28 Settembre 2025 - Anno C - XXVI Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 27 set
- Tempo di lettura: 5 min
Am 6,1.4-7; Sal 145/146; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
Le conseguenze irreversibili
delle nostre scelte di vita
“Tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi” (Lc 16,26).
Alla parabola dell’Amministratore scaltro, di domenica scorsa, fa seguito quella del Ricco epulone e il povero Lazzaro,dell’odierno brano evangelico. Due parabole che hanno entrambi per oggetto la ricchezza; tuttavia mentre la prima ne denuncia la cattiva gestione, la seconda fa luce anche sulle conseguenze che essa comporta a livello esistenziale. Conseguenze di cui potremo avere un’amara sorpresa quando saremo chiamati a darne ragione dinanzi a Dio. Ne scaturisce comunque una riflessione che ci aiuta aprendere coscienza della loro drammatica irreversibilità.
Per addentrarci nel contenuto della nostra parabola ci lasciamo stimolare da alcune domande: a chi allude Gesù con la figura del “ricco epulone”? A chi invece con quella del “povero Lazzaro”? Si tratta, com’è evidente, di due figure immaginarie, descritte con un linguaggio simbolico, ricco di significati che s’intrecciano e si susseguono l’un l’altro, dando origine a una stratificazione semantica di non facile esplicitazione. Considerandoli complessivamente possiamo dire che esprimono due stili di vita: uno dedito ai piaceri, tra cui si distinguono i lauti banchetti quotidiani, come suggerisce il termine “epulone” (dal latino epŭloche significa “banchetto”, “convito”), l’altro, al contrario, alla più estrema forma di povertà, tanto che “viveva alla porta del ricco … bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla sua tavola” (Lc 16,20-21). A sottolineare la differenza tra queste due figure contribuisce anche la descrizione del loro abbigliamento: il ricco vestiva di “porpora e di bisso”, il povero invece era ‘ricoperto’ di piaghe, che perfino i cani si accostavano a lui per leccargliele. Malgrado queste marcate differenze, la morte giunge ugualmente per entrambi. Ma al suo avvento determina inaspettatamente una situazione che ribalta completamente la sorte dei due: il povero Lazzaro gode di uno straordinario benessere spirituale; il ricco epulone, invece, si ritrova in una situazione di tormenti morali efisici.
A questo punto del racconto, tra i protagonisti della parabola,entra in gioco anche un’altra figura: Abramo, che con la sua presenza e le sue dichiarazioni conferisce al racconto una dimensione escatologica. Ma ciò che più ci sorprende è il carattere irreversibile che emerge dalle sue affermazioni: niente e nessuno potrà più modificare il destino dei due. Consapevole di questo inatteso e drammatico epilogo, il ricco epulone, nel tentativo di cambiare la sua sorte, lancia grida di aiuto ad Abramo ma,contrariamente alle attese, questi gli fa notare di trovarsi in una situazione definitiva, nella quale neppure Abramo può più intervenire, a causa dell’abissale distanza che si è venuta a creare tra di loro. Ma il ricco non si arrende e cerca di provvedere con un ulteriore tentativo di aiuto a favore dei suoi familiari: “Allora padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli, affinché li ammonisca severamente e non vengano anch’essi in questo luogo di tormento” (Lc 16,27-28). Ma neppure questo provvedimento viene esaudito: “Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino loro”, disse Abramo. Sconfortato, il ricco si appella alla sua pietàcon un’ultima richiesta: “Se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Ma nemmeno in questo caso la sua richiesta viene soddisfatta: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,31), rispose Abramo.
Appaiono così delineati il quadro e il senso della parabola. Il ricco epulone rappresenta simbolicamente quella parte di umanità che vive sfruttando le risorse della terra a discapito dei poveri e del creato. Un aspetto attualissimo se consideriamo i recenti dati che emergono dall’indagine sulla povertà e da quella ecologica; eppure così antica, come lascia intendere l’aspra denuncia fatta dal profeta Amos nei confronti dell’élite della comunità ebraica che vive la ricchezza non come dono, ma come forma di discriminazione sociale (cf. Am 6,1a.4-7). Di contro all’atteggiamento opulento del ricco, la parabola tratteggia, con mirabile eloquenza, anche la figura del povero Lazzaro, che nello specifico incarna la condizione dei poveri di Jahvè, così mirabilmente descritta dal Salmo 145/146. Costoro sono per lo più vittime delle varie ingiustizie sociali, che stando però al linguaggio biblico, saranno teneramente accolti nel “seno di Abramo”, che per il giudaismo costituisce il luogo di riposo dei “giusti”.
Il significato della parabola, tuttavia, non si esaurisce solo nella responsabilità personale e sociale della gestione della ricchezza, ma – come dicevamo – fa luce anche sulle conseguenze drammatiche che un simile stile di vita comporta a livelloescatologico. Ed è proprio su questo aspetto che Gesù invita i suoi a soffermare l’attenzione, attraverso il dialogo tra il ricco Lazzaro e il povero Abramo, grazie al quale egli fa prendere coscienza delle estreme conseguenze a cui possono condurre le nostre scelte morali, religiose ed esistenziali. Esse, infatti, possono determinare una distanza così abissale tra noi e Dio, da impedire ogni rapporto e vanificare ogni sforzo morale teso al bene. Giunti a questa distanza abissale, pur volendo, non ci si può più salvare. Non c’è più spazio per il ripensamento e il pentimento. Più nessuna domanda e nessuna preghiera può essere esaudita. Ecco la drammatica conseguenza prospettata da Gesù e che si materializza nella tragica esperienza della “dannazione eterna”, che è l’amara presa di coscienza di un bene a lungo denigrato, minimizzato e rifiutato e ora totalmente inaccessibile.
Questa parabola diventa allora un monito con cui Gesù intende aiutarci a prendere coscienza del carattere irreversibile delle nostre piccole e grandi scelte esistenziali, spesso prese a cuor leggero o in modo negligente durante la nostra esistenza. Dal racconto di questa parabola emerge perciò una duplice condizione di vita: di gioia e consolazione per chi, malgrado la povertà e la sofferenza, decide quotidianamente di vivere e perseverare nella comunione con Dio; di angoscia e sofferenza, per chi invece ritiene opportuno fare a meno della sua relazione d’amore e cedere alle lusinghe della ricchezza e dei piaceri della vita. Occorre perciò scegliere, consapevoli dell’impossibilità di seguire contemporaneamente l’una e l’altra via, come riconosce lo stesso Gesù: “Non si può servire a Dio e alla ricchezza” (Lc 16,13). Entrambe le logiche, infatti, generano due mentalità contrapposte tra loro: una è caratterizzata dalla tensione verso la generosità, la gratuità e la libertà, l’altra verso l’accumulo, il possesso e il dominio. La prima invita a riporre la propria vita nella totale fiducia in Dio; la seconda induce a riporla nelle proprie risorse economiche e intellettive. L’una e l’altra comportano delle responsabilità verso se stessi, verso gli altri e verso il creato, delle quali occorre saperne dare ragione dinanzi a Dio. A noi la scelta.




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