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3 Dicembre 2023 - Anno B - I Domenica di Avvento


Is63,16-17.19; 64, 2-7; Sal 79/80; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37


La fede come vigilante attesa


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“State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque … e fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati” (Mc 13,33-36).

È la parabola con la quale Gesù ci esorta a vegliare, per vivere la fede come vigilante attesa della sua venuta. L’Avvento nel quale, oggi, la Chiesa ci introduce con questo brano evangelico, ancor prima di segnare l’inizio di un nuovo anno liturgico, dice la modalità con cui siamo chiamati a vivere la fede, non solo in questo tempo, ma durante tutto l’arco della nostra vita. La nostra fede deve perciò tradursi in una mentalità d’attesa, in vista dell’incontro definitivo con Cristo. A questo proposito si rivela particolarmente significativa l’invocazione con la quale l’evangelista Giovanni conclude il libro dell’Apocalisse: “Vieni, Signore Gesù”, e la risposta di Cristo: “Sì, verrò presto” (Ap 22,20), come a voler confermare la speranza che i discepoli nutrono nell’attendere il Salvatore. È in questo incontro che trova compimento e pienezza tutta la nostra esistenza d’avvento.

Pur nella sua brevità questa parabola richiama alla memoria quella delle Dieci vergini (Mt 25,1-13) e dei Talenti (Mt 25,14-30), che abbiamo avuto modo di commentare nelle scorse domeniche, e attraverso le quali ci siamo addentrati nella prospettiva escatologica, quale condizione necessaria per prepararci all’incontro con Cristo. Attraverso la parabola delle Dieci vergini abbiamo capito che non basta limitarsi ad attendere, ma occorre anche attendere con intelligenza, alimentando e custodendo quella sapienza (olio), che ci consente di prolungare l’attesa fino a notte fonda, ovvero fino all’incontro con lo Sposo. Il che significa imparare a trovare nella fede la ragione che ci consente di capire il senso dell’apparente ritardo di Cristo, come afferma Pietro nella sua seconda lettera: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9).

Attraverso la parabola dei Talenti, invece, abbiamo capito che la fede è un dono di cui ci verrà chiesto di rendere conto, come tale essa va necessariamente coltivata, custodita e fruttata. Il suo mancato investimento ci fa correre il rischio di sprofondare nelle “tenebre”, ovvero in una visione esistenziale angosciante e priva di senso. Da qui i tre imperativi che Cristo rivolge ai discepoli col brano evangelico di oggi: “Fate attenzione”, “Vegliate”, “Vigilate” (cf. Mc 13,33.35.37). Tre imperativi che spiegano altrettanti atteggiamenti, che noi vorremmo acquisire come parole chiave per comprendere il senso dell’Avvento. “Fare attenzione” ai segni che preannunciano l’arrivo di Cristo, esattamente come i contadini prestano attenzione ai segni della natura che annunciano le stagioni imminenti[1]. Tuttavia non è da tutti riconoscere i segni, poiché questi possono rivelarsi anche ambigui, perciò necessitano di una lettura attenta nella luce dello Spirito. “Il regno di Dio, infatti, non viene in modo da attirare l’attenzione”, pertanto alcuni potrebbe ritenersi autorizzati a dire: “Eccolo qui, o eccolo là”. Dinanzi a questi pericoli Gesù avverte il bisogno di mettere in guardia i suoi discepoli: “non andateci, non seguiteli” (Lc 17,21.23).

Vegliate”, perché non si sa quando egli tornerà: “se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino”. Menzionando queste diverse ore della giornata Gesù allude alle diverse età della vita o alle diverse epoche della storia. Il tempo della sua venuta rimane circondato da un alone di mistero che nessuno conosce, neppure il Figlio (cf. Mt 24,36), ma solo Dio. “Sarà un giorno singolare, noto al Signore” dice il profeta Zaccaria (cf. Zc 14,7). La sua venuta sarà perciò un evento imprevedibile. D’altra parte come dice Gesù ai figli di Zebedeo: Giacomo e Giovanni: “Non sta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato in suo potere” (Gv 10,40).

