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30 Gennaio 2022 - Anno C - IV Domenica del Tempo Ordinario


Ger 1,4-5.17-19; Sal 70; 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30


Il destino dell’evangelizzatore


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Il brano evangelico che ci apprestiamo a commentare quest’oggi costituisce la seconda parte della missione di Gesù nella sinagoga di Nazaret. Domenica scorsa abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla sua persona, intesa come “compimento della Scrittura” (cf. Lc 4,21); oggi, invece, sposteremo il nostro sguardo sui Nazaretani, per capire cosa provoca in loro l’improvviso cambiamento d’umore nei confronti di Gesù. La loro reazione ci offre l’occasione per capire il destino dell’evangelizzatore e far luce su quei pregiudizi che purtroppo anche noi nutriamo nei confronti di chi, come Gesù, si ritrova a svolgere questa missione nell’oggi della realtà ecclesiale, pregiudizi che ci impediscono spesso di cogliere l’attualità della salvezza.

Rileggendo per intero il brano prendiamo atto che Luca nel descrivere l’atteggiamento dei Nazaretani compie alcuni passaggi narrativi piuttosto repentini, da rendere necessaria un’adeguata interpretazione. Non si capisce come mai essi passino improvvisamente da un atteggiamento di meraviglia ad uno di ostilità. All’inizio, infatti, sembrano entusiasti di ascoltare la parola di quell’illustre maestro quale si era rivelato Gesù, tanto che “tutti (gli) davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (Lc 4,22); poi improvvisamente, reagiscono con veemenza alle sue dichiarazioni. In effetti l’affermazione di Gesù (cf. Lc 4,21) era apparsa troppo pericolosa da passare inosservata. “Non sei tu il figlio di Giuseppe?” (cf. Lc 4,22), gli dicevano i Nazaretani. Posta in questo contesto, una simile considerazione è suscettibile di una duplice interpretazione: di stupore e di scetticismo. Da una parte essi si stupiscono della sapienza che esce dalla bocca di uno che, come Gesù, aveva vissuto fino a qualche anno prima con loro, di cui, per altro, conoscevano benissimo le sue origini; dall’altra trovano pretenzioso che proprio quel Gesù che reputavano di conoscere bene, potesse giungere a una simile affermazione. Davanti a quei volti, chiaramente contrariati, Gesù cita un proverbio: “Medico cura te stesso”, come a prevedere le loro obiezioni che potremmo immaginare in questi termini: Con quale autorità ci dici queste cose? Come pretendi di salvarci se tu stesso sei un uomo come noi? Ad avallare questa interpretazione contribuisce il seguito dell’obiezione prevista da Gesù: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria” (Lc 4,23). In altre parole era come dire: dacci prova di saper fare quello che si dice di te. È chiaro che alle loro orecchie quell’affermazione di Gesù era apparsa piena di arrogante presunzione. Ma Gesù, senza cedere alle loro pressioni, replica citando ancora un altro proverbio: “Nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove al tempo di Elia … C’erano molti lebbrosi al tempo del profeta Eliseo …”. Gesù segue con il racconto di due episodi biblici, quello della vedova di Zarepta di Sidone (cf. 1Re 17,7-24) e quello di Naaman il Siro (cf. 2Re 5), nei quali si fa riferimento a due profeti: Elia ed Eliseo. Apparentemente tali episodi sembrano non avere alcuna attinenza con la sua situazione, in realtà non fanno che ribadire la coscienza profetica e messianica di Gesù. Anche Elia ed Eliseo, infatti, sono protagonisti di una situazione molto simile a quella di Gesù: essi pur chiamati a portare l’annuncio di salvezza agli ebrei, si ritrovano ad essere accolti solo dai pagani; esattamente come i Nazaretani si stanno ora sottraendo al dono della salvezza che Dio sta offrendo loro attraverso Cristo. All’udire i due episodi i Nazaretani capiscono che la provocazione di Gesù era rivolta direttamente a loro, tanto che sdegnati, “Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4,29). Questa sconcertante conclusione ci offre l’occasione per mettere a fuoco la difficile missione del profeta e, quindi, dell’evangelizzatore.

