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28 Luglio 2024 - Anno B - XVII Domenica del Tempo Ordinario







2Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15


Per una mentalità eucaristica


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Mosaico pavimentali della Chiesa della moltiplicazione dei pani (IV—V sec.), Tabga, Israele

“Gesù andò all’altra riva del lago di Galilea … e una grande folla lo seguiva. Vedendo ciò disse a Filippo: Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare? Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare” (Gv 6, 1-2.4-5).

Sebbene la Liturgia della Parola ci proponga quest’oggi un brano tratto dal Vangelo di Giovanni il suo significato si inserisce perfettamente nel discorso sulla fede che stiamo sviluppando a partire dal testo di Marco. Tale brano, infatti, contribuisce a mettere a fuoco quella mentalità spirituale necessaria a chi decide di mettersi alla sequela di Cristo ed entrare in un rapporto di fiducia con Cristo. I versetti che si prestano a questo discorso sono i seguenti: “Gesù … disse a Filippo: Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare? Diceva così per metterlo alla prova”. Un’annotazione apparentemente secondaria, da passare quasi inosservata, eppure così importante per il nostro argomento. Su che cosa Gesù decide di mettere alla prova Filippo? E perché? La risposta ci introduce in quella disposizione d’animo atta a favorire lo sviluppo di una mentalità che potremmo definire eucaristica, intesa non solo come atteggiamento di gratitudine e riconoscenza nei confronti di ciò che Dio opera quotidianamente nei nostri confronti, ma soprattutto come attitudine spirituale a fare la volontà di Dio, secondo la risposta che Gesù dà ai discepoli al termine dell’episodio della Samaritana: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete … Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato a compiere la sua opera” (Gv 4,32.34). Più che limitarsi a imitare i suoi gesti o le sue parole il discepolo di Gesù deve abituarsi a creare dentro di sé quella mentalità che lo predispone a desiderare e a fare la volontà del Padre più della propria, esattamente come lui. Gesù non piega forzatamente la sua volontà a quella di un despota, ma la conforma liberamente a quella di Dio che riconosce come Padre, perché la ritiene fondamentale per giungere alla pienezza della sua esistenza. L’assenza di questa mentalità impedisce non solo di aderire al piano salvifico di Gesù, ma anche di renderlo libero di operare in noi, secondo quello che dice Marco al termine dell’episodio nella sinagoga di Nazaret: “E lì non poteva compiere alcun prodigio … (a causa) della loro incredulità” (cf. Mc 6,5-6).

Stando a Giovanni, dunque, Gesù vuole verificare se Filippo ha acquisito questo suo modo di pensare evangelico. Per farlo inserisce l’episodio della Moltiplicazione dei pani nel contesto dei segni[1] messianici, tesi alla manifestazione della Pasqua, come lui stesso afferma: “Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei” (Gv 6,4). Nel testo originale greco Giovanni non parla di miracoli, ma di segni. Per questa ragione il segno non viene inteso come prova dimostrativa della divinità di Gesù, ma come motivo e luogo di riflessione sulla sua identità divina. Il segno, infatti, più che dimostrare intende mostrare. Esso vela e svela, al tempo stesso. Lascia intendere, o meglio intuire, il significato, ma senza razionalizzarlo o definirlo concettualmente. In altre parole il segno svolge per Giovanni la stessa funzione che la parabola svolge per i Sinottici, per la quale occorre un’intelligenza simbolica, come quella artistica o poetica[2], il cui significato diviene comprensibile nella misura in cui si entra in sintonia con la mentalità di colui che la crea e la racconta. Per questo motivo non basta solo assistere ad un segno, come fa la folla, ma di cogliere il senso che Gesù intende comunicare attraverso di esso. Il popolo vede Gesù compiere un gesto, ma non lo capisce, o meglio, gli attribuisce un significato che non corrisponde affatto a quello che Gesù intendeva comunicare. Per essi il segno è cifra di un potere regale e politico, nel quale Gesù non si riconosce, perciò si sottrae al loro tentativo di farlo re (cf. Gv 6,15). In realtà per Gesù la moltiplicazione dei pani è solo un pretesto per avviare tutto un discorso sul pane eucaristico, che l’evangelista Giovanni inizia già a partire dalle Nozze di Cana. Tutta l’esistenza evangelica di Gesù è eucaristica. Ma una simile interpretazione è comprensibile solo a chi condivide con lui la sua stessa esistenza. Fuori di questa condivisione i suoi segni rischiano di rimanere solo dei gesti incomprensibili, se non addirittura assurdi. Giovanni, invece, consapevole di ciò, ci invita, con la sua lettura dei fatti, ad entrare nella comunione di vita con Gesù, per acquisire la sua stessa mentalità interpretativa e così comprendere e partecipare della sua salvezza.

