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3 Ottobre 2021 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario Anno B


Gen 2,18-24; Sal 127/128; Eb 2,9-11; Mc10,2-16


Diventare una sola cosa


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Il tema dominante della liturgia della Parola di quest’oggi è quello del matrimonio e più specificamente, la ragione teologica della sua indissolubilità. Un argomento delicato, che nel corso della storia ha conosciuto pacifici consensi, ha dato adito a questioni culturali piuttosto critiche e ha suscitato perfino aspre controversie politiche. Senz’altro è tra quegli aspetti fondamentali della tradizione religiosa cristiana che, nell’attuale dibattito culturale, sprovvisto di principi spirituali e morali solidi, viene messo fortemente in discussione, dalle molteplici forme di convivenza umana e sociale. Ne scaturisce l’esigenza di mettere a fuoco la sua natura e soprattutto le condizioni che ne rendono possibile la realizzazione, nella rinnovata istanza relazionale tra l’uomo e la donna.

Il tema è inserito all’interno del capitolo 10 del Vangelo di Marco che secondo alcuni studiosi costituisce una raccolta di insegnamenti di Gesù, sui problemi della vita cristiana, sistemati a mo’ di regolamento interno, per la comunità dei discepoli. È importante questo presupposto se s’intende comprendere il senso del matrimonio cristiano.

Cos’è il matrimonio? Una semplice convivenza umana, un contratto giuridico, una comunione di vita relazione? La diversa interpretazione scaturisce dal contesto nel quale il matrimonio viene vissuto e giustificato. Naturalmente noi non possiamo analizzarlo sotto tutti questi punti di vista. Ci limitiamo a quello biblico che lo colloca all’interno del disegno creativo di Dio. Pertanto se vogliamo capire la prospettiva divina occorre acquisire la mentalità biblica che ce l’ha trasmessa.

Per farlo partiamo da brano della Genesi, che racconta l’evento creativo con cui Dio ha dato esistenza alle cose, all’uomo e della donna. Di questo racconto noi abbiamo due versioni, entrambe conservate nello stesso testo biblico. Nella prima, assistiamo ad un crescendo creativo di Dio, quasi ad evidenziare un processo evolutivo, di cui l’uomo costituisce l’apice, qualificato in termini di “immagine di Dio” (cf. Gen 1).

Nella seconda versione la descrizione della creazione appare più sommaria, ma più pertinente e fondamentale a quello che viene detto sul rapporto tra l’uomo e la donna. L’uomo viene colto all’interno di un giardino: Eden, nel quale viene posato da Dio, con l’esplicito comando di continuare ad esercitare il suo dominio su tutte le creature, attraverso il potere di dare il nome ad ognuna di esse. Un aspetto questo che evidenzia la modalità con cui Dio rende partecipe l’uomo dell’arte di governare il creato con l’esercizio della provvidenza. All’interno di questo giardino Dio, prendendo atto della solitudine dell’uomo, decide di dargli “un aiuto che gli fosse simile” (Gen 2,18), dando forma alla donna, con una sorta di supplemento creativo: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo … e plasmò con la costola … una donna” (Gen 2,21-22), subito riconosciuta dall’uomo come “carne della sua carne e osso delle sue ossa” (Gen 2,23). Così mentre tutte le cose vengono create dal nulla, la donna viene tratta dall’uomo, come a sottolineare la stessa origine naturale e la sua indissociabile unità con l’uomo. Questa unicità della natura umana viene resa molto bene dalla lingua ebraica, secondo la quale “maschio” ish e “femmina” ishà condividono la stessa radice letteraria. In una lingua più vicino a noi questo stesso gioco viene reso dall’inglese, con i termini man “uomo” e woman “donna”. In altre parole maschio e femmina costituiscono, per così dire, due facce dell’unica natura umana. Essi sono distinti, ma non contrapposti, uniti, ma non uniformi. Maschio e femmina sono complementari, l’uno all’altro. Ecco allora una prima e fondamentale verità della vita relazionale tra uomo e donna: la diversità di genere, costituito dal maschile e femminile, non va pensata in termini di contrapposizione o di assoggettamento, ma di complementarietà. L’uno realizza e completa pienamente se stesso non da solo, ma nell’altro e con l’altro. Questa diversità e complementarietà è insita nel DNA della natura umana e determina la specifica differenza con la quale si qualifica l’identità dell’uomo e della donna. Pertanto non può essere considerata interscambiabile, come sostiene la teoria gender, secondo la quale, l’uomo e la donna, durante il processo formativo ed evolutivo, possono scegliere liberamente di essere l’uno o l’altra, indipendentemente dalla propria condizione originaria. Essi sono sì chiamati all’unità, ma senza tradire la rispettiva identità originaria. L’unità, biblicamente intesa, non prevede l’annullamento della diversità, in tal caso parleremmo di uniformità, ma l’integrazione dell’uno nell’altra. Diversamente si corre il rischio della confusione che nulla ha a che fare con l’unità alla quale vengono entrambi chiamati da Dio. Maschile e femminile costituiscono i due volti dell’unica immagine di Dio. Distinzione, complementarietà e unità vanno pensati, perciò, come condizioni fondamentali della relazione umana e, nello specifico, della relazione matrimoniale. Esse hanno origine nella stessa vita trinitaria, secondo il dinamismo relazionale dell’unica natura divina in tre persone.

