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3 Luglio 2022 - Anno C - XIV Domenica del Tempo Ordinario

Aggiornamento: 9 lug 2022


Is 66,10-14; Sal 65/66; Gl 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20


La metodologia missionaria di Gesù


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Dopo il tema della “chiamata” la Chiesa ci propone quello del “mandato missionario”. Il brano evangelico che ci consente di approfondire questo tema è quello lucano della “missione dei settantadue discepoli” (cf. Lc 10,1-12.17-20). Esso, com’è evidente, segue quello relativo alle “esigenze della vocazione apostolica”, sul quale abbiamo meditato domenica scorsa. Questa successione tematica, oltre che redazionale, sembra suggerirci l’idea che il senso di ogni vocazione ecclesiale non può limitarsi alla sola chiamata, ma comprende anche quello della missione. Poste in questi termini “chiamata” e “missione” costituiscono due parti complementari dell’unica vocazione cristiana. Non esiste vocazione che si limiti alla sola chiamata personale. La vita evangelica o ecclesiale può dirsi tale quando la comunione d’amore divina, alla quale Gesù chiama i suoi discepoli, viene condivisa anche con altri. Il che significa che i discepoli non possono conservare gelosamente la loro comunione personale con Cristo, ma sono chiamati a realizzarla anche nel mondo.

Ma in cosa consiste questo mandato missionario? Qual è il contenuto che i discepoli dovranno annunciare? E soprattutto qual è il modo con cui dovranno predicare? Il mandato che essi ricevono da Gesù è lo stesso che lui ha ricevuto dal Padre: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). E anche il contenuto è lo stesso della predicazione di Gesù: “Andate … e dite loro: è vicino a voi il regno di Dio” (cf. Lc 10,3.9; Mc 1,15). Prima ancora che una verità di fede ereditata dalla tradizione biblica, il “regno di Dio” è uno stile di vita che i discepoli vanno assimilando durante la loro permanenza con Gesù. Più specificamente è la vita divina che Gesù condivide personalmente col Padre nello Spirito e comunitariamente con i discepoli. Una vita divina che va estesa anche a quella umana, quando quest’ultima viene vissuta all’insegna della stessa relazione d’amore trinitario. Quel “regno”, dunque, che costituisce il principale obiettivo della predicazione di Gesù, diviene ora anche il fine dell’attività missionaria dei suoi discepoli.

La particolarità di questo brano evangelico sta nel fatto che Gesù estende lo stesso mandato missionario anche a un altro gruppo di discepoli, più numeroso rispetto a quello dei “dodici”, che Luca qualifica come “settantadue” [1]. Anche questo gruppo, come quello dei “dodici” (cf. Lc 9,1-6) è “mandato” da Gesù, ma a differenza loro, questi vengono inviati “a due a due in ogni città e luogo dove stava per recarsi” (Lc 10,1). Questa modalità, specificata da Luca, ci dà modo di cogliere la metodologia missionaria di Gesù. La formula “a due a due” chiarisce la condizione fondamentale del regno di Dio, dove per amare sono necessarie almeno due persone, come nella vita trinitaria, nella quale lo Spirito costituisce il presupposto della reciproca relazione d’amore tra il Padre e il Figlio[2]. Andando a “due a due” essi avrebbero reso più efficace, immediata e visibile la testimonianza dell’amore trinitario, al quale venivano educati da Gesù. Da come essi si sarebbero amati avrebbero reso una concreta testimonianza dell’amore reciproco predicato da Gesù (Cf. Gv 13,34-35). Dalla comunione della loro relazione interpersonale avrebbero lasciato trasparire quella intradivina che li animava.