Riformuliamo allora la domanda: come si entra in questa mentalità? L’evangelista ci invita a seguire la metodologia di Gesù, il quale chiede a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Gv 6,5). Gesù si serve di un problema quotidiano: la fame, per verificare la reazione di Filippo dinanzi alle problematiche che essa genera quando assume proporzioni giganti, come quelle indicate dal Vangelo, o ancora come la fame nel mondo. Simili problematiche mettono a dura prova la nostra capacità risolutiva. Filippo non ha ancora imparato ad affrontare questo tipo di problemi alla presenza di Cristo. Egli, come i discepoli nella tempesta sedata (cf. Mc 5,35-41), si affanna a risolvere il problema appellandosi alla propria esperienza: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (Gv 6,7), ma non va minimamente all’idea che Gesù è con lui. Abituarsi a pensare come Cristo insieme a Cristo, questa è la conversione alla quale siamo chiamati più che mai, nell’oggi della nostra mentalità scientista. Quello di Filippo è lo stesso atteggiamento che assumiamo anche noi quando, in simili circostanze – abituati come siamo a porre la fiducia solo nella nostra ragione e intelligenza – difficilmente concediamo spazio allo Spirito per intervenire nella nostra vita. Nel mentre ci affatichiamo a trovare solo una soluzione pratica al problema, o economica come fa filippo, ci precludiamo la possibilità di coglierlo come un segno dei tempi. Pensiamo sempre di affrontare e risolvere i problemi solo alla maniera umana, guidati da una ragione pratica, efficentista e autosufficiente, ritenuta capace di trovare soluzione a ogni genere di problemi. Questo modo di pensare, molto diffuso e praticato anche tra i cristiani, impedisce alla fede stessa di svilupparsi. Difficilmente, infatti, chi è abituato a fidarsi solo della propria ragione, è in grado di fidarsi dello Spirito, che in modo discreto e silenzioso viene incontro alle nostre difficoltà. È lui che ci dona l’intelligenza per riconoscere la messianicità di Gesù attraverso i segni che egli compie.

A giudicare dalla risposta Filippo dimostra di non aver ancora acquisito questa mentalità del maestro. La sua risposta, infatti, è molto simile a quella del servitore di Eliseo: “Come posso mettere questo davanti a cento persone?” (2Re 4,43). Entrambi fanno fatica a vedere il senso che sta dietro la richiesta dei loro maestri. Il loro è ancora uno sguardo superficiale che impedisce di riconoscere il significato dei segni. Non hanno ancora acquisito lo “sguardo simbolico” e più precisamente la “mentalità eucaristica”, di chi come Gesù vive le circostanze della vita, specie quelle più problematiche, come l’occasione per fidarsi solo del Padre. Per giungere alla disposizione d’animo di Gesù occorre allora continuare a seguire il percorso giovanneo che fa cogliere tale attitudine attraverso un gesto apparentemente superfluo e insignificante agli occhi di Andrea, il quale dice: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6,9). In realtà è proprio questa la condizione ottimale che consente a Gesù di intervenire. Quando non disponiamo più di nessuna risorsa umana e ci riconosciamo letteralmente incapaci di trovare le nostre soluzioni ai problemi, consentiamo a Dio di intervenire e di sorprenderci con le sue soluzioni. Anche san Paolo ci lascia intendere questo tipo di esperienza quando dice: “è quando sono debole che sono forte” (2Cor 12,10). In questo senso solo quando lasciamo allo Spirito di Dio di operare liberamente in noi troviamo le soluzioni più autentiche ai problemi. Non è solo questione di riconoscere la nostra povertà, ma di offrirla a Cristo, esattamente come fa il ragazzo del brano evangelico. Gesù chiede di imparare a fidarci di lui, come fa il bambino col padre. Ecco la mentalità filiale. Solo lui è in grado di benedire e trasformare il nulla di noi nel tutto di Dio. Solo lui è in grado di fare della nostra vita un’esistenza eucaristica, capace di soddisfare quella fame di eternità che l’attuale crisi esistenziale e spirituale sembra aver enormemente accresciuto in noi. Ancora più della fame fisica è quella spirituale che oggi occorre imparare a sfamare. E più che il pane è la Parola di Dio che oggi necessita di essere moltiplicata. Ecco il segno di cui necessita il nostro tempo.

 


[1] Per Giovanni il termine “segno” costituisce una categoria interpretativa per comprendere l’identità di Gesù. Esso dà inizio e compimento alla sua predicazione pubblica (cf. Gv 2,1-12; 20,30-31). Tutto il Vangelo di Giovanni avviene all’interno di questa cornice. Il lettore è chiamato non solo ad assistere al loro accadimento, ma anche alla loro comprensione. In questa prospettiva Gesù costituisce il segno per eccellenza che necessita di essere interpretato. Tra i vari segni che Gesù compie ne vengono individuati alcuni, particolarmente significativi: 1) Nozze di Cana (la trasformazione dell’acqua in vino); 2) Figlio del funzionario del re (lo sviluppo della fede sulla Parola di Dio); 3) Paralitico alla piscina di Betsaida (la guarigione della volontà); 4) Moltiplicazione dei pani e dei pesci (il principio della condivisione); 5) Traversata del mare in burrasca (l’autorità su ogni forza del male); 6) Cieco nato (vedere tutto con gli occhi di Dio); 7) La risurrezione di Lazzaro (Gesù ha il potere anche sulla morte e anche noi possiamo ridare vita agli altri). 

[2] Secondo Ravasi i segni hanno la funzione di ammiccare. Che significa? Per spiegarlo il Card. si rifà all’aforisma del filosofo Eraclito: “Il lume che ha l’oracolo a Delfi, dice e non dice, dice e nasconde, egli fa solo segno”. Questa “è la grande forza dei grandi messaggi religiosi e della poesia. La vera poesia non si spiega didatticamente, ma neppure nasconde completamente. Solo la falsa poesia è un gioco vacuo di parole. La vera poesia continuamente ammicca. Così è dei grandi testi religiosi. Fanno cenno. Non possono spiegare tutto, perché il mistero di Dio è imprendibile, ineffabile, infinito. D’altra parte però non vogliono neppure nascondere, perché cesserebbe la loro funzione di rivelazione, di svelamento. E allora ammiccano”.

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