29/11/2020 - 1° Domenica di Avvento - Anno B
- don luigi
- 28 nov 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Is63, 16-17.19; 64, 2-7; Sal 79/80; 1Cor 1, 3-9; Mc 13, 33-37
Una mentalità d’attesa

La prospettiva escatologica che abbiamo avuto modo di tratteggiare in questo scorcio di anno liturgico, ci educa a vivere il Tempo di Avvento, nel quale oggi veniamo introdotti, come tempo di attesa. L’Avvento, ancor più che l’inizio di un nuovo anno liturgico, dice la mentalità con cui siamo chiamati a vivere la fede, non solo in questo tempo, ma durante tutto l’arco della nostra vita. Quella della nostra fede, perciò, è una mentalità d’attesa, in vista dell’incontro definitivo con Cristo. Si rivela perciò particolarmente significativa, a questo proposito, l’invocazione con la quale la Chiesa si rivolge a Cristo, alla fine del libro dell’Apocalisse: “Vieni, Signore Gesù”, e la risposta di Cristo: “Sì, verrò presto” (Ap 22, 20), come a voler confermare la speranza che i discepoli nutrono nell’attendere il Salvatore. E’ in questo incontro che trova compimento e pienezza tutta la nostra esistenza d’avvento[1].
Due parabole in particolare ci hanno come predisposto, nelle ultime domeniche, a cogliere il senso e il modo con cui vivere costantemente la fede: quella delle Dieci vergini (Mt 25, 1-13) e quella dei Talenti (Mt 25, 14-30). Attraverso la prima abbiamo capito che non basta solo attendere, ma occorre anche attendere con intelligenza, custodendo cioè quella sapienza (olio), che ci consente di prolungare l’attesa fino a notte fonda, ovvero fino all’incontro con lo Sposo. Il che significa imparare a trovare nella fede la ragione che ci consente di capire anche il senso dell’apparente ritardo di Cristo, come afferma Pietro nella sua seconda lettera: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3, 9). Attraverso la seconda parabola abbiamo capito che la fede è un dono di cui ci verrà chiesto di rendere conto, come tale essa va necessariamente coltivata, custodita e fruttata. Il suo mancato investimento ci fa correre il rischio di sprofondare nelle “tenebre”, ovvero in una visione esistenziale angosciante e priva di senso. Da qui i tre imperativi che Cristo rivolge ai discepoli nel brano evangelico di oggi: “Fate attenzione”, “Vegliate”, “Vigilate” (cf. Mc 13, 33.35.37). “Fate attenzione”, cioè state attenti ai segni del Cristo, poiché il suo arrivo è imprevedibile e non facile da riconoscere. I segni che l’accompagnano possono rivelarsi ambigui, perciò necessitano di una lettura nella luce dello Spirito. “Vegliate”, perché non si sa quando egli tornerà: “se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino”. Con queste diverse ore della giornata Gesù allude evidentemente alle diverse età della vita e alle diverse epoche della storia. Il tempo della sua venuta rimane circondato da un alone di mistero che nessuno conosce, neppure il Figlio (cf. Mt 24, 36), ma solo Dio. “Vigilate”, cioè aguzzate la vista per scrutare bene nel buio, esattamente come fa la sentinella, quando, di guardia nella notte, deve riconoscere dalla sagoma che avanza il profilo dell’amico o del nemico.
Come tradurre questo triplice atteggiamento a livello spirituale, nell’oggi della nostra fede? Una risposta a questa domanda ci viene dalla prima lettura, dove il profeta Isaia (che secondo gli studiosi corrisponde ad un profeta anonimo, definito Terzo-Isaia, perché presenta molti aspetti in comune col Primo e Secondo-Isaia, sia sotto il profilo stilistico, sia sotto quello tematico, pur appartenendo però ad un’epoca storica diversa), formula una preghiera che corrisponde ad un brano liturgico che gli Ebrei cominciarono a recitare al loro rientro in Palestina, dopo l’amara esperienza dell’esilio Babilonese. Il silenzio di Dio, coinciso con l’esilio, sembrava aver decretato la fine della loro esperienza religiosa. Per troppo tempo (70 anni) Dio aveva abbandonato il popolo alla mercé dei Babilonesi. Ora però quella situazione non era più sostenibile. Da qui il grido d’appello alla fedeltà di Dio e alla sua promessa di salvezza, che il profeta eleva in modo accorato: “Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità” (Is 53, 17). Ma come riconoscere i segni di questo rinnovato ritorno di Dio? Come discernere la sua azione tra le tante compiute dagli uomini nella vita? Con quali criteri capire che si tratta effettivamente di un intervento divino e non di un’iniziativa umana? Sono domande estremamente attuali, che ritornano ogni qualvolta, anche noi, come il popolo d’Israele, ci ritroviamo a vivere circostanze critiche nella vita, dove, ancora più che in altre situazioni, avvertiamo Dio lontano e perfino sordo alle nostre domande. Proviamo ad immaginare gli inquietanti e numerosi interrogativi esistenziali, che in questo periodo di pandemia si sono susseguiti dentro ciascuno di noi, senza mai trovare una risposta adeguata.