La metodologia missionaria di Gesù, oltre a queste condizioni relazionali, comporta anche alcune disposizioni personali, come la “povertà”, che assume in questo caso una connotazione specificamente spirituale, oltre che materiale, come chiarisce bene Matteo nel Discorso delle beatitudini di Gesù: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Per questo tipo di annuncio, infatti, non occorrono strategie pastorali, né piani preventivi, né appoggi politici e neppure culturali. Essi apparentemente sembrano offrire dei validi contributi e non è detto che vadano esclusi, ma col tempo si rivelano spesso condizionanti e perfino limitanti. Il presupposto fondamentale, perciò, è la povertà che è indice di libertà da tutto ciò che potrebbe vincolare o soffocare l’azione di Dio nelle trame del mondo. “Né borsa, né bisaccia, né sandali” (Lc 10, 4), ma solo Dio per dire Dio. “Il di più viene dal maligno” (cf. Mt 5,37). I discepoli dovranno andare nell’assoluta convinzione che Dio provvederà a tutte le loro esigenze. Per questa ragione essi, entrando in una città o in una casa, dovranno accettare quanto viene loro dato, senza esigere di più. Che questa povertà spirituale comporti una totale fiducia in Dio Padre, lo si deduce anche dalle parole che accompagnano il mandato: “Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3). Si tratta dunque di un atto di estrema fiducia nella sua Parola e nell’azione provvidente di Dio, secondo le parole del Salmo 118/117, 6-9: “Il Signore è con me, non ho timore; che cosa può farmi l’uomo? Il Signore è con me, è mio aiuto, sfiderò i miei nemici. È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo. È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti”. Essa costituisce il presupposto per riconoscere che il principale artefice del Regno è Dio. Occorre essere in piena comunione con lui e fare solo la sua volontà se non si vogliono vanificare tempo ed energie.

Se la povertà è la conditio sine qua non della missione, la preghiera ne costituisce la linfa vitale. Essa deve occupare un posto fondamentale nella vita dei discepoli, come in quella di Gesù. Per Gesù nulla accade fuori da un contesto di preghiera. Nella preghiera egli matura le grandi decisioni della sua vita come quella nel deserto durante le tentazioni, preludio alla sua vita pubblica, della chiamata dei discepoli. Sempre nella preghiera accadono gli eventi decisivi che rivelano la sua identità messianica: come la moltiplicazione dei pani, la trasfigurazione, la passione. La preghiera è l’alveo nel quale Gesù si pone in ascolto della parola di Dio e ne comprende la sua volontà. Lo stesso vale anche per i discepoli: è nella preghiera che essi potranno chiedere gli operai necessari alla diffusione del regno di Dio: “Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe” (Lc 10,2).

Nell’annunciare il “regno di Dio” i discepoli, prima ancora di provvedere ai bisogni materiali[3] degli altri, dovranno portare la “pace” di Cristo: “In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa” (Lc 10,5). Ma cos’è questa pace di cui parla Gesù e perché la ritiene così prioritaria nel mandato missionario, da anteporla a qualsiasi altro dono? La pace predicata dai discepoli è la definitiva riconciliazione con Dio, quella che si sperimenta al momento del perdono, dopo la dolorosa esperienza del peccato che agita, angoscia e rende inquieto il cuore dell’uomo, come fa notare argutamente Agostino, quando dice che “Il nostro cuore è inquieto Signore, finché non riposa in te”. È quella condizione rassicurante che si sperimenta nelle circostanze concitate della vita, come quella a cui si riferisce il Salmo 27/26: “Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme: se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”, oppure quella espressa dal Salmo 131/130: “Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia”. La pace, pertanto, non si riduce ad una formula di saluto, ma costituisce lo status del regno, come attestano le parole che Gesù rivolge ai discepoli riuniti nel Cenacolo, dopo la sua risurrezione: “pace a voi” (cf. Gv 20, 19.21.26). La sua presenza è segno che il regno è giunto in quel luogo, perciò costituisce il criterio per riconoscerne la presenza.

Questa pace potrà essere accolta o rifiutata. L’uno o l’altro atteggiamento determina la qualità di vita di una persona, di una casa o di una città. Nel caso in cui essa viene accolta i discepoli avranno guadagnato una persona al regno di Dio, diversamente “dovranno scuotere perfino la polvere che si è attaccata ai loro piedi” (cf. Lc 10,11), a testimonianza del rifiuto di cui i discepoli non dovranno più ritenersi responsabili.

