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27 Marzo 2022 - Anno C - IV Domenica di Quaresima


Gs 5,9.10-12; Sal 33/34; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32


Quel desiderio recondito

d’un abbraccio riconciliante con Dio



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“Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20) è l’accorata esortazione che Paolo rivolge ai Corinti, affinché abbiano modo di riconciliarsi con Dio, per mezzo del “ministero della riconciliazione” affidatogli da Cristo. Inserita in questo contesto quaresimale la “riconciliazione” costituisce la chiave di lettura per comprendere il senso e il fine della Parola di Dio in quella che potremmo definire la Domenica della riconciliazione. Tutto il cammino finora compiuto sembra infatti convergere verso quell’abbraccio riconciliante con il quale il Padre avvolge la travagliata esistenza di quanti, come il figliol prodigo (cf. Lc 15,20), decidono di tornare a lui, dopo una dolorosa esperienza di peccato. L’immagine dell’abbraccio paterno che scaturisce da questa parabola, incarna allora quell’incontro con Dio al quale tanti di noi anelano, ma che è costantemente ostacolato da quell’atavica resistenza adamitica (cf. Gen 3,4-5), che impedisce di vivere appieno la propria vita come una relazione di comunione con Dio. Cos’è, in ultima analisi, la “terra promessa” – nella quale Giosuè conduce il popolo d’Israele (cf. Gs 5, 9a.10-12) al termine di un prolungato cammino nel deserto durato quarant’anni – se non questa comunione d’amore con Dio, che possiamo sperimentare già ora in Cristo. “Se uno è in Cristo” – dice san Paolo – “è una creatura nuova”; le cose di prima sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).

Con quella del figliol prodigo ci troviamo forse dinanzi alla più bella parabola di Gesù. La profondità dei contenuti e lo stile narrativo che la caratterizzano, fanno di essa un vero e proprio capolavoro di letteratura spirituale mondiale. Essa, pur nella brevità del suo racconto, traccia il percorso dell’intera storia della salvezza, alla cui luce ciascuno può rileggere la parabola, spesso travagliata, della propria esistenza. Essa diventa così metafora dell’esistenza umana, specie di chi decide di spendere la propria vita nell’avventura spirituale della relazione con Dio. Volendo potremmo strutturare il suo commento in base al seguente schema: a) La casa del padre, presso cui i due figli vivono, diventa la metafora dell’Eden, il luogo delle origini dell’uomo; ma anche il periodo di formazione della nostra memoria Dei, durante la quale impariamo ad acquisire il gusto di Dio e a custodire i suoi ricordi; b) Il figlio minore, con la sua decisione di andare via dalla casa paterna, incarna il principio della ribellione e la dinamica del peccato; c) La sua crisi esistenziale costituisce il tempo in cui la memoria dischiude in lui il volto del padre e il ricordo della casa; d) Il ritorno a casa invece traccia la dinamica della conversione di ciascun uomo; e) L’abbraccio del padre evidenzia la logica ricreativa dell’amore pasquale; f) La festa apre alla nuova vita filiale in Cristo; g) Il figlio maggiore esprime il principio del servilismo religioso e cela il tentativo di salvarsi mediante la volontà umana. Com’è evidente gli elementi che la strutturano sono molteplici, noi però ci soffermeremo solo su quei moti interiori che motivano il cammino di conversione del figlio più giovane, le cui tappe tracciano un autentico itinerario di riconciliazione[1].

Solo quando prende coscienza delle conseguenze a cui l’ha ridotto la logica di vita che ha seguito e del disastro che ha combinato con le sue scelte, il figlio più giovane comincia a riconsiderare il senso della propria vita. Era andato via di casa pensando di realizzare il proprio ideale di vita: bastare a se stesso ed essere autosufficiente e invece si ritrova a convivere con i porci, che per un ebreo simboleggia la forma più estrema di peccato a cui può giungere un uomo. Più giù di così non si può arrivare. Scavare nel brago dei porci pensando di trovare diamanti è l’illusione a cui è soggetto chiunque aderisce alla logica diabolica di poter fare a meno di Dio. Questa situazione esistenziale ci dà l’idea esatta del peccato: esso non è solo trasgressione di una norma morale, come molto spesso siamo abituati a pensare, ma è il risultato di un’esistenza lontana da Dio. Una vita vissuta all’insegna del peccato è come la freccia di un arciere che manca o sbaglia il suo bersaglio. Una vita lontana dal centro; o se si preferisce: una vita non riuscita.

