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31 Gennaio 2021 - 4° Domenica del Tempo ordinario - Anno B


Dt 18,15-20; Sal 94/95; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28


Un profeta per l’oggi della storia


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Le figure di Samuele e Giona, delle quali abbiamo imparato a conoscere la chiamata, ci hanno introdotto in un movimento biblico che ha svolto un ruolo determinante nello sviluppo della fede ebraica: il profetismo. Si tratta di un fenomeno che ha avuto come principale scopo quello di esplicitare la dottrina sapienziale e tradurre in un vissuto spirituale, l’originario e fondativo evento esodale e più specificamente l’esperienza rivelativa dell’Alleanza sinaitica. Tale contenuto, benché espresso nei diversi libri che vanno sotto il nome di Torah (Legge), è stato continuamente ripreso e approfondito proprio dai profeti, nel corso delle successive generazioni, al fine di coglierne la perenne attualità salvifica. Il loro contributo si è rivelato sempre decisivo, rinnovandone costantemente la memoria, specie in quelle circostanze in cui il popolo, per diversi motivi, si ritrovava ad allontanarsi dall’Alleanza mosaica. La loro funzione è stata quella di favorire la formazione di una coscienza che mettesse ciascuno nella condizione di disporre dei criteri fondamentali con cui riconoscere la presenza di Dio nella vita e comprenderne la sua volontà salvifica.

Tale operazione giustifica la ragione per cui anche noi siamo invitati a ribadirne la memoria e a tenerne viva la voce. La loro infatti è la voce stessa di Dio. In questo senso la conoscenza della loro vocazione non è finalizzata al recupero di una chiamata unica e irripetibile, nella storia del popolo giudaico, quanto alla necessità di acquisire quei criteri con cui essi si sono fatti interpreti dell’azione salvifica di Dio, in ogni contesto storico a loro contemporaneo. L’attività profetica che essi ci suggeriscono di svolgere consiste, infatti, nell’approfondire costantemente il mistero di Cristo, per tradurlo in un vissuto quotidiano di fede che ne rende credibile e attuale la salvezza. Mossi dunque da questo scopo intendiamo capire meglio l’identità e comprenderne l’attualità nell’oggi della nostra fede.

Chi è il profeta e che ruolo svolge nell’ambito della fede biblica? Il profetismo è un fenomeno caratteristico della religione ebraica. Esso si rivela determinante e decisivo per lo sviluppo e la comprensione del piano rivelativo di Dio nella storia giudaica. Nel corso degli eventi i profeti hanno espresso con chiarezza e autenticità l’essenza della volontà di Dio. E questa consiste non tanto nella rispetto pedissequo della Legge, quanto nel conformare la vita alla volontà di Dio. È qui il nucleo e l’essenza della Legge. Tale conformità si rivela decisiva ai fini della salvezza e quindi della realizzazione piena della vita. La Legge dunque non è data per sottomettere l’uomo, ma per renderlo libero da ogni forma di schiavitù.

Quella dei profeti è una conoscenza che scaturisce da una preghiera assidua e diligente, da una meditazione costante della parola, da una penetrazione acuta e profonda della sapienza e del disegno salvifico di Dio. Il profeta è colui che interpreta la realtà della vita sociale, politica e culturale e degli eventi storici che la caratterizzano, alla luce del piano salvifico di Dio. La sua lettura è finalizzata a cogliere ed esplicitare la misteriosa volontà, che Dio rende nota anche nelle circostanze più avverse e apparentemente contraddittorie. In virtù della sua indole visionaria il profeta, perciò, è capace di prevedere l’azione di Dio e le conseguenze delle decisioni umane, anche con largo anticipo sulla comune conoscenza umana. E tuttavia egli non è un indovino, ma solo uno che osserva la realtà della vita umana dal punto di vista di Dio, ed è in grado di vedere il futuro di Dio già nel presente della storia umana. Il suo è uno sguardo che va al di là degli eventi umani; oltre la corteccia dura della realtà. Uno sguardo trasparente che gli conferisce l’intima certezza di parlare a nome di Dio, tanto che la sua parola viene riconosciuta come la Parola stessa di Dio, come attesta la ricorrente espressione oracolo del Signore che spesso introduce, accompagna e conclude il suo discorso. La sua, a secondo delle circostanze, può essere una parola di condanna, di speranza, di consolazione, di riscatto, di rimprovero. E Dio non ha altra bocca per comunicare la sua volontà, se non quella del profeta. Pertanto la responsabilità che egli si assume presso Dio e presso il popolo di quello che dice è estremamente onerosa. Essa richiede una vericità dottrinale, un’autenticità morale e una onestà intellettuale senza eguali tra gli uomini. Nessuno uomo, infatti, può giungere a tanto se non è interiormente toccato dalla grazia e impregnato della sapienza dello Spirito di Dio. La certezza che egli manifesta di avere, infatti, non dipende dalla sua presunzione, ma dal rapporto intimo che egli nutre con Dio e dalla profonda familiarità che ha con la sua volontà. Ed è proprio questa intima disposizione del cuore che rende la sua mente totalmente docile all’azione rivelativa dello Spirito, il quale apre la sua intelligenza alla conoscenza di Dio. Per questa ragione il fenomeno della rivelazione divina, trascende, senza escludere, la ragione umana. Questa infatti non è ridotta ad uno stato di totale passività, quasi che la rivelazione avvenga sotto forma di dettatura, al contrario ne è coinvolta al punto da esserne trasfigurata. La rivelazione profetica, pertanto, avviene nella forma meglio conosciuta dell’ispirazione, che consiste nella sinergia tra l’azione rivelativa dello Spirito di Dio e quella ricettiva, creativa e interpretativa dello spirito dell’uomo. La conoscenza di Dio alla quale egli perviene, infatti, non dipende dall’indagine speculativa della sua intelligenza, neppure dal bagaglio della sua esperienza personale, tanto meno dal deposito della conoscenza generazionale alla quale egli appartiene, ma è un dono gratuito che Dio fa di sé e della sua sapienza. Per questa ragione il profeta non dice nulla di più e nulla di meno di quanto il Signore gli ha rivelato. Egli riferisce solo le parole che Dio pone sulla sua bocca e comanda solo ciò che Dio gli ha chiesto di comandare (cf. Dt 18,18). In questo senso: “se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome io gliene domanderò conto” (v. 19). Il mancato ascolto della parola del profeta corrisponde al mancato ascolto della Parola di Dio. D’altra parte il profeta che avrà la presunzione di parlare in nome di Dio, senza essere stato oggetto della sua ispirazione, dovrà egli stesso rendere conto a Dio di quello che ha detto (cf. v. 20). Quella di Dio dunque è la sola parola che il profeta è tenuto a dire, poiché è la sola che si realizzerà. Diversamente quando la parola del profeta non si realizza, è segno che essa non viene da Dio: “Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore; l’ha detta il profeta per presunzione; di lui non avere paura” (Dt 18,22). Ciò costituisce un criterio per distinguere il vero dal falso profeta. L’autorevolezza del profeta scaturisce direttamente dalla fedeltà alla sola parola di Dio. Questa è garanzia della sua efficacia.

