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30 Ottobre 2022 - Anno C - XXXI Domenica del Tempo Ordinario


Sap 11,22-12,2; Sal 144/145; 2Ts 1,11-2,2; Lc 19,1-10


La missione di Gesù: cercare e salvare i perduti


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“Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,1) è la dichiarazione con cui Gesù esplicita il senso della sua missione nel mondo, a conclusione del suo incontro con Zaccheo. Ad esplicitare ulteriormente questo senso è il contesto evangelico nel quale Luca colloca l’affermazione di Cristo, ovvero il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, alla fine del quale l’evangelista riporta due episodi chiave: il cieco di Gerico (cf. Lc 18,35-43) e l’incontro con Zaccheo (cf. Lc 19,1-10). Nel primo caso assistiamo a un segno col quale Gesù porta a compimento l’antica profezia di Isaia 61,1-2, che per altro traccia anche il discorso programmatico che egli tiene nella sinagoga di Nazaret, all’inizio della sua missione pubblica: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … e mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18); nel secondo caso, invece, Luca sembra voler evidenziare la reale possibilità che anche i ricchi possono salvarsi, come emerge dalla considerazione fatta da Gesù, poco prima dell’episodio del cieco di Gerico, quando dinanzi alla resistenza di un notabile ricco, dice: “Quanto è difficile per i ricchi entrare nel regno di Dio”. Tuttavia “Quello che è impossibile agli uomini è possibile a Dio” (cf. Lc 18,24-27). Ad ogni modo tutte e due i brani sono strutturati intorno a gesti che contribuiscono a chiarire il senso della missione di Gesù, gesti che potremmo sintetizzare con i seguenti verbi: venire, cercare, guarire, salvare (cf. Lc 19,10).

Inoltre, la particolare collocazione di questi due episodi lucani alla fine del Tempo Ordinario, ci suggerisce, anche un’interpretazione escatologica, preparandoci, così, alla riflessione sulla parusia[1], che caratterizza solitamente le ultime domeniche dell’Anno Liturgico. In questo senso ancora una volta la fede ci viene proposta come condizione determinante per disporci alla novità di vita alla quale ci apre l’incontro con Cristo. È grazie ad essa che anche noi, come il cieco di Gerico, possiamo “vedere” la presenza operante di Dio in Gesù e lasciarci trasformare la mente e il cuore, come Zaccheo. La novità di vita costituisce allora l’aspetto che l’odierno brano evangelico intende sottoporre alla nostra attenzione, come conseguenza della nostra esperienza di fede. Vi propongo, perciò, di leggere questo episodio insieme a quello di un altro noto pubblicano e collega di Zaccheo: Matteo. Anche lui esattore delle imposte. Due episodi che seguono un canovaccio narrativo molto simile: l’incontro con Gesù, la festa con la quale viene onorato, la svolta di vita che ne scaturisce. Tra i due però c’è anche una differenza: Matteo lascia tutto e si pone alla sequela di Cristo, Zaccheo invece rimane, per così dire, “laico” nel mondo. In Matteo l’incontro con Gesù opera un’autentica sterzata a livello spirituale ed esistenziale, in Zaccheo la svolta si manifesta principalmente a livello morale, lavorativo e relazionale. Due modi di rispondere alla chiamata, due stili di vita che ne conseguono. Ciascuno di noi può lasciarsi interpellare dall’una o dall’altra scelta vocazionale, a seconda di quello che lo Spirito ci suggerisce. Per ora ci soffermeremo su quella di Zaccheo.