Cosa consente al figlio minore di tornare dal padre? Il dovere? Il rimorso? La paura della condanna? Nulla di tutto questo. È la memoria della casa paterna; della vita che l’animava prima di partire; il ricordo dei momenti trascorsi col padre, quelli cioè che gli hanno fatto provare il gusto della sua presenza e della bellezza della sua relazione. È importante il gusto di Dio. E’ come quello dell’amore che un fidanzato prova quando sta con la fidanzata. Non torna perché qualcuno glielo impone, ma perché ha desiderio di provarlo di nuovo. E si ama non perché qualcuno lo comanda, ma per il piacere di farlo. L’amore nasce dal desiderio della libertà.

Il gusto fissa nella memoria i criteri con cui si sceglie una cosa e non un’altra. Esso consente a questo ragazzo di rivalutare e discernere la situazione nella quale si trova e risignificare l’importanza del suo rapporto col padre. Egli riteneva di aver fatto una scelta libera e invece si ritrova più vincolato che mai nelle trame del peccato. La vera libertà non è quella che precede le nostre azioni autonome e arbitrarie, ma quella che nasce dalle relazioni interpersonali, e più specificamente, dalla relazione con Dio. Questo ragazzo, come il popolo ebraico non è libero quando esce dall’Egitto e neppure dopo aver attraversato il mare. Non lo è neanche durante gli anni vissuti nel deserto, ma solo quando giunge nella terra promessa, ovvero quando compie il passaggio pasquale, quello cioè che fa purificare il cuore e la mente di tutti i vincoli di peccato che viziano la relazione con sé, con gli altri, col mondo, con Dio.

Ma osserviamo anche l’atteggiamento del padre: pur sapendo di perdere definitivamente il figlio lo lascia partire. Non fa il paternalista, ma il padre. Ci sono circostanze nella vita relazionale dove bisogna sapersi mettere da parte. Egli si fa nulla d’amore, bruciando tutto il suo dolore nel silenzio del dono. È proprio in quel suo farsi nulla che getta gratuitamente nel cuore del figlio l’amo del suo amore paterno. Non ha cercato di convincere il figlio a restare, ma ha lasciato che il figlio verificasse le conseguenze delle proprie scelte. Solo chi ama liberamente lascia l’altro libero anche di perdersi. L’amore non è fatto solo di gesti e di parole, ma anche di silenzi oranti che creano le giuste disposizioni d’animo. Questi silenzi sono un po’ come le pause musicali tra una nota e l’altra: diventano esse stesse sonore. Queste circostanze, al di là del dolore che esse procurano, sono di fondamentale importanza a livello spirituale. Apparentemente rendono impotenti, ma sono profondamente creative e salvifiche.

Il figlio più giovane ha dunque la pretesa di vivere la sua umanità senza Dio, vuole realizzarsi come individuo, mentre il padre vuole che si realizzi come persona. In queste condizioni solo chi ha il coraggio di gettare le redini della propria volontà ha la possibilità di risalire dal fondo di sé, dal vuoto della propria esistenza. L’umiltà è il primo passo verso il ritorno al padre. Essa è la condizione per cominciare ad ammettere i propri errori. Per entrare realmente in se stessi, occorre uscire paradossalmente da sé, dal proprio egocentrismo, ed entrare nella dinamica relazionale dell’amore, che è una dinamica esodale. Essa ci fa ritrovare nell’altro da noi, nel cui amore ritroviamo il nostro vero io, quello relazionale, costituito dall’amore trinitario di Dio. Ecco perché il perdono sotto il profilo sacramentale avviene attraverso l’altro. E noi usciamo veramente da noi stessi, solo quando ci apriamo all’altro, in questo caso, all’amore salvifico di Dio in Cristo. Cristo non si è incarnato per correggere l’uomo, ma per salvarlo. E l’uomo lo accoglie lasciandosi rinnovare dal suo amore.

