciati da una cultura che cerca in tutti i modi di ancorarci alle cose di quaggiù? Per rispondere a questa domanda trovo interessante il riferimento al Salmo 1 e che vorrei sottoporre brevemente alla vostra attenzione. Probabilmente sarà stato proprio questo genere di domande ad offrire al salmista i presupposti letterari per comporre questo Salmo, caratterizzato da una veduta esistenziale ancora straordinariamente attuale. Egli invita il lettore a decidersi per quale realtà spendere la propria vita, tra quella che lui definisce “empia” e quella che definisce “giusta”. Ciascuna di esse dispone di una logica di vita. La prima è caratterizzata dalla prepotenza, dall’arroganza, dalla violenza, dall’edonismo; la seconda invece è contrassegnata dall’umiltà, dall’ascolto, dalla docilità, dall’attenzione, dall’oculatezza, dalla sapienza, dalla scienza. Queste logiche comportano anche delle rispettive conseguenze che l’autore traduce con due immagini: quella della pula (involucro che contiene i chicchi di grano) che a causa della sua leggerezza viene dispersa dal vento; e quella dell’albero piantato lungo il corso d’acqua, le cui foglie non cadranno mai, perché ha radici che affondano nel terreno alimentato dal fiume. A cosa allude il salmista con queste due immagini? Esse costituiscono i criteri in base ai quali compiamo le nostre scelte e ne decidono lo stile di vita. Infatti vi sono alcuni che decidono di fare della prepotenza la propria ragione di vita. Apparentemente essa induce a credere di essere forti, invincibili, onnipotenti, ma poi si rivela terribilmente “rovinosa”; diversamente chi decide di vivere secondo il criterio della giustizia, apparentemente viene deriso, vinto, infamato, ma poi “riusciranno tutte le sue opere”. Dinanzi a questa alternativa il Salmo ci invita a valutare con oculatezza le realtà sulle quali decidiamo di investire le nostre energie. Esse, come afferma Gesù nella parabola del granello di senape (cf. Mt 13,31-32; Dn 4,10-12; Ez 4,20-22; 31,1-9), possono però apparirci diverse rispetto alla loro reale consistenza, perciò necessitano di un serio discernimento. C’è infatti chi sceglie realtà come lo spettacolo, lo sport, la politica, la finanza, l’economia, l’imprenditoria … perché suggestionato dalla fama che le rivestono. Costoro sono quelli che scelgono in base all’opinione più diffusa e socialmente condivisa. C’è chi, invece, ha il coraggio di investire in realtà più impegnative e lungimiranti come possono essere la scienza, la ricerca, la filosofia, lo studio, l’arte, la letteratura … si tratta senza dubbio di scelte nobili, ma che in qualche modo vengono fatte in vista del proprio nome, ovvero per essere ricordati nel tempo. Purtroppo in questo mondo non mancano anche quelli che decidono di investire in realtà legalmente immorali, come possono essere la pornografia, la pedofilia, l’usura, la tratta dei bambini, dei migranti, degli organi ... Ci sono infine coloro che investono in valori come la giustizia, l’onestà, la legalità, l’uguaglianza, la coerenza, la solidarietà; o quelli che hanno il coraggio di investire in realtà, come l’amore, la fraternità, la solidarietà, l’altruismo, l’amicizia, l’ascolto, la cura … quelle cioè che Gesù ritiene manifestazione del Regno di Dio e contribuiscono in qualche modo a realizzarlo nel mondo. Queste ultime, in modo particolare, sono ritenute generalmente insignificanti o comunque poco vantaggiose. Esse appaiono inizialmente banali, marginali, o di “scarto”, direbbe papa Francesco. Eppure proprio esse si rivelano quelle più sorprendentemente capaci di garantire un futuro di senso, esattamente come i granelli di senape di cui parla Gesù. Il Salmo 1 preannuncia allora la scelta cristiana di chi ha il coraggio di investire tutta la propria vita sulla Parola, la quale appare inizialmente piccola e insignificante, ma che a lungo andare si rivela quella più solida e capace di dare pienezza e compimento alla propria esistenza e a quella degli altri. “Chi ascolta la mia Parola ha la vita eterna … e quelli che l’avranno ascoltata vivranno” (Gv 5,24.25). Il futuro della nostra vita, allora, sembra dirci Gesù, dipende dalla qualità delle nostre scelte. Vanità o eternità. Ecco gli estremi dell’esistenza. A noi deciderci.
[1] In realtà la critica esegetica moderna ritiene difficile sostenere questa tesi poiché il libro risale al 200 a.C., praticamente lontano dall’epoca vissuta dal re Salomone che corrisponde invece al 500 a.C. L’attribuzione al “Figlio di Davide” risponde allora al criterio, piuttosto comune all’epoca, di conferire la paternità ad una figura stimata che conferisse autorevolezza all’opera.
[2]Lo scetticismo di Qoèlet nasce dalla sperimentazione dei limiti della sapienza israelitica. Egli crede sì in Dio e nel principio del timore di Dio, ma come tanti suoi contemporanei non crede in una vita dopo la morte. Da qui la triste e dolorosa conclusione a cui giunge al termine della sua vita: tutto è vano. Tutto finisce nel nulla. Si capisce chiaramente l’assenza della risurrezione nella sua visione sapienziale. Visione alla quale Israele perviene solo più tardi, come emerge dal secondo libro dei Maccabei, 7, scritto intorno al II sec a.C.




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