Ed è proprio su questa base che viene fondata la realtà del matrimonio. Pertanto, nella visione biblica, esso non costituisce una semplice forma di convivenza umana, ma il luogo in cui l’immagine di Dio si manifesta, secondo il comandamento dell’amore reciproco del “dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono io presente in mezzo a loro” (Mt 18,20). È in questi termini che va inteso il disegno di Dio, secondo il quale: “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola cosa” (Gen 2,24). Questa forma di unità viene riproposta da Gesù, non tanto come un ideale spirituale o morale, ma come chiara interpretazione della volontà salvifica di Dio (cf. Mc 10,6-9). Il che significa che per chi decide di unirsi in matrimonio la via della salvezza è quella tracciata dall’unità matrimoniale. La salvezza dell’uno passa attraverso la santificazione dell’altro.

Nonostante ciò la questione del matrimonio permane e continua ad essere dibattuta ancora al tempo di Gesù, a testimonianza di quanto la sua interpretazione religiosa fosse legata a visioni culturali. Esattamente come oggi. Aspetto principale della questione, tuttavia, nell’attuale brano evangelico, non il matrimonio in sé, quanto la possibilità del divorzio. Secondo alcuni tale possibilità era ammessa anche da Dio. Ad avallare questa loro tesi c’era la norma stabilita dallo stesso Mosè, secondo il quale era possibile dare l’atto di ripudio alla moglie e mandarla via (cf. Mc 10,4; Mt 19,7). L’interpretazione appariva loro così plausibile che fu usata come modo per contrastare la posizione di Gesù, al quale la questione fu sottoposta non tanto per avere una sua visione in merito, quanto per metterlo alla prova (cf. Mc 10,2). In realtà la loro visione era viziata dalle interpretazioni culturali provenienti dalle varie scuole bibliche, tra le quali quella più liberale del maestro Hillel, secondo il quale l’uomo poteva ripudiare sua moglie per qualsiasi motivo, anche semplicemente per aver fatto bruciare un pasto; mentre secondo la scuola di Shammai poteva farlo solo in casi estremi, come quello della infedeltà[1]. Nell’uno e nell’altro caso la causa era attribuita sempre e solo alla donna, in quanto era considerata come un oggetto di possesso, atta solo a fare da moglie e madre. Gesù nel dirimere la questione conduce gli interlocutori al cuore della Legge mosaica, mettendo in evidenza la chiara volontà di Dio circa l’indissolubilità del matrimonio: “non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce” (Mc 10,9). L’interpretazione di Gesù risulta molto impegnativa ai farisei, i quali, stando alla versione matteana dello stesso episodio, dicono: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10). Al che Gesù risponde: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,11). Ma evidentemente l’interpretazione di Gesù risultò difficile agli stessi apostoli, dal momento che in privato chiesero ulteriori spiegazioni (cf. Mc 10,10). E anche in questo caso Gesù non esita a ribadire, con maggiore decisione: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio verso di lei: e se lei ripudiato il marito ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,11-12).

