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29 Gennaio 2023 - Anno A - IV Domenica del Tempo Ordinario


Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145/146; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12


Le Beatitudini: il segreto della gioia evangelica



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“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte e messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito …” (Mt 5,1-3). Sono i versetti con cui l’evangelista Matteo apre il cosiddetto Discorso della montagna, compreso tra i capitoli 5° e 7° del suo Vangelo. Si tratta di un discorso col quale Gesù esplicita il contenuto della predicazione sul “regno di Dio”, alla quale Matteo accenna nel capitolo precedente: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Convertitevi, perché il regno dei cieli e vicino” (Mt 4,17). L’evangelista pone questo discorso all’inizio della predicazione di Gesù, come a voler evidenziare il modo, o se vogliamo lo stile, col quale egli inaugura la sua missione pubblica. Allo stesso modo la Chiesa ce lo propone all’inizio del Tempo Ordinario, cogliendo in esso l’essenza del Vangelo e le condizioni per tradurlo in uno stile di vita quotidiano. In questo senso chi intende aderire all’annuncio evangelico di Cristo e mettere mano all’opera della sua conversione, non ha che da vivere le Beatitudini.

Anche il contesto geografico entro il quale Matteo inserisce questo discorso avvalora la sua importanza. Esso è quello della “Galilea delle genti”, di cui abbiamo parlato già domenica scorsa, col quale l’evangelista ci dà un’idea dei destinatari dell’annuncio evangelico di Gesù. “I discepoli” ai quali lui fa riferimento all’inizio di questo brano, provengono infatti da quella “folla galilea” che al tempo di Gesù veniva solitamente additata come pagana e peccatrice, per aver rinnegato la fede mosaica ed essersi contaminati col culto degli altri dei; ma per la quale, paradossalmente, Gesù dischiara di essere venuto (cf. Mc 2,17). Non si tratta, dunque, di persone virtuose, ma di gente considerata ai margini della vita religiosa, sociale e culturale giudaica; che ha sperimentato la deriva della propria esistenza, per aver perseguito una logica di vita tutt’altro che morale e spirituale, ma che ora vede nella predicazione di Gesù un motivo per ricominciare a dare senso alla propria vita. Si capisce allora la ragione dei due brani biblici che arricchiscono la Liturgia della Parola di questa domenica, attraverso i quali comprendiamo i criteri con cui Gesù sceglie i destinatari del suo discorso, ma anche le condizioni che chiede loro per diventare suoi discepoli.

“Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra” (Sof 2,3), dice il profeta Sofonia a coloro che ritenevano, in virtù del proprio potere politico, di decidere le sorti del popolo d’Israele. L’arroganza e la presunzione con cui essi gestivano il potere politico e religioso, non erano certamente le condizioni favorevoli per sottrarsi al “Giorno di Jahvè”, formula con la quale il profeta proclama il giudizio di Dio su coloro che per via della condotta morale e spirituale alimentavano il politeismo, con cui avevano contaminato il culto della fede mosaica. Da qui l’invito all’umiltà, quale condizione per entrare a far parte del “resto di Israele” (Sof 3,13), ovvero quella parte sparuta di popolo con la quale Dio decide di continuare a realizzare il suo disegno salvifico.

Sulla stessa linea è l’invito all’umiltà al quale fa riferimento Paolo quando, rivolgendosi ai Corinti, fa luce sul criterio con cui Dio sceglie le persone semplici, debole e disprezzate per confutare la logica di vita perversa del mondo: “Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1Cor 1,27-29).

