29 Ottobre 2023 - Anno A - XXX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 28 ott 2023
- Tempo di lettura: 9 min
Es 20,22-26; Sal 17/18; 1Ts 1,5c-10; Mt 23,34-40
L’amore: sintesi della Legge ed essenza di Dio

“Un dottore della Legge lo interrogò per metterlo alla prova: ‘Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?’. Gli rispose: ‘Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente’. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta le Legge e i Profeti”. (Mt 22,35-40).
Una domanda apparentemente onesta e sincera, quella che il maestro della Legge[1] pone a Gesù, ma che Matteo ci svela insidiosa e provocante per le intenzioni che la animano: il dottore infatti “lo interrogò per metterlo alla prova”. Gesù, senza lasciarsi condizionare dalla provocazione, rispose citando fedelmente i passi del Deuteronomio e del Levitico: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Dt 6,5) … e il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18)[2]. Per cogliere più in profondità il senso di questo brevissimo ma intenso diverbio tra Gesù il dottore della Legge è opportuno inserirlo nel contesto narrativo dei Sinottici. Matteo a differenza di Luca che, sia pure con qualche variante, ci riferisce lo stesso episodio (cf. Lc 10,25-28;), pone, come Marco 12,28-31, la domanda all’interno di un dibattito piuttosto aspro e violento: il dottore, infatti, risentito del modo con cui Gesù aveva risposto ai colleghi sulla questione delle “tasse imperiali” (cf. Mt 22,15-22) e “aveva chiuso la bocca ai sadducei” (Mt 22,34; cf. 22,23-33), gli tende un’ulteriore insidia. Si tratta perciò di una situazione carica di tensione, per cui verrebbe logico e umano immaginare Gesù impegnato a difendersi da un simile attacco, magari animato anche da qualche sentimento di rivalsa, come accade anche a noi di sperimentare in queste circostanze, e invece dalla risposta si evince che Gesù conserva un cuore puro, privo di acredine. Per nulla esacerbato dalla provocazione, egli parla dell’amore “verso Dio” e “verso il prossimo” come ad un amico, quando viene interpellato su ciò che per lui costituisce la cosa più cara della vita. Malgrado il clima teso e avverso, infatti, egli apre il suo cuore pur sapendo che il suo interlocutore era animato solo dal desiderio di verificare i suoi limiti teologici e spirituali.
Matteo, come è nello stile evangelico, non ci dice altro. Non si sofferma, per esempio, a descrivere il seguito di questo dibattito, per cui noi non sappiamo se il dottore della legge, nonostante le sue intenzioni, abbia apprezzato e stimato la risposta di Gesù e si sia ricreduto. Sta di fatto che l’evangelista, con questa sua ricostruzione narrativa, ci dà modo di stupirci, ancora una volta, della sapienza argomentativa di Gesù e della capacità che egli ha nel sintetizzare il senso della legge e di coniugare in un unico e inscindibile comandamento i due versanti dell’amore: verso Dio e verso il prossimo. Confrontando infatti la risposta di Gesù col versetto del Deuteronomio 6,5 notiamo subito qualche differenza: Mosè nel ribadire il senso della legge, in questo brano, insiste in modo quasi esclusivo sull’amore verso Dio[3], inteso giustamente come principio e fondamento dell’amore[4], al quale vanno consegnate tutte le dimensioni della vita: il cuore, l’anima, la mente … e, perché no, le azioni. Il cuore: con le sue diverse manifestazioni affettive filiali, familiari, amicali, erotiche …; l’anima (o spirito come viene preferito da altri), intesa come principio della vita, ovvero come ciò che conferisce il soffio vitale al corpo; la mente, come luogo d’origine delle facoltà intellettive, volitive, mnemoniche, razionali, psichiche (con le quali definiamo la nostra personalità); infine le azioni, come capacità di tradurre in opere idee, pensieri, progetti.
