3 Marzo 2024 - Anno B - III Domenica di Quaresima
- don luigi
- 2 mar 2024
- Tempo di lettura: 8 min
Es 20,1-17; Sal 18/19; 1Cor 22-25; Gv 2,13-25
Il cuore: il vero tempio del sacrificio di lode

“Gesù salì a Gerusalemme e trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe … Fatta allora una sferza di cordicelle scacciò tutti fuori dal tempio …: Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato …Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: Quale segno ci mostri per fare queste cose? Rispose loro Gesù: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (cf. Gv 2,14-19).
“In quei giorni Dio pronunziò tutte queste parole: Io sono il Signore tuo Dio …Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo … Non pronunzierai invano il nome del Signore tuo Dio … Ricordati di santificare le feste … Onora tuo padre e tua madre … Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunziare falsa testimonianza … Non desiderare la casa ... la moglie, lo schiavo … né il bue, né l’asino, né alcuna cosa del tuo prossimo” (Es 20,1-17).
Nella terza domenica di Quaresima la Liturgia della Parola ci propone la lettura di questi due episodi biblici che all’apparenza non sembrano avere nessun punto di convergenza: la Cacciata dei venditori dal tempio (cf. Gv 2,13-25), e l’Alleanza sinaitica, dove assistiamo alla rivelazione della Legge di Dio a Mosè, meglio conosciuta come Decalogo (cf. Es 20,1-17). Al termine di questa lettura viene da chiedersi: qual è il senso di questi due brani biblici? Quale rapporto hanno tra loro? Perché la Chiesa ce li propone in questo tempo quaresimale? Per rispondere a queste domande dovremmo porci nella stessa prospettiva teologica dell’evangelista Giovanni, il quale nel presentarci il gesto di Gesù nel tempio, non si limita alla sola descrizione del fatto, come fanno gli altri evangelisti, ma si preoccupa di rileggerlo alla luce della risurrezione, come traspare dalle seguenti parole: “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22), praticamente la stessa prospettiva suggerita da Gesù ai suoi discepoli, al termine della Trasfigurazione: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (Mc 9,9). La risurrezione costituisce allora la chiave di lettura per comprendere sia il senso del gesto di Gesù nel tempio, sia quello del vero culto che va reso a Dio previsto dalla Legge. Pertanto se con la Trasfigurazione la Chiesa ci ha consentito di intravedere la vita gloriosa della sua risurrezione, con la Cacciata dei venditori dal tempio ha voluto come introdurci già all’interno di questa realtà escatologica.
Per acquisire questa prospettiva teologica di Giovanni suggerisco di compiere due operazioni: una è la lettura sinottica[1] dell’episodio evangelico; l’altra è conoscere la funzione del tempio presso gli Israeliti. Cominciamo con la prima. Il fatto che l’episodio venga riportato da tutti gli evangelisti ne attesta l’autenticità storica, sebbene ciascuno lo riporti secondo il proprio stile narrativo e la prospettiva teologica. Luca, per esempio, si limita solo a citarlo, raccontandolo nel breve spazio di due versetti (cf. Lc 19,45-46). Come Luca, anche Marco e Matteo, collocano questo episodio verso la fine della vita di Gesù, in prossimità della sua passione e morte. Stando a questi evangelisti il gesto di Gesù nel tempio avrebbe solo un significato di purificazione morale, avallato anche dalla citazione di Is 56,7 e di Ger 7,11: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate una spelonca di ladri” (Lc 19,46; Mc 11,17; Mt 21,13). Giovanni, invece, è l’unico ad associarlo alla profezia di Gesù sulla distruzione del tempio: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19), profezia che Matteo riporta durante lo svolgimento del processo di Gesù, davanti al sinedrio (cf. Mt 26,61). Ed è appunto questa associazione di parole e gesti, tipicamente giovannea, ad offrirci la chiave di lettura dell’episodio, senza la quale l’episodio sarebbe rimasto oscuro non solo ai Giudei, ma persino agli apostoli, i quali riescono a comprenderlo solo dopo la risurrezione, fino a quando, cioè, Cristo non darà loro lo Spirito che ne aprirà la mente[2].

