28 Gennaio 2024 - Anno B - IV Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 27 gen 2024
- Tempo di lettura: 8 min
Dt 18,15-20; Sal 94/95; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
Cristo e l’attualità della profezia nell’oggi della salvezza

“Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Dt 18,15).
“Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: “…Io so chi tu sei: il santo di Dio!” (Mc 1,23-24).
Queste due citazioni bibliche, storicamente distanti tra loro[1], sono in realtà intimamente connesse da un unico filo conduttore che vede nella promessa e nel compimento dell’attesa messianica il loro punto di convergenza. La prima, tratta dal libro del Deuteronomio, ci riferisce di una profezia mosaica che, come fa notare papa Ratzinger (cf. Gesù di Nazaret, pp. 21ss), si rivela decisiva per comprendere la figura di Gesù, riconosciuto come il nuovo Mosè, nel quale trovano compimento le Scritture, secondo la testimonianza che Gesù stesso dà della sua missione: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti … ma per dare compimento” (Mt 5,17). Ad avallare questa tesi contribuisce anche il brano evangelico di Marco, che parla di lui come di uno che “insegnava … con autorità e non come gli scribi” (cf. Mc 1,22). Il suo insegnamento, infatti, non è cattedratico, tipico di chi svolge un ruolo didattico e educativo, spesso caratterizzato da un tono pretenzioso, pedante e sentenzioso, ma carismatico, fondato cioè sulla potenza dello Spirito di cui è investito, come ribadisce sempre lo stesso Gesù nel discorso che tiene nella sinagoga di Nazaret, dove, citando una profezia di Isaia, afferma: “Lo Spirito del Signore è sopra di me …”, al termine della quale aggiunge: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,18.21). Pertanto, l’autorevolezza che scaturisce dal suo insegnamento, non dipende dal ruolo religioso che egli ricopre, ma dalla testimonianza che il Padre dà di lui (cf. Gv 8,13-19) in occasione del Battesimo (cf. Mc 1,11) o della Trasfigurazione (cf. Mc 9,7), in cui rivela la sua identità filiale; e dall’autenticità che Gesù conferisce alle sue parole e ai suoi gesti (cf. Gv 14,10-11). La sua parola, infatti, non si limita alla comunicazione verbale, e neppure alla sola profezia, ma compie nell’oggi ciò che afferma, esattamente come la parola di Dio, quando creando dice: “Sia la luce! E la luce fu” (cf. Gen 1,3). Allo stesso modo Gesù dice allo spirito impuro: “Taci, esci da quell’uomo. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (Mc 1,25-26)[2]. La parola di Gesù, dunque, non è mai disgiunta dall’opera che egli compie, ma costituisce con essa una sola cosa. Il termine dabar, infatti, in ebraico significa non solo parola, ma anche fatto, compimento di una profezia. Per questa ragione Gesù, a differenza dei profeti che l’hanno preceduto, non parla per conto o a nome di Dio, ma egli stesso è la Parola di Dio: Parola realizzata e compiuta. In lui parola e atto concorrono nell’autenticare la verità della sua messianicità (cf. Lc 7,22; Mt 12,28), che Marco, paradossalmente, in questo brano evangelico, fa rivelare allo spirito impuro: “Io so chi tu sei: il santo di Dio” (Mc 1,24)[3].
Queste due citazioni bibliche ci offrono così l’occasione per comprendere meglio la figura del profeta, che noi abbiamo già cominciato a conoscere attraverso la storia di Samuele e di Giona, di cui abbiamo commentato la chiamata nelle domeniche scorse. Questo ulteriore approfondimento più che al recupero archeologico di un fenomeno spirituale unico e irripetibile della storia del popolo giudaico, è teso invece all’acquisizione di quei criteri spirituali e teologici, grazie ai quali essi hanno saputo interpretare e rilevare l’azione salvifica di Dio nei contesti storici a loro contemporanei. Con la loro attività profetica essi ci invitano a scrutare il mistero di Cristo, e a capire come tradurlo in un vissuto quotidiano di fede. Mossi dunque da questo scopo intendiamo riconoscere l’attualità della loro azione nell’oggi della nostra salvezza.
