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28 Agosto 2022 - Anno C - XXII Domenica del Tempo Ordinario

Aggiornamento: 29 ago 2022


Sir 3,19-21.30-31; Sal 67/68; Eb 12,18-19.22-24a; Lc 14 1.7-14



Esaltazione ed umiltà due modi di pensare,

due stili di vita relazionale


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“Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11) è la massima con la quale Gesù sintetizza la saggezza espressa nel libro del Siracide 3,19-21.30-31, al quale si riferisce il brano della prima lettura. Essa viene pronunciata al termine di una sua parabola, raccontata a casa di uno dei capi dei farisei, dove era stato invitato per un pranzo; durante il quale, osservando i commensali, notò il modo con cui sceglievano i posti più ragguardevoli, per attirare l’attenzione su di loro. La circostanza, apparentemente banale, si rivela come l’occasione per formulare un principio valido per tutti gli ambiti della vita umana, anche se la tradizione cristiana l’ha strettamente associato alla vita religiosa e spirituale. In realtà si tratta di una norma morale che scaturisce dall’esperienza della vita quotidiana, nella quale, ognuno, da buon osservatore delle cose, può verificare che “chiunque si esalta” prima o poi, “sarà umiliato” dalle circostanze della vita, mentre “chi si umilia” presto o tardi, “sarà esaltato” da Dio. “Esaltazione” e “umiltà” costituiscono perciò gli estremi di un comportamento morale che ciascuno, a seconda dell’idea che ha di sé e della mentalità culturale o religiosa alla quale si ispira, può decidere di assumere come stile di vita.

Per comprendere ulteriormente il senso di questo brano evangelico lucano è utile tener presente anche quello del Fariseo e del pubblicano (cf. Lc 18,9-14), dove lo stesso evangelista, riprendendo il discorso di Gesù, sembra voler evidenziare le conseguenze che tali atteggiamenti comportano anche a livello teologico. La giustificazione dell’uno o la condanna dell’altro atteggiamento da parte di Dio viene commentata, infatti, da Gesù con lo stesso detto evangelico: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Il nostro compito sarà, perciò, quello di capire le cause che originano tali atteggiamenti e cosa comportano per la vita sociale e per quella ecclesiale.

Partendo più da lontano potremmo dire che questo detto di Gesù presuppone un sostrato umano, psicologico, spirituale e teologico che necessita di essere focalizzato, se s’intende assumere il Vangelo come stile di vita relazionale. Esso affonda le radici nella Sapienza biblica che oltre ad avere un’origine divina è anche ricca di saggezza umana che scaturisce dall’esperienza della vita quotidiana, come lasciano intendere tutti i libri Sapienziali. Occorre perciò chiedersi cosa induce alcuni ad essere “orgogliosi”, “superbi”, “arroganti”, “presuntuosi”, “prepotenti”, “ambiziosi”, “altezzosi” e altri ad essere “umili”, “miti”, “semplici”, “modesti”, “discreti”, “mansueti”, “docili”. È forse solo questione di disposizione naturale, come si è soliti pensare, o non piuttosto anche di fattori culturali che incidono notevolmente sui processi educativi e formativi delle persone? La Bibbia non esita a dire che l’uno o l’altro atteggiamento sono in primo luogo determinati da una duplice scelta morale, che stando al libro del Deuteronomio, si diversificano davanti a noi come due vie: una che conduce alla “vita e al bene” e l’altra che conduce alla “morte e al male” (cf. Dt 30,15). L’una o l’altra possibilità sono determinate dalla decisione libera e volontaria di seguire o rifiutare i comandi del Signore, per vivere una vita lontano da lui o conforme ai suoi insegnamenti (cf. Sal 118,33-40). Anche il profeta Geremia fa riferimento a queste due scelte esistenziali quando parla della “via della vita” e della “via della morte” (Ger 21,8). L’una nasce dal rifiuto di credere in Dio ed è causa di perdizione, l’altra nasce dalla fede in lui ed è motivo di salvezza. Mentre l’umiltà è principio di Sapienza (cf. Prov 9,10), l’orgoglio è all’origine del peccato, perciò viene considerato come “la radice del male” (Sir 3,30; 1Tm 6). Da queste due vie scaturiscono due logiche di vita: quella del “bene” è caratterizzata dalla giustizia, dall’onestà, dalla rettitudine, dalla fedeltà, dalla lealtà, dalla verità ed è propria di chi pone Dio a fondamento della sua esistenza, ed “ama gli altri come se stesso” (Lv 19,18); quella del male, invece, è propria di chi pone al posto di Dio il proprio io, ed è caratterizzata dalla prepotenza, dall’arroganza, dalla presunzione, dall’ambizione, dalla sopraffazione e ama se stesso a discapito dell’altro. Chi pone al centro l’io tende a sopravvalutare le proprie qualità, le proprie idee e a considerarsi migliore degli altri (cf. Rm 12,3); invece chi ha Dio come termine di riferimento assoluto considera i suoi insegnamenti come criterio di giudizio imprescindibile per sé e per gli altri. Mentre l’orgoglioso tende all’autoesaltazione di sé perché sa che nessuno lo farà al posto suo, l’umile lascia agli altri e soprattutto a Dio il riconoscimento delle proprie qualità. Egli non ha bisogno di attirare l’attenzione su di sé, perché è consapevole dell’autenticità del suo operato e l’unica considerazione che desidera è quella divina. E qualora il riconoscimento potrebbe non venire durante la sua esistenza, egli sa di aver consegnato a Dio la sua vita e il suo operato, consapevole di contribuire con essi al riconoscimento della causa evangelica e alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra. E mentre il prepotente, animato dall’avidità e dalla brama del possesso, ha necessità di mordere la vita nell’attimo presente, per sfruttarla a suo favore in tutte le possibilità; il mite, consapevole di avere Dio come sommo bene, largheggia su tutti con l’eccedenza della sua generosità. “Chi cerca il Signore non manca di nulla” dice il Salmo 118,11. Il mite si rivela così, come afferma Gesù nelle Beatitudini, il vero erede della terra (cf. Mt 5,5). Quando perciò diamo “una festa, o offriamo un pranzo o una cena”, ovvero quando ci rendiamo promotori di una iniziativa sociale, culturale, politica, ecclesiale, pastorale “non facciamo come gli ipocriti … che amano essere visti dalla gente”. “In verità essi hanno già ricevuto la loro ricompensa” (cf. Mt 5,6-8). Lo stile di vita ecclesiale, invece, si identifica con quello evangelico di Gesù di cui dà prova durante la lavanda dei piedi: “Capite ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,12-14). Il modo evangelico più autentico di “regnare è servire”. E “beati coloro che il Signore troverà a servire; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti e passerà a servirli” (cf. Lc 12,37). 

“Esaltazione” e “umiltà” costituiscono allora due atteggiamenti che rivelano due modi di pensare; due modi di concepire se stessi, gli altri, il mondo, Dio. Da essi scaturiscono perciò due stili di vita. Ciascuno decide di farsi promotore dell’uno o dell’altro, consapevole di doverli motivare quando gli verrà chiesto di renderne conto. Si tratta perciò di capire le ragioni che ne giustificano il senso; di conoscere i meccanismi psicologici e morali che li determinano e di sapere le conseguenze che comportano a livello esistenziale. Sta a noi decidere se intendiamo accontentarci della gloria momentanea del mondo, oppure attendere quella eterna di Dio.

 



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