Per meglio comprendere questa prospettiva è opportuno conoscere la funzione del Tempio. Per gli Ebrei il Tempio non era affatto la casa di Dio, come per le altre religioni. Dio, infatti, in quanto trascendente, non poteva abitare in un luogo. La sua funzione perciò era quella di custodire l’Arca dell’Alleanza[3], posta all’interno di una cella chiamata Santo dei Santi; preceduta da una sala che conteneva l’altare dei sacrifici. Queste due sale costituivano il tempio vero e proprio, definito fanum. Il tempio era circondato dal Cortile degli Israeliti, nel quale potevano entrare solo gli uomini; intorno al quale vi era un altro spazio chiamato Cortile delle Donne, nel quale potevano entrare le donne. All’estremità perimetrale di questi due cortili ve n’era ancora un altro, cosiddetto Cortile dei Gentili (definito pro-fanum, letteralmente prima del tempio), nel quale potevano accedervi anche gli stranieri che simpatizzavano o si erano convertiti alla fede mosaica. Nel fanum solo il sacerdote poteva entrare per compiere i sacrifici, giacché l’altare era all’interno, rispetto ai templi pagani, dove invece era posto fuori; mentre nel Santo dei Santi poteva entrare solo il Sommo sacerdote, una volta l’anno. Tutti gli altri credenti che non appartenevano al popolo d’Israele, come gli stranieri, potevano accedere solo nel Cortile dei Gentili, i quali per offrire un sacrificio, dovevano prima cambiare la loro valuta per comprare un animale, e poi offrirlo al sacerdote che lo sacrificava. Ed è proprio nel Cortile dei Gentili che avviene il gesto di Gesù. Infatti, Gesù, in quanto laico, non poteva entrare nel fanum. La presenza delle bancarelle e dei cambiavalute era, dunque, giustificabile, per garantire le varie operazioni religiose.
Col tempo però, questa operazione si era trasformata in una vera e propria attività redditizia, con cui sostenere le varie spese del tempio, fino ad assumere la forma di un commercio sacro, che snaturò il significato originario del tempio, facendolo passare da “casa di preghiera” a una “spelonca di ladri”, come fa notare Gesù. I sacrifici venivano offerti sì, ma con una ritualità tutta esteriore, che non comportava alcun tipo di conversione interiore, lontano da quella forma di sacrificio di lode (cf. Eb 13,15) che il Signore richiedeva ad ogni pio israelita (cf. Sal 50,14; Os 14,3). È appunto contro questa prassi religiosa che Gesù, sulla scia dei profeti che l’avevano preceduto (cf. Is 1,10-17; Ger 7,1-15; Ml 3,1ss), si scaglia con una tale veemenza da suscitare scalpore e scandalo in tutti gli astanti, apostoli compresi. Dinanzi a questo gesto così eclatante e provocatorio i Giudei, irritati, reagirono chiedendo spiegazioni in merito: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18). Essi cercavano un segno che manifestasse la statura profetica[4] di Gesù, ai quali egli diede la seguente risposta: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2, 19). La risposta di Gesù risultò loro assurda incomprensibile, tanté che replicarono: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?” (Gv 2, 20).
