27 Giugno 2021 - XIII Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 27 giu 2021
- Tempo di lettura: 7 min
Sap 1, 13-15; 2, 23-24; Sal 29; 2Cor 8.7.9. 13-15; Mc 5, 21-43
Non temere, soltanto abbi fede!

Come domenica scorsa anche oggi il brano evangelico viene introdotto da un passaggio col quale Gesù, dopo essere approdato all’altra parte del lago, fa di nuovo ritorno, alla riva dalla quale era partito. Sembrerebbe un particolare di poco conto, in realtà esso, come già abbiamo rilevato, contiene un chiaro riferimento alla Pasqua, reso ancora più evidente dalla risurrezione della figlia di Giaro (cf. Mc 5,21-24.35-43). Esso sintetizza perciò l’itinerario di fede che Marco intende esporre attraverso questa pagina evangelica. L’evangelista ci riferisce di frequenti attraversate compiute da Gesù, insieme ai suoi discepoli, sia sul lago che sui territori da loro percorsi (cf. Mc 4,35; 5,1; 5,21; 6,6.32.34.45.53), come a voler ricordarci i continui passaggi dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14), che anche noi siamo chiamati a compiere a livello spirituale e morale, nella nostra quotidianità.
Morte e vita sembrano essere infatti gli estremi entro i quali accade la nostra esistenza, come ci suggerisce la prima lettura (cf. Sap 1,13-15; 2,23-24), con la quale condividiamo quell’amara considerazione della vita quotidiana, dove tutte le cose esistenti, pur animate dal soffio vitale, sono attraversate da un processo di corruzione che le porta inevitabilmente alla morte. Un processo che non tiene conto affatto della condotta morale, giusta o corrotta che sia, delle persone. La morte è un destino ineluttabile, che accomuna tutti a al quale nessuno può sottrarsi. Dinanzi a questa dolorosa constatazione non pochi, nel corso della storia, si sono posti la domanda: a che pro’ vivere se tutto sembra essere destinato al nulla? Come non vedere in questa domanda la parabola esistenziale dell’uomo contemporaneo, determinata dalle ideologie nichiliste[1] e relativiste[2], che hanno portato alla disperazione intere generazioni. Il profilarsi anche in noi e intorno a noi di simili domande e situazioni ci porta a chiedere: cosa conduce le persone a questi epiloghi esistenziali così drammatici? Cosa impedisce loro di trovare una risposta convincente, credibile e ragionevole della vita? Perché oggi è più difficile spendersi per un senso che preferire di non averlo? È proprio vero, come dice qualcuno che “questa vita un senso proprio non ce l’ha”? (V. Rossi). È chiaro che queste domande aprono uno scenario alquanto impegnativo e drammatico, nel quale si coglie la difficoltà a ripristinare una relazione di fede con Dio, rimasta troppo a lungo emarginata nei meandri della vita culturale e assopita nelle stanze oscure del nostro io.
Sono domande che tratteggiano un contesto esistenziale molto simile a quello in cui l’autore[3] del libro della Sapienza matura la sua esperienza di fede, non senza tradire un influsso della sapienza greca. Anche lui, come tanti di noi, è attraversato da una domanda frequente: se Dio “ha creato tutte le cose perché esistano” (Sap 1,13), da dove ha origine la morte? Cosa genera questo processo di corruzione che attraversa tutto il creato? Qual è la causa che lo determina? Anche lui corre il rischio di rimanere imbrigliato in quel tipo di argomentazioni razionali che solo apparentemente sembrano prospettare risposte plausibili, ma senza garantirne una soluzione salvifica. Da qui il tentativo di approcciarsi ad esse nella luce della fede di Dio. Ne scaturisce una riflessione sapienziale che lo conduce a intuire nel mondo la presenza di una forza maligna che sfugge ad ogni tentativo razionale, e per questa ragione rimane avvolta dal mistero. Essa contrasta fortemente con quello spirito incorruttibile, infinito ed eterno che anima la vita dell’uomo, per cui diventa difficile stabilire se essa sia originata dall’uomo o risieda fuori di lui. L’autore, come gli suggerisce l’ispirazione divina, opta per questa seconda interpretazione: “la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,24). Da qui quell’anelito di speranza che gli proviene dalla tradizione della fede ebraica, secondo la quale la salvezza non sta negli sforzi catartici dell’uomo, ma scaturisce solo dall’incontro con Dio. Il Dio del quale egli fa professione di fede non è quello astratto delle idee filosofiche, ma quello personale, “vivo e vero” (1Ts 1,9) della tradizione profetica (cf. Ez 35,6.11), col quale ha la possibilità di intessere un rapporto intimo e profondo. Riletto nella luce di questo Dio il mistero del male gli appare in tutt’altra prospettiva. La fede gli si profila allora come uno sguardo trasfigurato e trascendente che gli consente di risignificare la vita. Essa non è un modo per eludere la drammaticità della vita, al contrario è uno sguardo che consente di cogliere il senso dell’esistenza oltre la drammatica esperienza della morte. Non più la morte o il male cadenzano la sua riflessione quotidiana, ma la tensione alla salvezza, “di cui tutte le creature del mondo sono portatrici” (cf. Sap 1,14) diventa la ragione della sua vita. Ecco cosa gli impedisce di cedere alla disperazione.