L’evangelista Matteo, su questo punto, rispetto a Marco sembra essere meno restrittivo. Nel riportare la risposta che Gesù dà ai farisei circa la durezza del cuore, ammette un’eccezione: “Chiunque ripudia la moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19,9). Come va intesa questa eccezione? Il termine greco tradotto con “concubinato” è porneia che indicava le unioni illegittime tra un uomo e la sua matrigna, condannata dal Levitico 18,8; 20,11 e da san Paolo 1Cor 5,1. In pratica si tratterebbe di un caso in cui viene riconosciuta la nullità del matrimonio. Questa interpretazione traccia la linea seguita dalla Chiesa cattolica, mentre le Chiese ortodosse e protestanti hanno interpretato porneia come adulterio e, perciò, ammettono il divorzio.

Stando a Gesù l’adulterio è un atto che compie non solo la donna, ma anche l’uomo. Etimologicamente il termine “adulterio” significa alterare, corrompere la realtà del matrimonio; diventare diversi rispetto a quello per cui sei fatto. Il che significa che se nel piano di Dio una persona è chiamata al matrimonio, non può realizzare se stesso facendo altro o sposando altra persona da quella con cui si è chiamati a vivere insieme. In effetti nessun può comprende il mistero del matrimonio se non dall’interno, ovvero se non si riceve la grazia di viverlo in vista del regno di Dio. “Questo mistero è grande” dice san Paolo agli Efesini, ammettendone l’insondabile conoscenza; ma subito dopo, nel tentativo di offrirne le chiavi interpretative, aggiunge: “lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,32). Fuori dalla prospettiva cristiana ed ecclesiale, dunque, il matrimonio si riduce ad una semplice forma di convivenza umana e sociale e difficilmente può essere compreso come luogo manifestativo dell’amore salvifico che Dio nutre per il suo popolo.

Mi piace cogliere in questa ottica il senso del riferimento di Gesù ai bambini e che l’evangelista Marco colloca in questo preciso contesto: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio” pertanto chi non lo accoglie come un bambino non può entrare in esso (cf. Mc 10,14-15). Come a dire che non è possibile acquisire la visione cristiana del matrimonio se non all’interno di una relazione filiale con Dio, fuori dalla quale risulta particolarmente difficile darne ragione nell’attuale contesto culturale, fortemente caratterizzato da una mentalità egocentrica, epidermica e liquida che fugge da tutto ciò che risulta impegnativo e necessita di un paziente processo di formazione. Da qui la necessità di un serio discernimento come forma di preparazione al matrimonio, per quanti decidono di accostarsi ad esso. Il matrimonio cristiano non è una realtà da affrontare a cuor leggero o come “così fan tutti”. Il contesto culturale attuale non lo permette più. Perciò parafrasando uno noto slogan comunista verrebbe da dire: fidanzati di tutto il mondo, organizzatevi!


[1] Hillel e Shammai furono due dottori della Legge del I sec. a.C. che diedero origine a due diverse scuole di pensiero.

1 commento


Cuono Fatigati
Cuono Fatigati
03 ott 2021

Grazie Don Luigi per avermi chiarito in questa tua riflessione tante cose che a volte accetto per seguire la grande confusione creata dal "mondo" su queste tematiche, invece il Vangelo ci indica sempre la strada giusta da seguire che si intuisce solo mediante la preghiera ed ascoltando e meditando le riflessioni che ci danno le Guide come TE

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