Può sembrare strano, ma stando all’evangelista Giovanni, l’episodio di Gesù nel tempio finisce così: senza un nulla di fatto: né un’accusa né una condanna. Pertanto tutto il seguito del racconto è interpretazione dell’evangelista, il quale, ricordando le parole di Gesù, rilegge l’episodio dopo la risurrezione, alla cui luce ne comprende il senso. La sua narrazione dunque è una rilettura teologica in chiave escatologica. Ed è appunto in questa prospettiva interpretativa che anche siamo chiamati ad entrare, se intendiamo comprendere il significato profetico ed escatologico del gesto e delle parole di Gesù. I “tre giorni”, allora, di cui parla Gesù sono chiaramente quelli della sua morte, al termine dei quali egli, risorgendo, avrebbe riedificato il suo corpo. Il vero tempio, dunque, non era quello di pietra, come ritenevano i Giudei, ma il corpo (cf. Gv 2,21), l’unico vero luogo dove è possibile adorare Dio in spirito e verità (cf. Gv 4,24). E il vero sacrificio non è quello dei buoi o delle pecore, ma quello di se stesso, l’unico sacrifico gradito a Dio, per mezzo del quale è possibile sperimentare la salvezza già nell’oggi della storia. Ecco profilarsi allora il vero senso della Legge divina, con la quale Gesù inaugura la nuova alleanza, che consiste essenzialmente nel dono di sé al prossimo, per amore di Dio. Questo dono di sé all’altro costituisce per Gesù il vero motivo di salvezza. Con questo gesto, accompagnato dalle parole, Gesù riporta il culto mosaico al senso originario, ovvero quello richiesto da Dio: “Amore voglio e non sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Ecco il sacrificio di lode che Dio chiede all’uomo: il dono di sé, del suo io, della sua volontà, della sua mentalità. Solo chi consegna liberamente se stesso, come fa Gesù, è veramente gradito a Dio. Per Dio la massima espressione del sacrificio è quella di chi si dona per amore. E ciò può essere deciso liberamente solo nel cuore, vero tempio dove custodire la legge di Dio. Qui si concentra tutta la sapienza salvifica di cui parla san Paolo nella sua lettera ai Corinzi 1, 22-25. Qui, ciascuno di noi, può decidere di compiere liberamente quel cammino di conversione che la Chiesa ci chiede di rinnovare in questo tempo di Quaresima.
[1] Per lettura sinottica s’intente una lettura comparata dello stesso episodio nei quattro vangeli, così da evidenziarne le affinità e le differenze.
[2] Si tratta di una vera e propria operazione di intelligenza spirituale che Giovanni esprime con la seguente formula: “i discepoli si ricordarono” (cf. Gv 2,17.22), come a sottolineare quel processo di comprensione dal quale ogni cristiano non può assolutamente prescindere. Esso consiste in un’attività sincronica della mente e del cuore e si attua attraverso tre operazioni, inscindibilmente unite: fare memoria, meditare, comprendere. Con la prima non ci si limita a passare in rassegna i ricordi e gli eventi, ma a riviverli e riattualizzarli nell’oggi della propria fede, nella cui luce ci si pone in ascolto, inteso come sforzo di comprensione, del significato di un evento. Meditare, oltre alla preparazione con la quale la mente si dispone ad accogliere il senso di un fatto con lo scopo di intenderlo bene e di aderirvi, comporta anche la capacità di collegarlo ad altri episodi simili, così da evidenziarne le convergenze e divergenze (cf. Lc 2,19). Infine il comprendere è l’attività propria dell’intelligenza, che come evidenzia l’etimologia del termine latino (composto da cum e prehendere, consiste nell’“intendere appieno” il significato delle cose. Per questo tipo di attività non basta esercitare la sola ragione, come fanno gli spiriti impuri che dimostrano di conoscere perfettamente l’identità di Gesù (cf. Mc 1,24), ma occorre che essa sia impregnata della luce dello Spirito proveniente dalla relazione di fede con Cristo. È in questo modo che lo Spirito lascia sbocciare il loro significato alla nostra intelligenza, rendendo evidente ciò che prima era nascosto.
[3] L’importanza di quest’ultima era dovuta al fatto che conteneva: le tavole della Legge, il bastone di Mosè e la manna, praticamente gli elementi simbolici dell’evento pasquale, ovvero dell’uscita dall’Egitto, passaggio del Mar Rosso e dell’Alleanza sinaitica nel deserto. Ciascun elemento ricordava un rispettivo momento particolare: le tavole della Legge rammentavano la “rivelazione di Dio sul Monte Sinai”. Il bastone gli “eventi prodigiosi compiuti in Egitto e il passaggio del Mar Rosso”, la manna il “pane del cielo” con cui Dio nutriva il popolo nel deserto.
[4] Solo un profeta, infatti, poteva permettersi tali cose, mentre Gesù era considerato un impostore (cf. Mt 27,63), in quanto trasgrediva la Legge, nello specifico del sabato.




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