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30 Marzo 2025 - Anno C - IV Domenica di Quaresima


Gs 5,9.10-12; Sal 33/34; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32



La gioia del riconciliazione


Sieger Köder, Il ritorno del figliol prodigo (1995)
Sieger Köder, Il ritorno del figliol prodigo (1995)

“Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20) è l’accorata esortazione che Paolo rivolge ai Corinti, affinché abbiano modo di riconciliarsi con Dio. Inserita nel contesto quaresimale quest’esortazione paolina ci introduce nella straordinaria e inaspettata esperienza di perdono e riconciliazione descritta da Gesù nella parabola del figliol prodigo: “Allora ritornò in sé e disse: … Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio ... Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò … poi disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello … Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (cf. Lc 15,20-24).

Tutto il cammino di conversione quaresimale non fa che convergere verso quest’abbraccio riconciliante, col quale il Padre avvolge la travagliata esistenza di quanti, come il figliol prodigo, decidono di tornare a lui dopo una dolorosa esperienza di peccato. Da qui il senso di questa Domenica Laetare, con la quale la Liturgia preannuncia la gioia escatologica della comunione col Padre. Cos’è, in ultima analisi, la riconciliazione con Dio se non questa comunione d’amore con lui, nella quale Cristo ci introduce per mezzo della sua Risurrezione, aprendoci – come dice san Paolo – a un’esistenza totalmente nuova: “Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose di prima sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).

Questa parabola, dunque, pur nella brevità del suo racconto, traccia il percorso dell’intera storia della salvezza, alla cui luce ciascuno può rileggere la parabola, spesso travagliata, della propria vita. Essa diventa così metafora dell’esistenza umana. La profondità dei contenuti e lo stile narrativo che la caratterizzano, infatti, fanno di essa un vero e proprio capolavoro di letteratura spirituale mondiale. Gli elementi che la strutturano sono molteplici, ma noi soffermeremo la nostra attenzione solo su quegli aspetti che motivano il cammino di conversione del figlio più giovane, e precisamente: la sua permanenza presso la casa del padre; la ribellione e la dinamica del peccato; la crisi esistenziale; il ritorno a casa; l’abbraccio del padre; la nuova vita filiale[1].

È interessante notare che solo dopo aver sperimentato le drammatiche conseguenze delle sua scelta di vita, il figlio più giovane comincia a riconsiderare il senso della propria relazione col padre. Era andato via da casa reclamando la propria indipendenza, pensando in questo modo di realizzare il sogno della sua vita e, invece, in breve tempo si ritrova letteralmente spiantato e senza più speranza per quella vita libertina tanto agognata. Gesù non esita a descrivere questa situazione con un’immagine plastica, come quella di chi si riduce a convivere con in porci, che per un ebreo è simbolo dell’epilogo più deplorevole a cui può giungere l’esistenza umana. Più giù di così non si può andare. Eppure non sono pochi coloro che nonostante tutto ciò continuano a scavare nel brago dei porci, ostinandosi a voler trovare una propria soluzione alla vita. Questa immagine ci dà l’idea esatta della condizione esistenziale, quando viene corrotta dalla logica del peccato: che in questo caso ci viene descritta non tanto come trasgressione di una norma morale, come molto spesso siamo abituati a pensare, ma come il risultato di un’esistenza fallita. Cos’è in fondo il peccato se non quell’atavica resistenza adamitica (cf. Gen 3,4-5), che impedisce di aderire pienamente a Dio e di vivere la propria vita come una relazione di comunione con lui. Il Salmo 78,57 descrive questo fallimento esistenziale con l’immagine dell’arciere che manca il proprio bersaglio: “Deviarono e tradirono Dio come i loro padri, fallirono come un arco allentato”.