Vigilate”, cioè aguzzate la vista per scrutare bene nel buio, esattamente come fa la sentinella, quando di guardia nella notte, deve riconoscere dalla sagoma che avanza il profilo dell’amico o del nemico. Si comprende ancora di più l’importanza di disporre di un’intelligenza spirituale, per vedere Dio nei momenti cupi della nostra vita.

Come tradurre questo triplice atteggiamento a livello spirituale nell’oggi della nostra fede? Una risposta a questa domanda potrebbe venirci dalla prima lettura, dove il profeta Isaia pur limitandosi a descrivere la situazione degli ebrei al termine del periodo di esilio babilonese, sembra delineare il profilo della nostra attuale situazione sociale, culturale e religiosa. Il silenzio di Dio, coinciso con l’esilio, sembrava aver decretato la fine della loro esperienza religiosa. Per troppo tempo (70 anni) sembrava che Dio avesse abbandonato il popolo alla mercé dei Babilonesi. Ora però quella situazione non era più sostenibile. Da qui il grido d’appello alla fedeltà di Dio e alla sua promessa di salvezza, che il profeta eleva in modo accorato: “Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità” (Is 53,17).

Ma come riconoscere i segni di questo rinnovato ritorno di Dio? Come discernere la sua azione tra le tante compiute dagli uomini nella vita? Con quali criteri capire che l’editto di Ciro costituiva effettivamente un segno divino e non un’iniziativa umana? Sono domande estremamente attuali, che ritornano ogni qualvolta, anche noi, come il popolo d’Israele, ci ritroviamo a vivere circostanze critiche nella vita, dove, ancora più che in altre situazioni, avvertiamo Dio lontano e perfino sordo alle nostre domande. È importante perciò cogliere il criterio con cui il profeta legge la storia, per interpretare a nostra volta gli eventi che caratterizzano il nostro presente. Per farlo seguiamo il suo metodo. Notiamo subito che egli ripercorre a ritroso la storia del suo popolo, per capire le ragioni che lo hanno condotto a quella situazione e soprattutto per individuare il filo conduttore con cui Dio guida il popolo alla salvezza. È chiaro che il linguaggio usato dal profeta per descrivere la presenza operante di Dio nella storia, non corrisponde a quello storiografico attuale, caratterizzato spesso da un rigore scientifico, da rendere perfino asettico, freddo e distaccato il resoconto storico stesso, bensì quello metaforico che si esprime attraverso alcune immagini per descrivere la situazione, come quella seguente: “Ci siamo tutti avvizziti come foglie, / le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento … siamo in balia delle nostre iniquità” (Is 64,5.6).

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Non è forse questa la triste e amara descrizione che tanti di noi fanno quando si scoprono improvvisamente disillusi dalla situazione della loro vita, per aver compreso l’inconsistente superficialità delle loro idee, che li hanno condotti a compiere scelte di vita sbagliate, magari compiute anche in modo consapevole, tali da poter essere giustificate anche razionalmente, ma delle quali ora pagano le drammatiche conseguenze?




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L’immagine della “foglia avvizzita”, accartocciata su se stessa, sbiadita, che ha perso ogni legame con la pianta e perciò esposta ad essere trasportata via dal vento, è quanto mai emblematica, ma anche estremamente realistica e attuale. Quanti di noi, ancora oggi, si lasciano guidare dal criterio del ‘gomito’, dell’ingiustizia, della cattiveria, della negligenza, del successo nel compiere scelte di vita apparentemente profetiche e cariche di un futuro promettente, e invece poi si scoprono con l’amaro in bocca e a mani vuote? Quanti, pur di conquistare fama in tutto il mondo, si ritrovano a rovinare la loro vita? (cf. Lc 9,25). Cosa invece, per Isaia, è in grado di garantire un presente solido e un futuro certo, se non la promessa di Dio e la fedeltà alla sua parola? Forse non c’è forma più evidente di arroganza e presunzione che nel ritenersi artefici assoluti della propria vita, quando ci si illude di poterla plasmare facendo a meno di Dio, impedendogli di intervenire nelle proprie decisioni, ed escludendolo dalle proprie scelte. Cosa siamo noi se non “opera della sue mani”? (Is 64,7). E chi è lui se non il “Signore nostro padre e nostro redentore”? (Is 63,16b). Eppure, nonostante ciò, il profeta non può fare a meno di constatare che proprio lui, quello che noi riteniamo “Signore, padre e redentore”, ora ci lascia “vagare lontano dalle sue vie”, di “indurire il nostro cuore”, di smarrire il suo “timore”, di perdere la memoria di lui (cf. Is 63,17); liberi di ribellarci, come il figliol prodigo, alla sua volontà e di sperimentare le amare conseguenze delle nostre scelte di vita. Dinanzi a questo scenario prospettato dalla sua descrizione, Isaia si chiede se sia ancora possibile ritornare a Dio. Egli non lo esclude, a condizione però che il popolo prenda coscienza delle “propria iniquità” e chieda umilmente perdono delle proprie scelte di vita. Da qui la commovente e fiduciosa preghiera con la quale chiede a Dio di ritornare a manifestare la sua paterna redenzione: “Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore della … tua eredità” (Is 63,17)[2].

