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28 Febbraio 2021 - 2° Domenica di Quaresima Anno B


Gen 22,1-2.9a10-13.15-18; Sal 115/116; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10


La trasfigurazione: vedere Dio oltre la prova



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Domenica scorsa abbiamo imparato a stimare le tentazioni come prove, alle quali Dio sottopone periodicamente la nostra fede, come una sorta di collaudo. Esse, si manifestano per lo più durante i periodi di crisi, o di “deserto”, come dicono gli evangelisti, nei quali Dio ci invita ad andare all’essenza della fede, per liberala da tutte quelle sovrastrutture religiose e culturali che ne rallentano o ne impediscono il progresso. La loro funzione, lungi dal farci desistere, scandisce le tappe con le quali lo Spirito traccia il cammino della conversione, per portare la fede alla perfezione, secondo quanto dice l’autore della lettera agli Ebrei: “Deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 121-2). Pertanto più rapidamente impariamo a coglierle come occasioni di verifica divina, più velocemente progrediamo nella vita spirituale. Anche la dinamica con la quale si manifestano e si susseguono nella vita, ci rivela la misteriosa pedagogia dello Spirito, dal quale Cristo stesso si è lasciato guidare (cf. Mc 1,12), per conformarsi alla volontà di Dio che si dispiegava in lui durante l’esperienza del deserto. Come Cristo nel deserto lo Spirito guida anche noi nella Quaresima, per aiutarci a capire lo specifico della volontà di Dio, alla quale egli ci chiede di aderire personalmente. Non basta dunque desiderare la vita evangelica e neppure essere animati di buoni propositi, la conversione comincia realmente quando decidiamo di condividere pienamente e con tutto noi stessi (cf. Mc 12,29-30; Dt 6,4-5) la pedagogia dello Spirito. Il che significa: lasciarci plasmare dalle prove alle quali Dio misteriosamente ci sottopone. È a queste condizioni che egli dischiude in noi nuove possibilità spirituali. La prova diventa così, al tempo stesso, un processo di cambiamento, ovvero di conversione e una condizione di purificazione del nostro sguardo, col quale lo Spirito ci lascia intravedere la bellezza della vita divina che Cristo ci svela con la sua Trasfigurazione. Prova e Trasfigurazione costituiscono due facce della stessa medaglia, ma anche i due aspetti sui quali la liturgia della Parola di questa seconda domenica di Quaresima, ci dà modo di sviluppare la nostra meditazione. Noi cercheremo di comprenderle per fare nostro il segreto della conversione, senza il quale rischiamo di stagnarci nelle nostre incertezze e indecisioni quotidiane.

Non sempre la conversione avviene in modo lineare, tranquillo e sereno, al contrario, essa si snoda come un lacerante lavorio interiore, che esige un costante e onesto confronto con la situazione morale o spirituale nella quale ci ritroviamo. Convertirsi significa allora prendere coscienza delle proprie possibilità spirituali e della perenne azione dello Spirito che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5). Come tutte le realtà anche la conversione è esposta al progresso o al regresso. Molto dipende dal modo con cui impariamo a capire cosa può limitarne o favorirne lo sviluppo. Rifiutarla o tergiversare in essa, per esempio, può esporci al pericolo dell’accidia e quindi al rischio di arenarci sulla riva delle abitudini morali e delle tradizioni religiose.