I profeti veterotestamentari svolgono un ruolo fondamentale nella storia d’Israele. Attraverso di loro Dio rivela al popolo il suo piano salvifico. Per questa ragione essi sono chiamati da Dio per orientare e guidare il popolo alla salvezza. Il termine ebraico infatti con cui vengono qualificati è nabîs, la cui radice significa “chiamare, annunciare”. Il nabî è colui che è chiamato ad annunciare. In questo senso il termine esprime l’essenza del profetismo israelita, in quanto egli è messaggero e interprete della parola divina, come lascia intendere la parola di Yhwh rivolta a Geremia: “Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca” (Ger 1,9). Da qui la coscienza che i profeti hanno dell’origine divina del loro messaggio, tanto da introdurlo solitamente con l’espressione “Così parla il Signore” o “Parola del Signore” o ancora “Oracolo del Signore”. Ogni profeta ha la chiara coscienza di essere uno strumento di Dio, sebbene le parole che essi proferiscono risentano anche della sensibilità culturale personale e dei condizionamenti sociali. Il loro compito perciò è quello di doverle comunicare, convinti che all’origine di questa comunicazione vi sia un’esperienza mistica, dovuta a un contatto diretto con Dio. Si tratta di un’esperienza che prevede una conoscenza pura e autentica della verità dottrinale, che scaturisce da un’indagine condotta con onestà morale e intellettiva. Nessuno uomo, infatti, può giungere ad avere questo sguardo se non è interiormente toccato dalla grazia e impregnato della sapienza dello Spirito di Dio. La certezza che essi manifestano di avere, infatti, non dipende dalla loro presunzione intellettiva, ma dal rapporto intimo che essi hanno con Dio e dalla profonda familiarità che hanno con la sua volontà. Ed è proprio questa intima disposizione del cuore che rende la loro mente totalmente docile all’azione rivelativa dello Spirito, il quale la apre alla conoscenza del mistero di Dio. Per questa ragione il fenomeno della rivelazione divina, trascende, senza escludere, la ragione umana. Questa infatti non è ridotta ad uno stato di totale passività, quasi che la rivelazione avvenga sotto forma di dettatura, al contrario ne è coinvolta al punto da esserne trasfigurata. La rivelazione profetica, pertanto, avviene nella forma meglio conosciuta dell’ispirazione, che consiste nella sinergia tra l’azione creativa e rivelativa dello Spirito di Dio e quella ricettiva e interpretativa dello spirito dell’uomo. La conoscenza di Dio alla quale essi pervengono, infatti, non dipende dall’indagine speculativa della loro mente, neppure dal bagaglio della loro esperienza personale, tanto meno dal deposito della tradizione religiosa alla quale essi appartengono, ma è un dono gratuito di Dio. Per questa ragione i profeti non dicono nulla di più e nulla di meno di quanto il Signore ha loro rivelato. Essi riferiscono solo le parole che Dio pone sulla loro bocca e comandano solo ciò che Dio ha chiesto loro di comandare (cf. Dt 18,18). Questa parola si impone a loro al punto da non poterla tacere, come nel caso di Amos 3,8: “Il Signore Dio ha parlato: chi non profeterà?”. Geremia lotta invano per sottrarsi alla chiamata profetica (cf. Ger 20,7-9). Essa è irresistibile, tanto che sottrarsi può determinare serie conseguenze, come nel caso di Amos 7,15; Is 6; Ger 1,4-10. Ma per quanto il profeta sia convinto di parlare a nome di Dio, non sempre questa certezza caratterizza anche i suoi uditori.
Come allora riconoscere un vero da un falso profeta? Nella Bibbia ci sono due criteri: il compimento della profezia, come affermano i brani del Dt 18,22 e di Ger 28,9; e soprattutto la conformità dell’insegnamento profetico alla dottrina jahvista come ribadiscono i brani di Dt 13,2-6 e Ger 23,22. In questo senso: “Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome io gliene domanderò conto” (Dt 18,19). Il mancato ascolto della parola del profeta corrisponde al mancato ascolto della Parola di Dio. D’altra parte il profeta che avrà la presunzione di parlare in nome di Dio, senza essere stato oggetto della sua rivelazione, dovrà egli stesso rendere conto a Dio di quello che ha detto (cf. v. 20). Quella di Dio dunque è la sola parola che il profeta è tenuto a dire, poiché è la sola che si realizzerà. Diversamente quando la parola del profeta non si realizza, è segno che essa non viene da Dio: “Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore; l’ha detta il profeta per presunzione; di lui non avere paura” (Dt 18,22). L’autorevolezza del profeta scaturisce direttamente dalla fedeltà alla sola parola di Dio. Questa è garanzia della sua efficacia.