Una preghiera quanto mai appropriata per cominciare il nostro cammino d’Avvento; la stessa che intendiamo rivolgere al “Cristo che viene”. Anche noi come il profeta ci ritroviamo in uno scenario sociale, morale e culturale non molto diverso dal suo, e anche noi, come lui, avvertiamo il bisogno di riflettere sulle scelte di vita che ci hanno portato e forse continuano a portarci via lontano dal Vangelo di Cristo, scelte che riteniamo giuste, ma che molto spesso scaturiscono da una mentalità animata dalla logica di peccato. La situazione descritta da Isaia si rivela come la tragica conseguenza di una serie di scelte, che hanno portato il popolo a svincolarsi progressivamente dalla protezione di Dio, fino a sperimentare l’orlo del baratro esistenziale. Tuttavia più che Dio ad “abbandonare il popolo” è il popolo ad essersi “allontanato da Dio”. È la stessa percezione che può avere ciascuno di noi, quando allontanandosi da Dio avverte la mancata protezione della sua grazia e perciò lo percepisce lontano. È in questa reinterpretazione teologica della storia che il profeta fa prendere coscienza al popolo della causa scatenante della loro drammatica situazione: “Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli … le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento” (Is 64,4s).

Proviamo allora a lasciarci sollecitare da questa interpretazione profetica della storia di Isaia e chiediamoci: in che modo ci impegniamo a rileggere la nostra storia alla luce di quella salvifica di Dio? In che modo la fede ci aiuta a sviluppare questo criterio di lettura della storia? Trova qui allora il suo senso la domanda che Gesù pone ai discepoli, in circostanze assai simili alla nostra: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18, 8). Ecco, dunque, la questione fondamentale: la fede. Quale sforzo facciamo per conservarla? Quanta fiducia diamo alla voce profetica dello Spirito dentro di noi? In che modo essa ci aiuta ad acquisire una lettura teologica della vita? Ancora una volta, perciò, avvertiamo il bisogno di prendere coscienza dei nostri peccati, delle nostre resistenze, delle nostre ribellioni, così da metterci nella condizione di “invocare il suo nome”, “confidare in lui”, “stringerci a lui” e di attendere che squarci la coltre della nostra mentalità malata, e che manifesti la sua presenza tra noi. Anche noi allora, all’inizio di questo nuovo anno liturgico, intendiamo rivolgerci a Dio con la preghiera del salmista: “Tu, pastore d’Israele, ascolta … risveglia la tua potenza e vieni a salvarci … Ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato” (Sal 79).


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[1] Gesù ricorre spesso ai paragoni con la natura, come nel caso delle gemme dell’albero di fichi, che già in pieno inverno, preannunciano l’imminenza dell’estate (cf. Mc 13,28-29). È interessante notare che nella parabola del fico Gesù dice: “Quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina”. Ci saremmo aspettati che lui parlasse di “primavera” e invece parla di “estate”. Questo particolare ci induce a cogliere l’affinità tra l’albero di fichi e quello di mandorlo. Se tra tutti gli alberi quello di mandorlo anticipa su tutti la primavera, diventando per questo simbolo della primizia della risurrezione di Cristo, quello di fichi preannuncia l’estate e quindi viene inteso come simbolo della sua venuta nella parusia. [2] Quella che lui formula in questo brano profetico è la preghiera che gli Ebrei cominciarono a recitare al loro rientro in Palestina, dopo l’amara esperienza dell’esilio Babilonese.

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