Tuttavia questa indiscutibile priorità divina[5], se non ben considerata, potrebbe adombrare l’amore verso il prossimo, che per Gesù giustamente costituisce la manifestazione visibile e concreta dell’amore verso Dio[6]. Nella visione di Gesù l’amore ha, dunque, un’inscindibile dimensione umana e divina, non si può parlare dell’una senza l’altra. Dio e il prossimo costituiscono due facce della stessa medaglia; i due estremi, trascendente e immanente, della tensione antinomica e polarizzante dell’amore. Esso è ciò che consente di pensare Dio nell’uomo e l’uomo in Dio, in un’inscindibile unità divino-umana. Le due dimensioni, perciò, si integrano a vicenda, nel senso che amando Dio si trovano le ragioni per amare il prossimo e amando il prossimo si traduce l’amore di Dio nel vissuto quotidiano. Così inteso l’amore non è appena appena un attributo di Dio, ma è l’essenza che lo costituisce, come afferma, in modo emblematico, Giovanni, quando scrive che: “Dio è amore” (1Gv 4,16). Pertanto, secondo Gesù, chi ama è “perfetto”, “com’è perfetto il Padre che è nei cieli” (cf. Mt 5,48).
La risposta di Gesù ci offre dunque l’occasione per soffermarci su questa triade costitutiva dell’amore: Dio, l’io e il prossimo. È importante far luce sul loro significato, nel tentativo di capire cosa l’amore comporta nella nostra vita di fede e per le nostre relazioni interpersonali e sociali. Cominciamo dall’amore. Nella prospettiva biblica Dio non custodisce il suo amore come un tesoro geloso (cf. Fil 2,6), al contrario, lo rende manifesto, in primo luogo con la sua potenza creativa, con la quale dà origine al mondo e a tutte le creature. Inoltre lo condivide con l’uomo, attraverso il suo piano salvifico che si dischiude lungo tutto il cammino storico della fede biblica. Per questa sua intima e profonda caratteristica costituzionale, Dio viene definito per l’appunto “Amore” (cf. 1Gv 4,8). L’amore è ciò che consente a Dio di uscire fuori di sé e darsi all’altro di sé, ovvero alle sue creature e all’uomo in particolare. Allo stesso modo di Dio chi ama è chiamato ad uscire fuori di sé. Senza questo movimento estatico si rischia di rimanere circoscritti all’interno del proprio io. L’io diventa in questo caso il referente unico dell’amore, limitandone l’estensione, lo sviluppo e il progresso. A questo movimento estatico l’uomo viene iniziato dalla relazione interpersonale verso l’altro da sé. Non a caso il termine ebraico che viene usato per indicare il “prossimo” sottolinea l’alterità, la differenza. Il prossimo, infatti, è il diverso da sé. Nella versione dei LXX (traduzione greca della Bibbia ebraica) il termine assume il significato di “vicinanza”. Il diverso, l’altro da sé diventa così colui che è vicino a sé, presso di sé, prossimo[7] per l’appunto. Questo apporto greco determina, nel corso della riflessione teologica ebraica, uno sviluppo semantico più universale. Il termine prossimo non indica più solo le persone dello stesso clan, parenti, amici e connazionali, ma anche lo straniero che dimora in territorio giudaico e condivide la stessa esperienza di fede. Gli altri invece continuano ad essere considerati “nemici”, verso i quali era persino consentito manifestare sentimenti di disprezzo (cf. Mt 5,43).
La straordinaria rivoluzione relazionale scaturita dal vissuto evangelico di Gesù porta il termine ad essere esteso perfino al nemico, che diventa così il prossimo da amare come se stessi, come attesta la Parabola del buon samaritano(cf. Lc 10,25-37). Ed è appunto questo estremo sviluppo evangelico che ci invita ad un’attenta riconsiderazione del concetto di prossimo nell’oggi della nostra realtà sociale. Specie in merito al fenomeno così attuale dei migranti.