La prova, quando sopraggiunge, può essere diversamente interpretata, a secondo delle persone, dei casi e delle situazioni: per alcuni può costituire un inciampo, che intralcia il cammino verso il successo; per altri un ostacolo, che va abilmente eluso; per altri ancora un limite personale, che inaspettatamente sfugge al proprio controllo; per altri l’occasione per fermarsi a riflettere sul senso della propria vita. Per coloro invece che si sforzano di vivere l’esistenza in chiave spirituale, la prova può divenire un luogo in cui Dio può parlare al cuore. Ma occorre avere la sensibilità di un Giobbe (cf. Gb 2,10), o di un profeta come Elia (cf. 1Re 19,12-13), o come Isaia (cf. Is 45,7), per riconoscerla come un segno divino. La prova rivela il suo senso solo a chi ha una profonda sintonia con Dio. Fuori di questa relazione essa può costituire un motivo di infelicità o addirittura diventare causa di maledizione. Potrà sembra paradossale ma la storia della salvezza ci insegna che Dio si serve di simili circostanze per conformare a sé coloro che ama, come ci ricorda san Giovanni nel libro dell’Apocalisse 3,19: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo”. È qui che si nasconde il segreto che ci consente di cogliere la ragione per cui anche Abramo, pur avendo aderito alla voce di Dio, fu sottoposto alla tremenda prova del Sacrificio del figlio, come attesta la prima lettura. Essa subentra senza preavviso nella sua vita, con modalità e condizioni impreviste; per altro in un momento in cui tutto sembrava andare per il meglio: le promesse della terra e del figlio, fatte al momento della chiamata (cf. Gen 12,1-3), si erano realizzate e la sua vita prosperava verso la realizzazione della terza promessa: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. Ma come di solito accade nella vita anche in quella spirituale il tempo costituisce un ottimo banco di prova, per verificare la consistenza delle esperienze, delle scelte e decisioni, anche di quelle divine. Neppure Abramo viene esentato da essa. L’amore che egli prova per il figlio prende il sopravvento su quello di Dio, e più che a Dio egli comincia ad attaccarsi ai suoi doni. E quando gli sembrava di essere diventato oggetto di particolare attenzione di Dio, ecco la prova: “Abramo, prendi il tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen 22,2). È interessante notare come la struttura narrativa di questa nuova chiamata riflette molto quella della prima. Ancora una volta ad Abramo viene chiesto di uscire: “Va’ nel territorio di Mòria”, e ancora una volta la volontà di Dio gli si rivela in divenire: “su di un monte che io ti indicherò”. Questa volta però il comando di uscire si presenta ancora più difficile da comprendere e soprattutto da attuare. Non si tratta solo di un atto fisico, ma spirituale. Nella prima volta Dio lo invitava ad uscire dalla tradizione religiosa della sua terra e dei suoi parenti, ora deve uscire invece da quella che lui stesso si è creato, e nella quale si è adagiato col tempo. Essa è certamente buona e sacra, ed è per altro quella alla quale Dio stesso lo ha educato a partire dalla sua chiamata. Ma con gli anni egli sembra essersi accomodato in quella sicurezza spirituale che senza accorgersi ha allentato gradualmente in lui quel dinamismo nomadico, tipico di chi è sempre teso alla perenne novità dello Spirito di Dio. Questa nuova richiesta mette alla prova non solo la fiducia di Abramo in Dio, ma la stessa idea che Abramo si è fatta di Dio. Chi è veramente Dio al quale ho aderito esponendo la mia vita fino al ridicolo e alla follia? Può lui riprendersi quel dono che cosi amorevolmente e pazientemente mi ha convinto ad attendere? Può Dio essersi conformato agli dei che chiedono di sacrificare gli uomini? Non sarà che mi sono sbagliato ed illuso durante tutti questi anni? Ecco le domande che lacerano il cuore di Abramo e che lui vive nel silenzio, nel silenzio di Dio in lui. Non è facile dare una risposta a questo tipo di domande, neppure dopo una prolungata esperienza di fede come la sua. Si tratta di una prova drammatica, che sopraggiunge solo quando si è giunti ad un elevato livello di maturità nella fede, nella quale Dio sottopone ad un radicale cambio di prospettiva spirituale chi ha deciso di mettersi totalmente alla sua sequela. È un po’ come quella alla quale Cristo sottopone i suoi discepoli quando chiede loro di rinnegare totalmente se stessi (cf. Mc 8,27-32). Ad Abramo Dio chiede di rinnegare la ragione stessa della sua vita: Isacco. Egli, infatti, non vive più per se stesso, ma per il figlio. Con una sequenza logica impressionante Dio esclude in lui ogni possibilità di equivoco: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, quello che ami, Isacco”. Dinanzi a questa progressiva precisazione di Dio Abramo non può pensare ad Ismaele, pure lui è suo figlio, ma non quello della promessa. Ismaele invece è figlio di un com-promesso. È questo un genere di prova che si comprende solo con l’amore e nella quale si inoltra solo chi ama profondamente Dio sopra ogni cosa. “A chi mi ama mi manifesterò” (Gv 14,21). Fuori di questo amore la volontà di Dio appare assurda è incomprensibile. E Abramo vi si inoltra perché è profondamente convinto che Dio gli rivelerà la sua volontà solo attraversando questa sua assurda richiesta. Egli è convinto della fedeltà di Dio, ma sa anche che è giunto il momento di dare prova della sua fiducia totale in lui. Si tratta di una prova estrema, caratterizzata da un totale abbandono a lui, come quella che Cristo vivrà sulla croce, quando sentendosi abbandonato da Dio, spirando si abbandona a lui: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (cf. Mc 15,34; Mt 27,46; Lc 23,33-46). Si tratta dunque di una prova che sopraggiunge in casi di profonda tristezza, come dice il salmista: “Ho creduto anche quando dicevo: Sono troppo infelice” (Sal 115/116,1). Solo superandola egli diverrà padre della fede, come evidenzia in modo mirabile l’autore della lettera agli Ebrei (cf. Eb 11,1-19). Ecco la prova della paternità spirituale alla quale Dio sottopone tutti coloro che intendono generare le persone alla e nella fede.