Quando il cuore è maturo allora accade l’abbraccio. Un abbraccio pasquale perché fa compiere il passaggio da servo a figlio. Il padre riveste il figlio della sua paternità. Lo avvolge, lo copre con la sua misericordia. “L’amore copre una moltitudine di peccati”, dice Pietro nella sua prima lettera (1Pt 4,8). “La carità è magnanima, benevola è la carità; … non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ... Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”, aggiunge Paolo nella lettera ai Corinti 13,4-7. Invaso dall’amore il figlio si scopre come circondato da una luce totalmente nuova. Per la prima volta nella sua vita ha scoperto chi era veramente il padre. Quell’abbraccio gli ristabilisce non solo l’immagine decaduta, ma lo fa scoprire somigliante al suo volto. Solo l’amore cambia la vita, la mente, l’intelligenza, la ragione, il cuore, l’agire … Avvolto dall’amore il figlio non riesce neppure più a pronunciare il discorso di pentimento che si era preparato con tanta cura e sincerità. Ed è solo all’interno di questo orizzonte d’amore che il figlio coglie la profondità del peccato nel quale si era cacciato. Egli prende coscienza del peccato non per mezzo di un processo penitenziale, ma grazie ad un’esperienza d’amore, come Pietro durante la pesca miracolosa: “Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). L’amore porta al pentimento, a riconoscere e a confessare il peccato. Il pentimento porta a scoprire l’inganno in cui siamo caduti con il peccato. Nell’abbraccio pasquale del padre il figlio compie il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla redenzione: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” dice san Giovanni nella sua prima lettera (1Gv 3,14). È un abbraccio trasfigurante e liberante. Dio non annulla la volontà umana, ma la trasfigura, conformandola a quella filiale del Figlio. È nell’accoglienza di questo dono di Dio che noi riscopriamo il senso vero e autentico della nostra vita. E quella relazione con Dio che prima ci appariva vincolante e limitativa ci appare ora immensa e liberante. L’amore divino ci fa scoprire il senso pieno della nostra esistenza facendoci entrare nell’orizzonte della filialità divina. È questo l’alveo originario ed originante che permette all’uomo di vivere appieno il processo di umanizzazione.

La riconciliazione col Padre in Cristo è l’epilogo di tutto l’esodo della conversione alla quale abbiamo messo mano all’inizio del nostro cammino quaresimale. Solo chi esce da sé, ovvero da quella mentalità che induce a credere di vivere un’esistenza senza Dio, potrà realizzare pienamente se stesso nella comunione col Padre. Questo incontro, quando accade, determina una rinnovata visione della vita, dell’altro, di Dio, del mondo, delle relazioni umane. Esso dà origine ad un nuovo modo di pensare e vivere la vita, che si traduce in una rinnovata esperienza d’amore, quale principio che nel cosmo – come afferma Dante – “muove il sole e le altre stelle” e – come ribadisce san Paolo, citando alcuni poeti, nel libro degli Atti – è l’alveo originario “nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). È questa la vera terra o patria di cui avvertiamo un’irresistibile nostalgia. Cos’è la pasqua a cui siamo chiamati, se non questa esperienza d’amore del Padre che ci fa nuovi dal di dentro, con la sola forza del perdono. Per giungere ad essa occorrono le condizioni che favoriscono l’incontro personale col Padre: il pentimento e il perdono. Senza questi atteggiamenti il digiuno, l’elemosina, la preghiera, rischiano di rimanere semplici pratiche religiose.

La straordinaria esperienza d’amore descritta in questa parabola ci induce a qualificarla spesso col titolo di “Figliol prodigo”. In realtà il vero prodigo è il padre, poiché è lui che elargisce con magnanima gratuità l’amore di cui dispone in eccedenza. Il figlio spende senza misura, sperperando beni che gli sono stati dati gratuitamente. È generoso, ma con la ricchezza degli altri. Lui non ha fatto nulla per conquistarla, l’ha solo ereditata. Il padre invece dona ciò che gli appartiene e lo elargisce con generosità, esattamente come il figlio. Ma mentre il figlio spende, il padre spande. La prodigalità e la gratuità dell’uno e dell’altro è dettata da una logica diversa: il figlio, spendendo, esaurisce i beni e si ritrova nella povertà del peccato; il padre, spandendo, li aumenta e manifesta la libertà dell’amore. L’amore è l’unico bene che quando viene donato gratuitamente e liberamente non impoverisce ma arricchisce. Esso lungi dal vincolare le persone le rende libere. Libere di essere se stesse, nella pienezza della propria esistenza.

Buona riconciliazione.

[1] Per una lettura più estesa e una meditazione più approfondita di questa parabola, rimando al capitolo: La coscienza del peccato nella luce dell’amore del mio libro: Insieme nella fede. Itinerario biblico per una spiritualità ecclesiale, Paoline, Milano 2021, pp. 128-174, capitolo che consiglio in modo particolare a chi desidera prepararsi più seriamente alla riconciliazione con Dio durante questo tempo di Quaresima.

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