Alla luce di questa intensa riflessione sull’amore divino e umano proviamo ora a cogliere il messaggio del brano evangelico. L’idea liturgica di proporre un simile brano subito dopo il tema della politica (cf. Mt 22,15-22), commentato domenica scorsa, ci fa intendere la politica come la forma di carità sociale più concreta dell’amore cristiano. In questo orizzonte, un amore che non si limita ad una relazione esclusiva con Dio, può diventare il principio ispirativo di un piano politico, capace di tradurre in azioni sociali l’amore che Dio riversa nel cuore del singolo. E cos’è questa operazione se non lo sforzo di creare le condizioni per la realizzazione del Regno di Dio nel mondo? Per Gesù l’amore di Dio e per Dio costituisce l’ideale della sua vita evangelica, per il quale egli chiede ai suoi discepoli di posporre qualsiasi altra forma d’amore umano (cf. Mt 10,37-39). Fondato sull’amore di Dio l’amore verso il prossimo, nella prospettiva di un servizio sociale e politico, non si riduce a una qualsiasi forma di filantropia, ma ad essere la manifestazione più autentica della carità cristiana. Pertanto, parafrasando il detto di Gesù sul tributo a Cesare, potremmo dire che l’amore è l’unica cosa che, al contempo, va “resa a Dio e all’uomo” (cf. Mt 22,21).
Inoltre l’amore verso il prossimo non prevede la riduzione dell’altro a sé, ovvero l’eliminazione della sua diversità, ma la presuppone. Esso non tende ad uniformare le differenze, bensì a svilupparle. Ma ciò comporta il coraggio del confronto e quindi il superamento del proprio egotismo ed egocentrismo[8]. L’io, in latino ego, si trasforma in “egoismo” quando l’amore di cui esso necessita diventa eccessivo ed assoluto. Allo stesso modo rimane o diventa “egocentrico” quando non riesce ad uscire fuori di sé e a cogliere l’io dell’altro. D’altra parte, un simile amore, non esclude, anzi prevede la valorizzazione della propria individualità, senza la quale nessun processo d’identità sarebbe possibile. Non a caso Dio chiede di amare l’altro come se stessi, ovvero di nutrire per l’altro lo stesso amore che si coltiva per sé. Pertanto chi non ama se stesso, neppure può amare l’altro da sé. L’esclusione o la riduzione di questa polarità relazionale mette seriamente a rischio l’identità specifica dell’amore cristiano. Ogni atto d’amore prevede questo sforzo. Ed esso è tanto più autentico ed efficace quanto più è libero e gratuito. In conclusione per Gesù l’amore di Dio costituisce il principio di ogni amore umano; e l’amore del prossimo la manifestazione più autentica della carità cristiana, la forma più concreta dell’azione politica.
[1] La Legge, insieme ai Profeti e agli Scritti sapienziali costituiscono le tre parti della Tanàkh, ovvero della Bibbia ebraica. Il termine è un acronimo formato dalle prime lettere della Torah (Legge), Nebi’im (Profeti), Ketubim (Scritti sapienziali).
[2] È interessante notare che Gesù nel rispondere non elenca i comandamenti più importanti, secondo l’ordine tracciato da Mosè nel libro dell’Esodo 20,2-17 e Deuteronomio 5,6-21, come avrebbe fatto un qualsiasi dottore, ma coniuga in un’unica e inscindibile formula letteraria, l’essenza stessa della Legge: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso”, abbinando in questo modo i testi di Dt 6,5 e Lv 19,18. Una simile sintesi conferma la straordinaria capacità di declinare l’amore nelle sue principali forme manifestative: verso Dio e verso l’uomo. “Da esse dipendono tutta la Legge e i Profeti” (cf. Mt 22,40).
[3] Né il versetto né il brano di Dt 6,1-13, infatti, fanno riferimento in questo caso all’amore verso il prossimo.
