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30 Novembre 2025 - Anno A - I Domenica di Avvento


Is 2,1-5; Sal 121/122; Rm 13,11-14; Mt 24,37-44



L’esigenza di una rinnovata

mentalità dell’attesa



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“Vegliate perché non sapete in quale giorno il Signore verrà”; “Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’Uomo” (Mt 24,32.44); “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti” (Rm 13,11).

 

Sono i versetti con cui l’evangelista Matteo e l’apostolo Paolo ci introducono nel tempo dell’Avvento, tutto incentrato sull’attesa escatologica di Cristo. All’inizio di un nuovo Anno Liturgico la Chiesa ci invita a riscoprire il senso dell’attesa, quale atteggiamento fondamentale che caratterizza non solo l’Avvento, ma più in generale, la nostra vita, tesa ad accogliere il Cristo che viene (cf. 1Cor 11,26). Da qui l’invito del profeta Isaia a “camminare nella luce del Signore” (Is 2,5).

L’attesa è, come dice il significato del termine, lo stato d’animo di colui che nutre la speranza verso qualcosa che sta per compiersi. Ma cos’è questo “qualcosa” o “qualcuno” del quale nutriamo l’attesa? Per la fede cristiana è il Cristo, del quale si attende la sua venuta escatologica. La festa del Natale, pertanto, con la quale celebriamo la sua prima venuta, è nient’altro che un pretesto per proiettare la nostra attenzione sul suo ritorno alla fine dei tempi. In questo senso il Cristo che viene è la verità che guida la fede e nutre la speranza durante la nostra esistenza. È da queste due virtù che attingiamo la forza per superare le difficoltà che ci separano da lui, anche se non ci eludono la fatica dell’attesa, specie quando questa viene prolungata nel tempo e siamo attraversati dalla tentazione di rinunciare alla sua attesa a causa del suo ritardo; e, non di meno, della corsa sfrenata al benessere materiale che tende ad affievolire la nostra sete spirituale e a restringere il nostro sguardo profetico, impedendoci di vedere oltre gli orizzonti terreni della vita. È dinanzi a questo scenario che si rivela determinante l’urgenza di una rinnovata mentalità dell’attesa, come atteggiamento fondamentale per recuperare il senso originario dell’Avvento. Si comprende allora l’invito che san Paolo rivolge ai Romani: “Trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).

La conversione, nello specifico dell’Avvento, comporta perciò l’acquisizione di quei criteri spirituali che consentono di interpretare i segni che accompagnano la venuta del Cristo. Il suo ritorno infatti non sarà corredato di un apparato trionfale. Egli viene senza far rumore, “senza attirare l’attenzione” (cf. Lc 17,21). La sua presenza potrà rivelarsi così discreta e silenziosa, da passare inosservata. “Avverrà, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito […] e non si accorsero di nulla, finché venne il diluvio e travolse tutti” (Mt 24,38-39). In altre parole egli verrà quando saremo totalmente dediti a svolgere le nostre attività[1], a realizzare i nostri progetti e perfino a continuare le nostre tradizionali pratiche religiose.

Per far fronte a questa consuetudine quotidiana apparentemente normale e tranquilla, la Chiesa ci ribadisce, ancora una volta, la necessità di assumere gli atteggiamenti della “veglia” e della “vigilanza” (Mt 24,42), per imparare ad affinare lo sguardo di fede nel buio delle nostre crisi spirituali. L’invito di Gesù a “risollevare e alzare il capo” comporta lo sforzo di gettare il nostro sguardo di fede oltre il benessere materiale della vita terrena, per cogliere, al di là del suo appagamento momentaneo, quella pienezza di vita che Cristo ci promette di avere quando egli consegnerà tutto al Padre e Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,23-28). Cosa mai, infatti, dovremmo attendere oltre questa vita se il benessere terreno ci appaga già del tutto? Da cosa dovremmo lasciarci liberare se la schiavitù del benessere è la condizione che preferiamo alla libertà della salvezza? È in questo modo che impareremo a riconoscere la sua presenza negli avvenimenti drammatici della vita. Pertanto se l’attesa è, come abbiamo detto, lo stato d’animo di colui che nutre la speranza verso qualcosa che sta per compiersi, la conversione comporta in primo luogo il coraggio di mettere in discussione la mentalità benestante e liberalista che abbiamo assimilato. Vivere l’Avvento comporta lo sforzo di risignificare la nostra storia personale e sociale alla luce della storia della salvezza di Dio e vivere il quotidiano in attesa di questo compimento escatologico che come ci ricorda l’evangelista Giovanni nel suo libro dell’Apocalisse, consiste nell’invocare costantemente la sua venuta: “Maranathà”: vieni, Signore Gesù”, e lui risponde: “Si, vengo presto!” (Ap 22,17.20).

L’Avvento, ancora più di quanto abbiamo ribadito nelle ultime domeniche del Tempo Ordinario – ci fa sentire l’urgenza di uno sguardo profetico, escatologico e apocalittico, capace di farci vedere nostro vissuto quotidiano alla luce della storia dell’economia salvifica di Dio, e del suo compimento alla fine dei tempi. Anche noi, come gli Israeliti siamo perciò invitati a raccogliere l’invito di Isaia “Venite, saliamo sul monte del Signore, … perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri” (Is 2,3). È a queste condizioni che possiamo metterci in ascolto di quella voce di Cristo che risuona nel nostro cuore: “Ecco io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Aprirgli il cuore significa predisporsi a quella svolta esistenziale della nostra vita che ci fa cogliere la novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19), nonché i segni di cui parla Gesù: “Osservate le piante quando mettono i germogli”, affinché “guardandole capite che la primavera è vicina, così quando vedrete accadere queste cose … sappiate che il Regno di Dio è vicino” (Lc 21,31).

Vivere l’Avvento, cogliendo il senso di questi eventi, significa, in ultima analisi, percepire che “la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti” (Rm 13,11). È da questa percezione che scaturisce l’esultanza di gioia, come quella che prova il Salmista alla vista delle porte di Gerusalemme, durante il suo annuale pellegrinaggio al Tempio: “Quale gioia, quando mi dissero: / Andremo alla casa del Signore. / E ora i nostri piedi si fermano / alle tue porte Gerusalemme” (Sal 121).

 


[1] O come dice san Paolo – a “gozzoviglie e ubriachezze, impurità e licenze, contese e gelosie” (Rm 13,13).

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