Spesso siamo portati ad immaginare Gesù come una persona che gode di una particolare aura celeste, davanti al quale tutti cedono immediatamente all’affabilità della sua parola e aderiscono, senza riserve, alla bellezza del suo ideale di vita. E invece Luca ci offre uno spaccato della sua difficile missione. Anche lui, al pari di quanti si ritrovano, oggi, a svolgere nella Chiesa e nel mondo la faticosa opera di evangelizzazione, fa esperienza di un’amara e cocente delusione, proprio all’esordio della sua missione e per giunta nel suo paese natale. Anche lui sperimenta sulla propria pelle l’incomprensione, la resistenza e perfino l’ostilità nei suoi confronti. Praticamente per nulla lontano da quella missione, tipicamente profetica, descritta da Geremia nel racconto della sua vocazione (cf. Ger 1,4-5.17-19). Essere “stabiliti profeti delle nazioni” significa diventare autentici “segni di contraddizione”, contro ogni forma di ingiustizia sociale, culturale, religiosa, politica. Quella del profeta è una missione particolare, fortemente provocatrice, da non lasciare tranquillo nessuno, negli agi della vita. Per avere un’idea di quanto sia incompatibile la sua logica di vita con quella del mondo, basta leggere il libro della Sapienza, dove tra l’altro, viene detto: “Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni, ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo a vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade” (Sap 2,12-15). Forse mai come prima di allora Gesù sperimentò la vericità della profezia di Simeone: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34). Se c’è dunque una speciale grazia di cui il profeta e l’evangelizzatore godono questa consiste nella capacità di andare oltre le resistenze ed essere animato interiormente da quella certezza che, malgrado tutto, la sua rimane una missione divina: “Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” dice il Signore a Geremia (cf. Ger 1,19). Si comprende in questa prospettiva l’atteggiamento di chi, come il salmista, pone in Dio tutta la sua fiducia, “fin dalla sua giovinezza” e trova in lui la “roccia” di difesa contro le “spire dei malvagi” (cf. Sal 70/71). È a queste condizioni che il profeta diventa “una colonna di ferro e un muro di bronzo” (Ger 1,18), contro tutti coloro che tramano violenze e resistono al piano salvifico di Dio. Dio non risparmia nessuna prova o persecuzione a chi decide di svolgere, come Geremia e Gesù, la missione dell’evangelizzatore, ma gli dà la grazia di trasfigurare tutto il male che riceve nel crogiolo incandescente del suo amore.

I rischi, dunque, dai quali questo brano intende salvaguardarci sono quei pregiudizi religiosi che possono giungere perfino ad ostacolare le dinamiche salvifiche dello Spirito in noi. I Nazaretani pensavano di sapere tutto di Gesù. Lo consideravano uno di loro, tanto da permettersi di dirgli cosa dire e come fare. Un po’ come accade nei confronti di quelle persone che presumiamo di conoscere solo perché vivono quotidianamente tra di noi e con noi, nei nostri ambienti ecclesiali, ignari però di quello che Dio va compiendo attraverso di loro. In effetti certe conoscenze confidenziali, come quelle che nascono da una relazione parentale, paesana e amicale, possono condizionare il nostro sguardo spirituale, al punto da impedirci di cogliere in loro la valenza profetica. I Nazaretani professavano sì la salvezza, ma non s’aspettavano che essa potesse arrivare da uno di loro, vissuto in mezzo a loro. Probabilmente essi ritenevano la salvezza una cosa troppo divina per poter compiersi per mezzo di un uomo. Ma proprio qui è la straordinaria novità dell’incarnazione: quella salvezza che essi attendevano a livello escatologico, si compie invece nel “qui e ora” di Gesù, nell’estrema concretezza della sua persona umana. La sua carne diventa così luogo di salvezza nell’oggi della fede in lui.

Anche Gesù, come tutti quelli che lo avevano preceduto si rivela un profeta scomodo, che denuncia quegli atteggiamenti di autosufficienza che scaturiscono da una familiarità troppo confidenziale con Dio, al punto da ritenere superfluo qualsiasi sforzo spirituale. Quante volte capita anche a noi, come ai Nazaretani, di considerare troppo superficialmente le azioni profetiche di quelli che operano con discrezione in mezzo a noi o rimanere perfettamente indifferenti alla Parola che Dio ci rivela attraverso di loro. Quante occasioni di salvezza ci lasciamo sfuggire solo perché consideriamo con troppa leggerezza e superficialità la testimonianza dei nostri evangelizzatori, solo perché conosciamo i loro limiti, le loro fragilità. Chiediamo allora al Signore quello Spirito di Sapienza, tipicamente profetico, che ci consente di cogliere la salvezza nelle varie circostanze della vita quotidiana.

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