[4] L’amore costituisce per Mosè il principio, il senso e il fine dell’esperienza religiosa ebraica e di ogni forma di relazione personale e sociale. Esso è a fondamento della Legge, ne costituisce l’essenza, il nucleo vitale (cf. Dt 5, 32ss). Pertanto la Legge è la manifestazione più intima e profonda della volontà di Dio, ne rivela l’identità misericordiosa e giusta, e traccia il percorso etico-spirituale per conformare la vita delle persone a quella divina. La Legge, infatti, non solo fonda e motiva la relazione con Dio, ma regola anche quella civile e sociale. In questo senso essa costituisce il cuore pulsante della fede ebraica, l’essenza del suo pensiero teologico-civile. Nella visione ebraica infatti non è possibile scindere la relazione personale verso Dio da quella interpersonale verso la comunità ‘civile’. Esse costituiscono un tutt’uno integrale.
[5] Per cogliere il senso di questa dimensione assoluta, riconosciuta all’amore divino, potremmo rifarci all’esperienza dell’innamoramento. Accade che quando un giovane incontra l’amore della propria vita: una ragazza, un ideale di vita: artistico, scientifico, filosofico o sportivo che sia, esso diventa totale, per il quale si è disposto a spendere tutte le proprie energie affettive, intellettive e fisiche. Questo tipo di amore non può essere subordinato a nessun altro amore. Esso è al di sopra di tutto. Ora, se ciò accade per una cosa umana, quanto più può accadere per una divina?
[6] L’inscindibile rapporto tra amore divino e amore umano, viene perfettamente compreso da uno dei suoi discepoli più cari di Gesù: l’evangelista Giovanni, il quale nella sua prima lettera così afferma: “Se uno dice: ‘Io amo Dio e poi odia suo fratello, è bugiardo. Infatti se uno non ama il prossimo che si vede, non può amare Dio che non si vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il fratello” (1Gv 4,20-21). L’amore è l’essenza della vita divina, della quale occorre impregnare le relazioni umane. Ogni relazione è nient’altro che una forma d’amore, pertanto chi è animato dall’amore divino non può che riversarlo nelle relazioni umane. Una persona priva di questo amore divino rischia di esporsi al groviglio dei sentimenti negativi che albergano dentro di lui.
[7] La pagina biblica dell’Esodo che ci viene proposta come prima lettura, infatti, fa parte di quel cosiddetto Codice dell’Alleanza (cf. Es 22,20-26), che contiene una serie di norme spirituali-etico-sociali che rendono perfino doveroso l’aiuto verso le categorie sociali più svantaggiate, quali sono gli stranieri, le vedove, gli orfani e gli indigenti. Costoro non disponendo di nessuna forma di protezione - come possono essere quelle esercitate dal clan, marito, padre, avvocato - sono costantemente soggetti alle prevaricazioni esercitate dai potenti, come molestie, maltrattamenti, sfruttamenti, strozzinaggi, pignoramenti. E quando il popolo viene meno in questi suoi impegni fondamentali allora Dio stesso interviene in prima persona, con una serie di norme giuridiche, come quelle espresse da Es 22,20.21.24, che testimoniano l’istanza divina di regolare la vita sociale sulla base dell’amore, senza il quale nessuna forma di servizio politico, favorisce un autentico sviluppo umano sociale e personale.
[8] L’io non è una monade autosufficiente e assoluta, capace di vivere in modo autonomo e indipendente, ma una relazione. La sua intima struttura costitutiva è caratterizzata da un dinamismo relazionale. La sua chiusura verso l’altro rischia perciò di precludere lo sviluppo della propria identità. Esattamente quello che accade quando l’individuo si trasforma in individualista e l’individualità in individualismo, ovvero quando il soggetto pensa, dice e fa solo in funzione di sé. D’altra un eccessivo disprezzo di sé e della propria individualità rischia di precludere anche l’amore verso l’A/altro. Come si potrebbe amare l’altro da sé se non si è neppure capaci di amare sé? Tra amore di sé e amore dell’A/altro esiste una relazionale dalla quale non si può prescindere. Senza questa relazione l’amore di sé sfocia nell’alienazione.




Commenti