È interessante notare che questo pubblicano, nonostante la sua prolungata attività esattoriale, non si era ancora lasciato ingabbiare dai relativi schemi sociali e culturali, tipici di quelle persone che a forza di praticare certi ambienti lavorativi e culturali ne assumono schemi mentali e comportamentali. Egli conserva ancora una struttura dialogica aperta, come a significare un’identità spirituale ancora in via di formazione e definizione. Non si sente affatto appagato dal suo lavoro e, ancor meno, dal suo benessere. In questo stato di malcontento generale si lascia interpellare da quelle voci interiori che solitamente affiorano in simili circostanze di crisi, che lo spingono a cercare altrove il senso della sua vita. Si capisce allora il suo desiderio di “vedere Gesù”, come fa notare Luca, all’inizio del brano: “Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù”. Tuttavia subito dopo Luca annota: “Ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura” (Lc 19,2-3). In soli due versetti l’evangelista tratteggia le condizioni esistenziali che spingono questo uomo a compiere i primi passi nella fede, ma anche le difficoltà che rischiano di bloccarlo. Naturalmente nulla di questo moto d’animo di Zaccheo viene detto nei Vangeli, perché come al solito gli evangelisti sono sempre estremamente sobri nel raccontare gli episodi e nel descrivere i personaggi, ma noi cercheremo di fare leva sulla nostra immaginazione spirituale, per capire cosa sia accaduto in lui e intorno a lui, non tanto per ricostruire verosimilmente la scena, quanto per cogliere il senso pieno che sta dietro i particolari di questo semplice racconto.

Luca ci informa che Gesù, durante il suo viaggio verso Gerusalemme, entrò in Gerico, la città residenziale di Zaccheo, quando gli si presenta l’opportunità di incontrarlo. Non sappiamo se Zaccheo abbia sentito parlare di Gesù prima di quell’incontro, ma a giudicare dal desiderio di “vederlo” (cf. Lc 19,3), possiamo presumere che sia venuto a conoscenza della chiamata del collega Matteo e che la sua conversione lo abbia fortemente interpellato. Non è difficile perciò immaginarlo come un uomo attraversato da sentimenti confusi che lo rendono alquanto inquieto. Uno stato d’animo, insomma nel quale cercava di fare chiarezza. Quel passaggio di Gesù, perciò, gli appare come l’occasione propizia, da cogliere a tutti i costi. Ma accade l’imprevisto. Due difficoltà, apparentemente insormontabili, sembrano precludergli la possibilità di esaudire il suo desiderio. Luca, infatti, ci dice che egli non riusciva a “vedere Gesù” “a causa della folla” e poi “perché era piccolo di statura” (cf. Lc 19,3). La “folla” e la “sua statura fisica”, sembrano alludere, in questo caso, a tutte quelle difficoltà di ordine sociale, culturale, familiari, personali che rischiano di condizionare, deviare e perfino di ostacolare le nostre scelte esistenziali e spirituali. Cosa fare? Lasciar perdere? Non sia mai. Da opportunista qual era capì subito che l’unico modo per eludere la “folla” e la “sua statura” era quello di salire sull’albero di sicomoro, posto proprio ai margini della strada dove sarebbe passato Gesù. “Corse infatti avanti e salì su un sicomoro” e inaspettatamente “quando Gesù giunse sotto l’albero, alzò lo sguardo e gli disse: Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,4-5). Un’attenzione, quella di Gesù, assolutamente sorprendete e inattesa. Mai si sarebbe aspettato che un maestro di quella levatura morale e spirituale si sarebbe abbassato a parlare con un pubblicano come lui. E come se ciò non bastasse Gesù gli chiede addirittura di entrare a casa sua. La richiesta di Gesù, per citare una nota poesia di Ungaretti, lo “illumina d’immenso”. Egli infatti “scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”. Probabilmente per la prima volta un uomo aveva osato trattarlo da persona e non da pubblicano. Una relazione gratuita e disinteressata. Così diversa rispetto a quella a cui era abituato. Mai come allora si era sentito compreso nelle sue istanze più profonde e autentiche. Il suo entusiasmo era incontenibile, tanto che durante il pranzo osò perfino dichiarare pubblicamente la sua penitenza, in riparazione della frode: “Ecco, Signore io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). Per noi questa decisione di Zaccheo sembra solo un atto di estemporanea generosità, in realtà egli sceglie di ripagare la sua condotta disonesta non secondo il diritto mosaico, che prevedeva la restituzione della metà del proprio capitale economico, in caso di frode accertata, ma addirittura secondo il diritto romano, molto più severo in materia tributaria, che prevedeva, invece, la restituzione di quattro volte tanto di quanto aveva derubato. In ogni caso il suo rimane un gesto straordinario, perché ci lascia trapelare un animo generoso che neppure le ricchezze erano riuscito a contaminare. Egli conservava ancora nel cuore quell’innocenza originaria, che è alla base di ogni relazione autentica di fiducia nell’altro e in Dio. Malgrado le delusioni e le ferite che le circostanze della vita gli avevano procurato, egli non è diventato sospettoso, diffidente, rigido, avido, indurito e chiuso nelle sue idee egocentriche, come di solito accade di vedere in molte persone ricche, ma conserva ancora l’entusiasmo di lasciarsi interpellare dalla voce di Dio. Ed è proprio grazie a questa apertura d’animo che ha modo di sperimentare, la salvezza in Cristo. Davvero “Il Signore ha compassione di tutti … e chiude gli occhi sui peccati degli uomini, ed aspetta il loro pentimento” come afferma l’autore del libro della Sapienza (Sap 11,23) e come ribadisce anche il Salmo 144/145. La generosità e il riconoscimento del suo peccato, infatti, fanno esultare Gesù e felicitarsi con lui: “Oggi è venuta la salvezza in questa casa” (Lc 19,9). L’incontro con Gesù gli si rivela come l’“oggi della salvezza”. Per Zaccheo questa si attualizza nel “qui e ora” della fede in Cristo. Non c’è altro tempo, per accoglierla. Il presente è il tempo della salvezza e Cristo è l’eterno presente della salvezza di Dio. “Non ho altro tempo per amare – amava ripetere santa Teresina di Lisieux – se non il presente”.