Ma perché Dio parla attraverso i profeti? Cosa intende comunicare al suo popolo? Qual è lo scopo della parola? Più che alla condanna, come di solito evidenziano i commentatori moralisti, o di rovina, come sostiene lo spirito impuro nel brano evangelico di oggi: “Che vuoi da noi Gesù di Nazaret. Sei venuto a rovinarci?” (Mc 1,24)[4], la parola rivelata ai profeti è sempre in vista della salvezza, come ribadisce Gesù in diverse circostanze, specie quelle in cui chiarisce il senso della sua missione: “Non sono venuto per condannare, ma per salvare il mondo” (cf. Gv 12,47; cf. Mt 9,13). La sua missione è esorcistica. Egli è venuto a sottrarre l’uomo dal dominio dello spirito impuro. Si capisce, allora, il senso della sua predicazione tutta incentrata sul Regno, come ciò che contrasta la logica diabolica del maligno nel mondo.
Si rivela, allora, quanto mai opportuna la preghiera con la quale il salmista ci invita a riconoscere in noi la voce di Dio che dice: “Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere”. L’opera di Dio è quella salvifica, da qui l’invito ad accettare il suo inno di lode: “Venite, applaudiamo al Signore, / acclamiamo alla roccia della nostra salvezza. / Accostiamoci a lui per rendergli grazie. / Venite, prostrati adoriamo, / in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati. / Egli è il nostro Dio, / e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce” (Sal 95,8-9)[5].
[1] Benché non ci siano documenti che attestino con certezza l’epoca in cui è vissuto Mosè, si ipotizza che siano almeno tredici i secoli che lo separano da Gesù. Tale calcolo viene fatto sulla base di alcuni riferimenti storici, citati nel Pentateuco (cf. Gen 47,11; Es 1,11; 12,37) come la città di Ramses II (dal nome del faraone che regnò in Egitto tra il 1279 e il 1213 a.C.).
[2] Gesù manifesta lo stesso potere anche nei confronti delle calamità naturali, come nell’episodio della tempesta sul lago, dove troviamo lo stesso verbo: “Taci, calmati! Il vento cessò e ci fu una grande bonaccia” (Mc 4,39).
[3] Stupisce questo riconoscimento dell’identità di Gesù da parte di uno spirito immondo. Egli rivela un’intelligenza straordinaria, acuta, precisa, profonda. Si tratta tuttavia di un’intelligenza assolutamente razionale, fredda, lucida, ma priva di tensione umanitaria e redentiva, perciò incapace di trasformare il cuore dell’uomo e convertirlo a Dio. Essa dice senz’altro la verità, ma la trasforma in un’arma violenta, capace di giustiziare le persone, più che di far loro giustizia. Si tratta di una verità priva di carità e perciò atta solo a generare prepotenza, fanatismo, aggressività, inflessibilità, divisione. Per questo essa va taciuta, come impone Gesù allo spirito impuro: “Taci!” (Mc 1,25). Così è per coloro che ritengono di dirla in nome di una pseudo giustizia di cui ritengono d’essere paladini. Questo modo di dire la verità contrasta fortemente con la metodologia dello Spirito, il quale la rivela senza imporla, la dona senza obbligarla, la rende persuasiva senza forzarla, poiché opera nella carità e nel pieno rispetto della libertà. La sua conoscenza prevede dunque una maturazione dell’intelligenza umana. È a queste condizioni che essa suscita apertura, accoglienza e piena adesione, come nel caso di Pietro che intuisce l’identità messianica di Gesù e aderisce al suo Vangelo solo dopo essersi mostrato docile all’azione dello Spirito di Dio, come Gesù stesso gli fa notare: “Beato te Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (cf. Mt 16, 13, 20; Lc 9, 18, 21).
[4] Da notare che lo spirito parla al plurale. Nel capitolo quinto, si coglierà più esplicitamente questa identità, dove si parla di legione (Mc 5,1-20).
[5] Si tratta di una preghiera che ci invita a fare memoria di tutte quelle circostanze in cui resistendo all’azione di Dio rischiamo di precluderci la possibilità di sperimentare la tenerezza della sua misericordia. Affinché non accada di sentirci ripetere da Dio le stesse parole che egli rivolse al suo popolo nel deserto: “Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie, perciò ho giurato nel mio sdegno: non entreranno nel luogo del mio riposo” (Sal 95,10-11).




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