Questi due brani biblici ci consentono di cogliere appieno il significato dei cosiddetti anawim, i poveri di Jahvè”, i quali evidentemente non si identificano solo con gli indigenti, gli orfani, le vedove, gli stranieri, gli invalidi, ovvero con quelle categorie di persone che sono continuamente esposte al rischio della miseria, perché prive di ogni forma di sostegno, di difesa e spesso perfino del necessario di cui vivere, ma con quelli che Matteo definisce in termini di “poveri in spirito”, coloro che pongono in Dio la loro fiducia e raccomandano a lui la loro causa (cf. Ger 11,20; 20,12); coloro che cercano Dio e i suoi precetti (cf. Sof 2,3) e vedono nella comunione con lui (cf. Sal 73,26-28) il bene più prezioso, quale condizione della vera libertà di spirito (cf. Sal 16; 62; 84); coloro che vivono con distacco le loro ricchezze e si abbandonano fiduciosamente nelle mani della Provvidenza (cf. Giobbe). Gli anawim (i poveri) sono allora in primo luogo gli umili, coloro cioè che non fanno della loro intelligenza, della loro conoscenza e della loro ragione il criterio per ergersi al pari di Dio o al di sopra degli altri, come lascia intendere Paolo nel brano della sua lettera ai Corinti (cf. 1Cor 1,19-29). In altre parole il contrario della “povertà” biblicamente intesa, non è la ricchezza, il benessere, la prosperità, l’opulenza, il lusso, bensì l’arroganza, la presunzione, l’orgoglio, la prepotenza, la superbia, tutti atteggiamenti che impediscono letteralmente di comprender e ancora più di aderire alla logica evangelica di Gesù. L’umiltà, pertanto, è la condizione fondamentale che Gesù richiede a quanti decidono di voler aderire al suo vangelo, al tempo stesso è il criterio con cui egli individua e sceglie i suoi discepoli. Si capisce allora la ragione per cui Matteo, rispetto a Luca, preferisce aggiungere alla “povertà”, il complemento di specificazione “in spirito”, come a voler precisare l’ambito nel quale, più di ogni altro, ciascuno di noi è chiamato a purificare il proprio spirito, il proprio io, quale condizione necessaria per accedere al regno di Dio. Non è possibile professarsi discepoli di Cristo e mostrarsi al tempo stesso superbi, arroganti, presuntuosi ... La presenza di questi atteggiamenti è segno di una scarsa incidenza della logica evangelica nella propria vita. In questo senso la testimonianza di fede che il Battista rende a Cristo – sulla quale ci siamo soffermati domenica scorsa – costituisce uno straordinario esempio di umiltà: egli pur disponendo di qualità profetiche tali da poter essere considerato dal popolo come il messia atteso, ritenne fondamentale, invece, manifestare, in virtù della sua onestà intellettiva, spirituale e morale, la sua vera identità di semplice precursore (cf. Gv 1,19-27). Lo stesso Gesù, a partire dal battesimo, decide di vivere la sua missione pubblica non come un “Dio trionfante” che fa sfoggio del suo potere divino, ma come un umile peccatore tra i peccatori. Alla luce di questi esempi ci chiediamo: quanti di noi sarebbero disposti a riqualificare la propria identità personale, qualora venga sopravvalutata dagli altri? Pertanto il povero in spirito è colui che attende di essere riconosciuto da Dio più che stimato delle persone. La vera “povertà in spirito” si manifesta allora quando si decide di consegnare a Dio la propria vita e quindi la propria intelligenza, la propria ragione, il proprio cuore e rinunciare a quella logica di pensiero che espone al rischio di vivere un’esistenza lontana dalla relazione d’amore con lui. È a questo tipo di povertà che si riferisce Gesù quando rivolgendosi a Dio dice: “Si o padre, perché così è piaciuto a te di rivelare queste cose ai semplici e non ai sapienti. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,26-27). Chi è dunque il “povero in spirito” se non il “piccolo evangelico”. La povertà – come annota la Bibbia di Gerusalemme – sta alla pari con l’infanzia spirituale, necessaria per entrare nel regno dei cieli (cf. Mt 18; Mc 9,33-50; Lc 9,46-48). È qui il segreto della vera beatitudine evangelica, quella cioè che diventa motivo di gioia anche quando, come afferma Gesù al termine di questo brano evangelico, ci si ritrova per assurdo a sperimentare situazioni di afflizione, di ingiustizia e perfino di persecuzioni per causa sua (cf. Mt 11-12).

Ecco definito allora il criterio principale per riconoscere l’identità del vero beato. Egli non si distingue per qualità umane, ma per la piena docilità e disponibilità al piano salvifico di Dio. Si capisce allora il senso delle tre beatitudini: “povertà in spirito”, “purezza” e “mitezza”. La loro funzione è quella di predisporre il discepolo ad acquisire le stesse caratteristiche di Gesù: puro, mite, “povero e umile di cuore” (cf. Mt 11,29). La “purezza”, perciò, prima ancora di essere una qualità morale è una prerogativa spirituale. Essa è propria di chi scorge l’azione di Dio anche dentro le più evidenti forme di ingiustizia personale e sociale. In questo senso è una qualità schiettamente profetica e visionaria, di chi presta a Dio non solo la parola, ma anche la propria mente, il proprio cuore, il proprio sguardo; tutte dimensioni necessarie per imparare a vedere, interpretare e qualificare la realtà con lo sguardo di Dio.

Allo stesso modo la “mitezza” non va confusa con l’ingenuità, la bonarietà, la semplicioneria, ma indica il comportamento paziente[1]di chi continua a confidare nel Signore anche quando si ritrova in circostanze avverse, tali da mettere in pericolo la propria vita, come quelle descritte dal Salmo 27,3: “Se contro di me si accampa un esercito, / il mio cuore non teme; / se contro di me si scatena una guerra, / anche allora ho fiducia”; o ancora il Sal 118,5-8: “Nell’angoscia ho gridato al Signore, / mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo. / Il Signore è con me, non ho timore; / che cosa può farmi l’uomo? / Il Signore è con me, è mio aiuto, sfiderò i miei nemici. / È meglio rifugiarsi nel Signore / che confidare nell’uomo. / È meglio rifugiarsi nel Signore / che confidare nei potenti”.

A cosa alludono queste circostanze se non a quelle che Gesù definisce in termini di “persecuzione” che si manifestano verso coloro che decidono di versare la propria vita per Cristo e per la sua causa evangelica? “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12). Se c’è dunque una ragione che induce Gesù a ritenere beati perfino i perseguitati per la giustizia, questa sta nel desiderio di rivelare loro il segreto della gioia. E questa non scaturisce dal benessere fisico, psicologico e neppure da quello intellettivo, ma dalla più profonda partecipazione alla causa di Cristo, come annota Luca nel libro degli Atti, quando parlando delle prime persecuzioni subite dagli apostoli da parte del Sinedrio dice: “Se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). Personalizzando le parole dell’apostolo Giacomo impariamo quindi a considerare “perfetta letizia quando subiamo ogni sorta di prova, sapendo che la prova della fede produce la pazienza e la pazienza completa l’opera di Cristo in noi, perché siamo perfetti e integri, senza mancare di nulla” (cf. Gc 1,2-4). Qui è l’intima e misteriosa radice della beatitudine evangelica.



[1] San Tommaso d’Aquino dice che “la pazienza si giudica grandi in due circostanze: o quando sopporta docilmente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano” (Conferenze) - (il corsivo è mio).

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