La figura profetica che Mosè tratteggia in questo brano del Deuteronimio trova il suo compimento in Cristo, nel quale il piano rivelativo di Dio giunge al suo compimento, come lascia intendere la sua profezia: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Dt 18, 15). Si tratta di una promessa che, come fa notare papa Ratzinger, si rivela decisiva per comprendere la figura di Gesù. Mosè non preannuncia un evento, ma una persona pari a lui (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 21ss). Gesù dunque è il nuovo Mosè. È questa la prospettiva teologica che caratterizza il Vangelo di Matteo, come attestano le parole stesse di Gesù: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti … ma per dare compimento” (Mt 5,17). Lo stesso Marco, nel brano evangelico di oggi, ribadisce questa novità, quando afferma che “egli insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22). Il suo insegnamento infatti non è cattedratico, come quello degli scribi, ma carismatico, capace cioè di rigenerare la vita. L’autorevolezza che egli conferisce alla sua parola e al suo insegnamento non dipendono dal ruolo o dal potere religioso che egli ricopre, ma dalla potenza carismatica dello Spirito di cui è investito. La sua parola non solo predice, ma compie ciò che dice, esattamente come quella di Dio al momento della creazione (cf. Gen 1, 3). Essa non è mai disgiunta dall’opera che egli compie. Parola a atto concorrono nell’autenticare la sua identità divina (cf. Mt 11,20; 12, 28). Il termine dabar, infatti, in ebraico significa non solo parola, ma anche fatto, compimento di una profezia. Per questa ragione Gesù, a differenza dei profeti che l’hanno preceduto, non parla per conto o a nome di Dio, ma egli stesso è la Parola di Dio: Parola realizzata e compiuta. A lui obbediscono perfino gli spiriti impuri e ribelli: “Taci! Esci da quell’uomo!”. E lo spirito impuro … uscì da lui” (Mc 1,25-26). Essi sono tra quelli che più di ogni altri esplicitano lo spirito ribelle di quelle persone che fanno di tutto per sottrarsi all’azione trasfigurativa di Dio: “Che vuoi da noi Gesù di Nazaret. Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio” (Mc 1, 24). La loro logica rivelativa contrasta con quella di Cristo. La loro, infatti, è un’intelligenza fredda che non scioglie i dubbi, al contrario pur dicendo la verità, la usano come metro di giudizio e di condanna: “Sei venuto a rovinarci?”. La parola di Gesù invece non è di condanna: “Non sono venuto per condannare, ma per salvare il mondo” (cf. Gv 12, 47; cf. Mt 9, 13). La parola di Cristo è non solo rivelativa della sua identità, ma crea le condizioni della salvezza. Da qui la necessità di discernere in noi quegli spiriti che generano ribellione e resistenza, dallo Spirito di Cristo che invece predispone il cuore ad accogliere l’azione salvifica di Dio.

Si rivela, allora, quanto mai opportuna la preghiera con la quale il salmista ci invita a riconoscere in noi la voce di Dio che dice: “Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere” (Sal 95, 8-9). Ciascuno può fare memoria di tutte quelle circostanze in cui ha resistito a Dio, precludendosi la possibilità di sperimentare la tenerezza della sua misericordia. Si tratta di una preghiera che ci invita al discernimento, affinché non accada di sentirci ripetere da Dio le stesse parole che egli rivolse al suo popolo nel deserto: “Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie, perciò ho giurato nel mio sdegno: non entreranno nel luogo del mio riposo” (Sal 95, 10-11).

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