A questo punto del commento ci chiediamo: quale significato ha per noi questo episodio e quali conseguenze può determinare a livello personale, sociale e culturale? L’incontro con Cristo rimane per Zaccheo un evento decisivo della sua vita, a partire dal quale egli opera una svolta morale personale che viene poi immediatamente estesa anche agli ambiti della sua vita relazionale e lavorativa. Osservando il suo cambiamento viene da chiedersi: cosa provocherebbe, a livello sociale e culturale, una simile esperienza di fede, se a farla fosse un’intera comunità? È chiaro che il Vangelo da solo “non cambia il mondo, ma cambia il cuore delle persone e le persone nuove fanno nuovo il mondo” e gli ambiti della vita che lo caratterizzano. Questo processo ci fa capire a quale svolta potremmo dare origine se riuscissimo a manifestare l’opera di Cristo in noi, esattamente come Zaccheo, e cosa essa potrebbe determinare se la estendessimo alla giustizia, all’arte, alla scienza, allo sport, alla famiglia … insomma a tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana. L’episodio ci lascia intravedere, perciò, un modello di conversione del tutto speciale, particolarmente adatto a un contesto sociale e culturale come il nostro, fortemente condizionato dall’economia di mercato. Un’utopia? Se il Vangelo fosse un’ideologia sarei pronto a dire di sì. Ma con san Paolo devo convenire che “esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). Perciò sta a noi sperimentarlo, come Zaccheo, nell’oggi della nostra fede in Cristo. Tutto dipende dalla decisione di consegnare a lui i nostri limiti: fisici, morali, culturali, sociali per trasformarli in occasioni di riscatto dello Spirito di Dio in noi. Perciò anche noi diciamo con Paolo: “Preghiamo perché il nostro Dio ci renda degni della sua chiamata e con la sua potenza porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della nostra fede” (2Ts 1,11-12).

[1] Il termine, pur essendo di origine platonica, viene usato anche nei testi del Nuovo Testamento, col quale si suole indicare la “venuta”, la “visita” e quindi la “presenza attiva” di Cristo nella sua manifestazione escatologica (cf. 1Cor 15,23; 1Ts 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; 2Ts 2,1.8; Mt 24,3.27.37.39).

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