Nel descrivere l’episodio del “mandato missionario” Luca ci racconta anche gli effetti provocati dalla predicazione dei “settantadue”. Tra di essi vi è soprattutto la gioia, che ora avvertono di condividere con il loro maestro. La gioia è un altro segno distintivo del regno, quando scaturisce dalla constatazione delle meraviglie operate dalla Parola. Essa, infatti, come fa notare Gesù, non è quella che scaturisce dalla loro abilità oratoriale, dal successo della loro missione o dal potere conferito loro da Gesù, e neppure dalla loro immunità all’azione del demonio (cf. Lc 10,17), quanto piuttosto dal fatto che “i loro nomi sono scritti nei cieli “(Lc 10,20). Questa è l’unica cosa di cui essi dovranno rallegrarsi. Qui è lo scopo della loro missione. Qui è la gioia di Cristo, come lui stesso afferma nel detto: “C’è più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).

Si capisce, in questo contesto, anche il senso del brano di Isaia, propostoci dalla liturgia odierna. Il profeta, come gli apostoli, è anch’egli attraversato dal profondo desiderio di condividere quella gioia interiore che proviene dalla ritrovata libertà del suo popolo, al termine dell’esilio babilonese. Si tratta di un brano ricco e raffinato, sotto l’aspetto letterario, come ricco e raffinato è il repertorio lessicale con cui lui esprime le straordinarie sfumature della gioia biblica: rallegratevi, esultate, sfavillate, consolatevi, deliziatevi dell’amore che Dio nutre per chiunque decide di condividere la realtà del suo regno (cf. Is 66,10-14). Isaia, come Gesù, gioisce dinanzi alle meraviglie operate da Dio, specie quando si diviene oggetti della sua salvezza, la stessa che anche noi siamo chiamati a condividere e a contagiare, quando veniamo resi partecipi dell’amore di Dio. Qui è la ragione, l’essenza e lo scopo di ogni azione missionaria.

[1] Chi sono questi settantadue? Quando e come sono stati chiamati? Nessun evangelista ne parla. E la loro formazione è la stessa degli apostoli? Perché proprio settantadue o settanta come si legge da altri codici? Il numero settantadue o settanta è significativo perché rimanda ai settanta anziani di Israele che vengono scelti da Mosè per aiutarlo a condividere il peso della sua missione e sui quali viene effuso il suo Spirito (cf. Nm 11, 16). Si tratta perciò di un primo esempio di missione nella Bibbia. Ma settanta – secondo il testo originale ebraico – settantadue secondo quello greco – è anche il numero delle nazioni pagane elencate nella cosiddetta “tavola delle nazioni” (cf. Gn 10). È un modo questo per indicare l’universalità della missione alla quale è chiamata la Chiesa, come attestano gli Atti degli Apostoli 2. [2] Si tratta chiaramente di una relazione d’amore che diviene comprensibile solo all’interno di quella evangelica che Gesù stabilisce con i suoi discepoli, come descritta da Giovanni nel suo Vangelo (cf. Gv 15,9-17). Nella vita trinitaria lo Spirito è colui che rende possibile il dono d’amore che ciascuno fa di sé all’altro: il Padre, nel donarsi al Figlio, si fa nulla d’amore, al punto da rendersi visibile nella presenza operante del Figlio; a sua volta il Figlio, nel farsi dono al Padre, rivela la sua identità divina nella volontà salvifica del Padre. [3] Il dare da mangiare, da bere, il visitare i carcerati, vestire gli ignudi e così via – quei servizi cioè che qualifichiamo come opere di misericordia corporale – sono certamente compiti importanti, che testimoniano l’autenticità evangelica e per altro quelli sui quali saremo interrogati e chiamati a rispondere dinanzi a Dio nel giorno del giudizio, ma non sono l’essenza del vangelo, che rimane quella della salvezza della persona per mezzo della comunione d’amore.

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