È importante perciò vedere come procede il profeta in questa situazione, per capire, a nostra volta, come possiamo procedere nelle nostre. Notiamo subito che egli ripercorre a ritroso la storia del suo popolo, per cercare di capire la ragione che lo ha condotto a quella situazione: “Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?” (Is 63, 17) e soprattutto per individuare il filo conduttore della salvezza: “Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti …” (Is 63, 19). È chiaro che il linguaggio usato dal profeta per descrivere la presenza operante di Dio nella storia, non corrisponde a quello storiografico attuale, caratterizzato spesso da un rigore scientifico, da rendere perfino asettico, freddo e distaccato il resoconto storico stesso, bensì quello metaforico che si esprime attraverso immagini più che concetti astratti, come attestano alcune sue formule, del tipo: i “monti che sussultano” e i “segni terribili” che accompagnano l’azione di Dio. Al profeta più che ricostruire la storia umana in sé, interessa collocarla nel piano salvifico di Dio. E’ su questo sfondo che trova senso ogni cosa. E’ in questa reinterpretazione teologica della storia che il profeta fa prendere coscienza al popolo della causa scatenante di quella drammatica situazione: “Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli … le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento ” (Is 64, 4s). Quella situazione si rivela perciò come la tragica conseguenza di una serie di scelte, che hanno portato il popolo a svincolarsi progressivamente dalla protezione di Dio, fino a sperimentare l’orlo del baratro esistenziale. Più che Dio ad “abbandonare” è il popolo ad essersi “allontanato”.
Proviamo ora – magari facendoci aiutare anche dai brani biblici di quest’oggi – a lasciarci interpellare da alcune domande che potrebbero aiutarci a cogliere le affinità tra il modo di vivere la fede degli Ebrei, durante l’esilio babilonese, e quello nostro durante l’attuale situazione pandemica; tra la loro crisi religiosa e la nostra culturale; tra la loro decadenza morale e spirituale e la nostra esistenziale. Cosa fa vacillare nell’oggi la nostra fede? Quali sono le certezze che invece le danno solidità e consistenza? Cosa ci permette di conservarla fino alla fine delle nostra vita? Trova qui allora il suo senso la domanda che Gesù pone ai discepoli, in circostanze assai simili alla nostra: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18, 8). Quale sforzo facciamo per conservarla? In che modo anche noi, come il profeta Isaia, ci impegniamo a rileggere la nostra storia alla luce di quella salvifica di Dio? Quanta fiducia diamo alla voce profetica che attraverso lo Spirito risuona dentro di noi? Quanta fiducia diamo a coloro che rasentano spesso l’orlo della disperazione a causa del loro peccato? Cosa o chi ci offre i criteri giusti per dare un’interpretazione teologica agli eventi della nostra vita? Cosa facciamo per essere testimoni credibili della speranza nella salvezza di Dio in Cristo?
L’auspicio che rivolgo a ciascuno di voi è che sforzandovi di rispondere a queste domande possiate giungere all’onesta e sincera ammissione del profeta Isaia, quando a conclusione di questo suo brano dice: “Senza di te siamo argilla informe … che tu solo puoi plasmare” (cf. Is 64, 7); o ancora a quella così pregna di speranza del salmista che, al di là della distanza temporale, si fa interprete di tanti nostri confusi sentimenti in questo momento: “Tu, pastore d’Israele, ascolta … risveglia la tua potenza e vieni a salvarci … Ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato” (Sal 79)? Invito perciò ciascuno a farsi carico della responsabilità che si è assunto con la fede, così da cominciare con rinnovato vigore e ardore questo nuovo anno liturgico.
[1] A questo scopo ho pensato di premettere all’omelia una meditazione che potesse favorire lo sviluppo di una rinnovata coscienza dell’attesa. Meditazione che, per evitare di appesantire il commento omiletico di quest’oggi, potrete trovare, se lo desiderate, direttamente sul sito: www.luigirazzano.com, come introduzione generale all’Avvento.
Grazie, le vs sagge e semplici omelie che attualizzano il messaggio di Gesù mi aiutano a comprendere tante cose . Buona domenica