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29 Dicembre 2024 - Anno C - Santa Famiglia


Sam 1,20-22.24-28; Sal 83/84; 1 Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52





La famiglia di Nazaret:

casa della Chiesa


Paul Gauguin, Te tamari no atua (1896),  (Nascita di Cristo - in Polinesia) Monaco, Neue Pinakothek

Michelangelo Buonarroti, Tondo Doni (1504-1506), Galleria degli Uffizi, Firenze


“Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo. Ed egli disse loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” (Lc 2,48-50).

È con questo brano evangelico che la Chiesa ci fa celebrare, oggi, la Sacra Famiglia di Nazaret. Esso ci riferisce di un episodio, non certo tranquillo e sereno, al contrario piuttosto drammatico, anzi “angosciante”, per usare una definizione lucana. Tale, infatti, è il termine che Luca pone sulla bocca di Maria, all’indomani del ritrovamento di Gesù nel tempio. Un colloquio breve, ma intenso, nel quale si intrecciano sentimenti di inquietudine, incomprensione e di gioia, da parte dei genitori, per il figlio prima smarrito e poi ritrovato; determinazione e piena consapevolezza di sé, da parte di Gesù, nell’esprimere – forse per la prima volta in modo chiaro e inequivocabile – la sua vera identità originaria e occupazione personale.

Noi cogliamo la proposta di questo brano liturgico, come pretesto per conoscere un po’ più da vicino il clima relazionale che si respirava all’interno di questa singolare famiglia nazaretana. E per farlo ci avvaliamo anche del contributo della prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, che ci riporta la coraggiosa decisione di Anna di consacrare a Dio il suo unico figlio Samuele, dopo averlo accoratamente implorato al Signore nel tempio; e della prima lettera di Giovanni che ci offre uno spaccato sulla straordinaria realtà filiale divina alla quale Cristo apre la nostra esistenza. Ogni brano, dunque, contribuisce, a suo modo, a farci conoscere le condizioni per crescere “in età, sapienza e grazia” (Lc 2,52) in quel clima d’amore che siamo chiamati a realizzare all’interno della famiglia più allargata che è la Chiesa. D’altronde che senso avrebbe celebrare questa memoria se non trovassimo nella casa di Nazaret le radici e il clima familiare autentico da realizzare nella nostra casa ecclesiale?

Ci addentreremo, dunque, tra le mura di questa casa, partendo dall’episodio biblico di Anna, la madre di Samuele. Di essa il brano ci descrive il momento cruciale in cui consegna il proprio figlio al sacerdote Eli, come atto di gratitudine e consacrazione a Dio. Si tratta di un atto intenso e carico di tenerezza, ma anche struggente e pervaso di profonda onestà e coerenza spirituale, che evidenzia la fedeltà di Anna alla promessa che, poco meno di un anno prima, aveva fatto a Dio, quella cioè di consacrare al servizio del tempio, il figlio che Dio le avrebbe concesso. Tutto accade esattamente secondo l’invocazione, e lei, senza indugio, prese il bimbo e dopo averlo svezzato, lo portò al tempio.

Dalla descrizione che ne fa l’autore biblico, l’episodio sembra svolgersi in una cornice serena e tranquilla. In realtà come può benissimo immaginare una mamma, non è affatto semplice staccarsi dal figlio per farne dono ad un altro, anche se Dio. Tale atto necessita di uno svezzamento non solo fisico, ma anche relazionale. Per questo esso non riguarda solo il bambino, ma anche la madre. Per compierlo, infatti, non basta smettere di dargli il latte, ma comporta anche il coraggio di svincolarsi da quei sentimenti di premura e attenzione che solo una madre può capire. Eppure è un’operazione necessaria, se s’intende educare il figlio ad una relazione libera e matura. Anna delinea così il tipo di relazione che ogni mamma è chiamata a realizzare col proprio figlio. La sua spiritualità svincola la relazione materna da ogni idea di possessività e fa capire che un figlio pur essendo profondamente proprio, è un dono di Dio e come tale a lui va restituito. È qui che si rivela la maturità umana e spirituale di un genitore; la stessa di tutti coloro che nella Chiesa sono chiamati a generare le persone alla vita spirituale.  

Il dramma religioso di Anna si palesa ancora più chiaramente in Maria e Giuseppe, nell’episodio del primo pellegrinaggio al tempio vissuto da Gesù. Quel pellegrinaggio che doveva segnare per il loro figlio il tanto agognato passaggio dall’adolescenza alla maturità[1], si rivela come un momento carico di angoscia: Gesù si smarrisce e ciò getta nello sconforto i suoi genitori. La scena della perdita del figlio viene descritta con estrema sobrietà, ma non è difficile per un genitore cogliervi il dramma che vi sta dietro, specie quando il tempo si prolunga per tre lunghi e ansiosi giorni di ricerca. Alla fine la scena si conclude con un lieto fine, ma questo è solo un preludio di quel dramma che Maria vivrà, in modo molto più esteso e profondo, sotto la croce, quando sperimenta la sensazione di averlo perduto per sempre. E in quale inimmaginabile angoscia sarebbe potuta cadere se non avesse imparato a nutrire la speranza di un Dio che opera oltre ogni speranza. E non è escluso che Luca faccia riferimento, in questo caso, alla simbologia numerica di “tre”, proprio in vista della passione, morte e risurrezione di Gesù, alludendo in questo modo al giorno in cui Dio interviene per porre fine alle sofferenze di coloro che lo invocano nelle circostanze più dolorose. Riletti in questa prospettiva teologica i “tre giorni” non si riferiscono a quelli cronologici, ma a quelli kairologici[2] di Dio, ovvero quelli in cui Dio manifesta la potenza della sua divinità.