Cosa consente al figlio minore di tornare dal padre? Il dovere morale? Il rimorso? La paura della condanna? Senza escludere l’incidenza di questi motivi, riteniamo che sia stato il ricordo della casa paterna, della vita che lo animava prima di partire, e quindi la memoria dei momenti trascorsi col padre, quelli cioè che gli fecero provare il gusto della sua presenza e della bellezza della relazione con lui. È importante il gusto di Dio. Esso fissa nella memoria i momenti belli della relazione con Dio, favorendo lo sviluppo di quei criteri spirituali con cui decidiamo di scegliere il bene piuttosto che il male. È il gusto spirituale che consente a questo ragazzo di rivalutare e discernere la situazione nella quale si trova e risignificare l’importanza del suo rapporto col padre. Egli riteneva di aver fatto una scelta libera e invece si ritrova più vincolato che mai nelle trame del peccato. La vera libertà non è quella che scaturisce dalle nostre scelte arbitrarie, e neppure quella che siamo soliti associare alla tanto auspicata indipendenza, ma paradossalmente quella che proviene dalla relazione con Dio. Questo ragazzo pensò di realizzarsi separandosi dal padre, senza sapere che la vera realizzazione umana consiste in una rinnovata relazione col lui. La pretesa autonomia dal padre crea in lui i presupposti per una dipendenza dagli altri.

Ma osserviamo più da vicino anche l’atteggiamento del padre: pur sapendo di perdere definitivamente il figlio lo lascia partire. Non fa il paternalista, ma il padre. Ci sono circostanze nella vita relazionale dove bisogna sapersi mettere da parte. Egli si fa nulla per amore, bruciando tutto il suo dolore nel silenzio angosciante della sua solitudine, per quella falsa idea di libertà che aveva affascinato suo figlio e, ora, glielo stava portando via, lontano da sé. Ma è proprio in quel suo farsi nulla che getta gratuitamente nel cuore del figlio l’amo del suo amore paterno. Non ha cercato di convincere il figlio a restare, ma ha lasciato che il figlio verificasse le conseguenze delle proprie scelte. Solo chi ama liberamente lascia l’altro libero anche di perdersi. L’amore non è fatto solo di gesti e di parole, ma anche di silenzi oranti che creano le giuste disposizioni d’animo. Questi silenzi sono un po’ come le pause musicali tra una nota e l’altra: diventano essi stessi sonori. Queste circostanze, al di là del dolore che esse procurano, sono di fondamentale importanza a livello spirituale. Apparentemente rendono impotenti, ma sono profondamente rigenerative e creative.

Il figlio più giovane ha dunque la pretesa di vivere la sua umanità senza Dio, vuole realizzarsi come individuo, mentre il padre sa che deve realizzarsi come persona. In queste condizioni solo chi ha il coraggio di gettare le redini delle proprie convinzioni ha la possibilità di risalire la china dal fondo di sé, dal vuoto della propria esistenza. L’umiltà è il primo passo verso il ritorno al padre. Essa è la condizione per cominciare ad ammettere i propri errori. Gesù ci dice che il figlio cominciò questa operazione di risalita “rientrando in se stesso”. Un modo diverso per dire che “si ravvide”. Ma per entrare realmente in se stessi, occorre uscire paradossalmente da sé, dal proprio egocentrismo, ed entrare nella dinamica relazionale dell’amore, che è una dinamica esodale. Essa ci fa ritrovare nell’altro da noi, nel cui amore ritroviamo il nostro vero io, quello relazionale, costituito dall’amore trinitario di Dio. Ecco perché il perdono sotto il profilo sacramentale avviene attraverso l’altro. E noi usciamo veramente da noi stessi, solo quando ci apriamo all’altro e più specificamente a Dio, il quale non si è incarnato per correggere l’uomo, ma per salvarlo. E l’uomo lo accoglie nella misura in cui si lascia rinnovare dal suo amore.