La prova della fedeltà diventa così la condizione per introdurci nella Trasfigurazione di Gesù. Il brano in questione viene introdotto da un’annotazione cronologica: “Sei giorni dopo” (Mc 9,2), che passa quasi inosservata. Può sembrare un’annotazione casuale, in realtà essa ha un preciso valore teologico che fa da cerniera tra la prova di Abramo e la Trasfigurazione di Gesù. A cosa ci rimanda? Cos’è avvenuto sei giorni prima? Marco ci racconta di un episodio chiave per capire l’identità di Gesù: la professione di fede di Pietro (cf. Mc 8,27-30) alla quale segue il primo annuncio della passione (cf. Mc 8,31-33) e quindi l’esposizione delle condizioni della sequela (cf. Mc 8,34-38). In particolare nell’annuncio della passione Cristo rivela la logica che guiderà la sua passione e morte. Non basta aver capito chi è Gesù, come fa Pietro, occorre scegliere la sua logica pasquale: “E’ necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto” (Mc 8,31), per partecipare della sua identità divina. Pietro infatti benché avesse colto tale identità non aveva ancora capito del tutto questa logica: “Presolo in disparte, si mise a rimproverarlo” (Mc 8,32). Si deduce dunque che per entrare nella vita divina di Cristo occorre passare per e condividere la sua passione e morte. Solo in questo modo si giunge al settimo giorno, quello della Risurrezione, prefigurato dalla Trasfigurazione.

La croce è dunque la chiave di lettura della Trasfigurazione[1]. Essa riassume tutta la logica rivelativa di Dio, condensata nella Legge antica e nelle profezie messianiche. Si spiega così il motivo della presenza di Mosè ed Elia. Questi infatti conversano con Gesù proprio sul modo con cui avrebbe portato a termine la sua missione profetica e messianica (cf. Lc 9,31). La vera manifestazione messianica di Gesù allora è quella che lui compie durante la passione e morte, quando si manifesta come Messia sofferente dal volto sfigurato. Paolo parlerà di questa logica rivelativa di Cristo in termini di kenosi (Fil 2,6-11). Una prospettiva, questa, incomprensibile fuori dalla relazione d’amore di Cristo, ragion per cui Gesù: “ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 8,9). Nessuno dei discepoli presenti infatti avrebbe potuto cogliere il senso pieno di quella esperienza senza aver prima partecipato dell’evento pasquale di Cristo. Un vero e proprio monito per quanti, teologi e catechisti, ritengono di parlare della risurrezione di Cristo senza aver fatto prima esperienza della sua sofferenza.

Cosa accade in quell’evento? Tra i sinottici che ci riportano questo episodio Luca è l’unico a dirci che la Trasfigurazione accade durante la preghiera, lasciandoci intendere che essa costituiva per Gesù una vera e propria partecipazione alla vita divina del Padre, di cui lui, in questa circostanza ne diventa una manifestazione. Ancor più di Mosè che scendendo dal monte Sinai apparve al suo popolo con il volto raggiante (cf. Es 34,29-30.35), la Trasfigurazione di Gesù coinvolge persino le sue vesti, da renderle perfino splendenti (cf. Mc 9,3). Il che ci autorizza a credere che la sua Trasfigurazione prefigura quella dell’intero creato. Tutto il cosmo, dirà san Paolo, attende la rivelazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19). Una rivelazione quella di Gesù che rivoluziona il concetto classico di teofania. Non si parla infatti di un Dio che appare in forma umana, ma di un uomo che lascia intravedere la sua forma divina. Il termine greco che viene usato per la circostanza è infatti: metamorfosi, che letteralmente significa oltre la forma. Gesù lascia intravedere la sua divinità oltre la forma della sua umanità. I discepoli vengono resi partecipi di una visione che permette loro di vedere oltre la forma fisica di Gesù la presenza del Padre. È su questa base che diventa possibile comprendere e ripetere con Gesù: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9). Ciascuno di noi in Cristo è chiamato a diventare trasparenza del Padre. Ecco la meta pasquale che la Trasfigurazione di Cristo ci lascia intravedere già, ora, nell’oggi della nostra prova.

[1] Non è un caso che l’autore del mosaico di Sant’Apollinare in Classe, nell’omonima chiesa in Ravenna, ponesse al posto del Cristo trasfigurato proprio la croce gemmata.

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