   Così, quello che ci appare come un episodio di cronaca familiare, delinea, in verità, la dinamica della vita spirituale, caratterizzata da alcune fasi di sviluppo della fede come: lo smarrimento, la perdita e il ritrovamento di Dio. Lo smarrimento e la perdita di Gesù che Maria e Giuseppe sperimentano nella loro vita, diventa per noi una chiave di lettura per rileggere lo smarrimento e la perdita di Dio nella nostra vita spirituale. Da qui l’invito che essi ci fanno, a nutrire la speranza durante le fasi in cui smarriamo Dio, specie quelle in cui avvertiamo forte la sensazione di essere perfino abbandonati da lui. La stessa incomprensione che Maria e Giuseppe manifestano dinanzi alla parole di Gesù (cf. Lc 2,50), ci fa capire l’atteggiamento di religioso silenzio, carico di ascolto e discernimento che siamo invitati ad assumere davanti agli incomprensibili silenzi di Dio nella nostra vita. In questi casi l’intelligenza spirituale insegna che vale più un’attesa silenziosa che una lamentela brontolata o, peggio ancora, uno strepito carico di acredine verso Dio.

Ma questo episodio non riguarda solo i genitori, bensì anche Gesù. Anzi è proprio lui il principale protagonista. La straordinaria coscienza dell’identità filiale col Padre che manifesta di avere così precocemente, ci interpella e ci dà da riflettere non poco, anzi costituisce un vero e proprio monito per noi. Essa ci invita a rivedere i percorsi educativi dei nostri figli, non solo in ambito familiare, ma anche in quello ecclesiale, dove maggiormente emergono le lacune formative, specie a livello psichico e spirituale. Più che evidente, infatti, è la lentezza con cui si prende coscienza dell’identità filiale con Dio. Questa sembra essere direttamente proporzionale alla lentezza con cui ci si decide a tagliare il cordone ombelicale con la famiglia di origine. Questa indolenza psicologica che induce a vivere eternamente da figli e da dipendenti familiari, non è più tollerabile. Si diventa maturi troppo tardi, praticamente quando inizia la vecchiaia e quasi non si ha più tempo per vivere la maturità della filialità spirituale.  

La sorprendente coscienza filale di Gesù ci dischiude il mistero della fondamentale vocazione a cui noi cristiani siamo chiamati. Questa viene descritta emblematicamente da Giovanni nella sua prima lettera: “Noi fin da ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1Gv 3,2). Vivere da figli di Dio, ecco il senso primo e ultimo della nostra fede.

Come è possibile ciò? E soprattutto come raggiungere la maturità filiale di Gesù? C’è lo lascia intendere ancora Gesù col suo comportamento. La sua sottomissione ai genitori altro non è che un modo per farci intendere la nostra sottomissione, o meglio, la nostra docilità all’azione dello Spirito e più esattamente alla volontà del Padre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Le cose del Padre a cui si riferisce Gesù sono per noi l’amore reciproco di cui parla Giovanni (cf. 1Gv 3,23-24.). L’amore diventa la condizione per divenire simili a Dio, trasformando la nostra natura umana in natura divina. È a queste condizioni che avremo modo di “vederlo così come egli è” (1Gv 3,2). Perciò auguro a tutti di vivere già in questa vita secondo lo stile dell’eterna vita filiale di Cristo. 

 


[1] Secondo la tradizione ebraica ogni pio israelita era tenuto a recarsi in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme tre volte l’anno: la Pasqua, la Pentecoste e la festa delle Capanne o dei Tabernacoli. L’episodio in questione è ambientato nella festa della Pasqua. In quella circostanza Gesù avendo compiuto l’età di dodici anni veniva portato nel Tempio per celebrare il Bar mitzvah, ovvero il rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Con questo rito il bambino diventa figlio della legge e ha l’obbligo di sottomettersi ad essa. Il rito consiste nell’indossare il tallit (scialle con le frange) per la preghiera, e leggere per la prima volta in pubblico la Sacra Scrittura. Era dunque consueto che un ragazzo venisse anche interrogato dai maestri per verificare la fede acquisita fino a quel momento. L’aspetto interessante che Luca evidenzia è che Gesù in quella circostanza, si rivelò non solo in grado di aver acquisito un notevole grado di istruzione per la sua età, ma anche una capacità di insegnarle ai suoi maestri. Nel descrivere la scena Luca infatti dice che Gesù era seduto in mezzo ai maestri, ovvero in atteggiamento tipico del maestro che insegna.

[2] Il termine proviene dal greco kairós che significa “momento opportuno”. I greci avevano quatto termini per indicare il tempo: chronos per indicare il tempo sequenziale; kairós per indicare il tempo in cui accade qualcosa di speciale e decisivo; eniautosper indicare il tempo fisso e definito (es. un giorno, un mese, un anno); aion per indicare il tempo eterno.   

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