Quando il cuore è maturo allora accade l’abbraccio. Un abbraccio pasquale, è quello che fa compiere il passaggio da servo a figlio. Il padre riveste il figlio della sua paternità. Lo avvolge, lo copre con la sua misericordia. “L’amore copre una moltitudine di peccati”, dice Pietro nella sua prima lettera (1Pt 4,8). Invaso dall’amore, il figlio si scopre come circondato da una luce totalmente nuova. Per la prima volta nella sua vita scopre la vera identità del padre. Quell’abbraccio gli ristabilisce non solo l’immagine decaduta, ma lo fa scoprire somigliante al suo volto. Solo l’amore cambia la vita, e con la vita: la mente, l’intelligenza, la ragione, il cuore … Avvolto dall’amore il figlio non riesce neppure più a pronunciare il discorso di pentimento che si era preparato con tanta cura. Ed è solo all’interno di questo orizzonte d’amore che il figlio coglie la profondità del peccato nel quale si era cacciato. Egli prende coscienza del peccato non per mezzo di un processo penitenziale, ma grazie ad un’esperienza d’amore, come Pietro durante la pesca miracolosa: “Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). L’amore porta al pentimento, a riconoscere e a confessare il peccato. Il pentimento porta a scoprire l’inganno in cui siamo caduti con il peccato. Nell’abbraccio pasquale del padre il figlio compie il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla redenzione: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” dice san Giovanni nella sua prima lettera (1Gv 3,14). È un abbraccio trasfigurante e liberante. Dio non annulla la volontà umana, né la include a sé, ma la trasfigura, conformandola a quella filiale del Figlio. E lo stesso vale per la libertà, per l’intelligenza, la creatività. Nulla di tutto questo viene limitato. Al contrario, viene potenziato e sviluppato. È nell’accoglienza di questo dono di Dio che noi riscopriamo il senso vero e autentico della nostra vita, fino a sperimentarne la pienezza. E quella relazione con Dio che prima ci appariva vincolante e limitativa ci appare ora immensa e liberante. L’amore divino ci fa scoprire il senso pieno della nostra esistenza, facendoci entrare nell’orizzonte relazionale della filialità divina. È questo l’alveo originario ed originante che permette all’uomo di vivere appieno il processo di umanizzazione da attuare nell’arco della sua esistenza.

Questo incontro, quando accade, determina una rinnovata visione della vita, dell’altro, di Dio, del mondo, delle relazioni umane. Esso dà origine ad un nuovo modo di pensare, concepire e vivere la vita, che si traduce in una rinnovata esperienza d’amore; quell’amore che Dante riconosce come il principio cosmico che “muove il sole e le altre stelle” e “nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), ribadisce san Paolo, citando alcuni poeti ateniesi. È questa la vera terra o patria di cui avvertiamo un’irresistibile nostalgia. Cos’è la Pasqua a cui siamo chiamati, se non questa esperienza d’amore del Padre che ci fa nuovi dal di dentro, con la sola forza del perdono. Senza questo amore il digiuno, l’elemosina, la preghiera, rischiano di rimanere sterili pratiche spirituali o pure formalità religiose.        

La straordinaria esperienza d’amore descritta in questa parabola ci induce a qualificarla spesso col titolo di “Figliol prodigo”. In realtà il vero prodigo è il padre, poiché è lui che elargisce con magnanima gratuità l’amore di cui dispone in eccedenza. Il figlio spende senza misura, sperperando beni che gli sono stati dati gratuitamente. È generoso, ma con la ricchezza degli altri. Lui non ha fatto nulla per conquistarla, l’ha solo ereditata. Il padre invece dona ciò che gli appartiene e lo elargisce con generosità, esattamente come il figlio. Ma mentre il figlio spende, il padre spande. La prodigalità e la gratuità dell’uno e dell’altro è dettata da una logica diversa: il figlio, spendendo, esaurisce i beni e si ritrova nella povertà del peccato; il padre, spandendo, li aumenta e manifesta la libertà dell’amore. L’amore è l’unico bene che quando viene donato gratuitamente e liberamente non impoverisce ma arricchisce. Esso lungi dal vincolare le persone le rende libere. Libere di essere se stesse, nella pienezza della propria esistenza. È in vista di questa esperienza pasquale che vi auguro: buona riconciliazione.


[1] Per una lettura più estesa e una meditazione più approfondita di questa parabola, rimando al capitolo: La coscienza del peccato nella luce dell’amore del mio libro: Insieme nella fede. Itinerario biblico per una spiritualità ecclesiale, Paoline, Milano 2021, pp. 128-174, capitolo che consiglio in modo particolare a chi desidera prepararsi più seriamente alla riconciliazione con Dio durante questo tempo di Quaresima.

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