Ma quella salvezza che egli ritiene possibile solo in un futuro escatologico, diventa con Gesù, una realtà concreta, che si attua nell’oggi della fede in lui. Così, se la malattia e la morte sono segni della presenza ancora in atto del nemico, i miracoli compiuti da Gesù diventano segni con i quali egli contrasta il suo potere maligno nel mondo.
L’evangelista Marco ci presenta questi due episodi miracolosi di Cristo con un insolito intreccio narrativo, che rivela un’abilità letteraria molto suggestiva e avvincente, capace di suscitare anche quel clima di suspense, tipico dei romanzieri e registi più avvezzi. Entrambi gli episodi sono accomunati dal numero dodici, il cui simbolismo si presta a diverse interpretazioni. Dodici sono gli anni della malattia emorragica da cui è affetta la donna; dodici anche quelli dell’età in cui la morte colpisce prematuramente la bambina. Alcuni vedono in questo numero un richiamo a quello delle dodici tribù d’Israele o più chiaramente a quello dei dodici apostoli, colti in momento di svolta del loro cammino di fede, come si evince dalla missione alla quale Gesù sta per inviarli (cf. Mc 6,6-13). In realtà tanto l’episodio della donna quanto quello della bambina sono collocati, dall’evangelista, in un momento particolare della loro vita. La donna, colta da questo prolungato flusso mestruale, è letteralmente impossibilitata a generare la vita e come se ciò non bastasse è impedita in qualsiasi genere di rapporti sociali e religiosi, a causa della sua impurità. I diversi tentativi terapeutici ai quali si era sottoposta, per risolvere quella incresciosa situazione, erano tutti risultati vani; per di più l’avevano ‘dissanguata’ economicamente, sfiancata fisicamente e intimorita psicologicamente. Il sangue nella mentalità religiosa ebraica costituisce la sede della vita che ora il maligno, attraverso l’emorragia, le sta svotando dall’interno e portando via. Non è difficile cogliere in questa situazione una facile disposizione allo sconforto. Ma, come di solito accade in queste circostanze limiti, le si presenta, inaspettatamente, un’occasione favorevole, da prendere al volo, come solo chi vive in un continuo rapporto con Dio sa cogliere: sentito parlare di Gesù, s’introdusse discretamente ma decisamente tra la folla, sperando così di toccargli da dietro il suo mantello (cf. Mc 5,27). L’evangelista Marco, nella stesura narrativa di questo episodio, si rivela anche un fine interprete psicologico, riuscendo a cogliere perfino le sue intenzioni più profonde e nascoste: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salva” (Mc 5,28). Ma quello che voleva essere un gesto compiuto nel nascondimento, diviene presto noto a tutti: “Gesù, resosi conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla e disse: chi ha toccato le mie vesti?” (v. 30). Una domanda che suona apparentemente assurda alle orecchie dei suoi discepoli che insieme alla folla gli si stringono intorno senza margine di movimenti: “Tu vedi che la folla si stringe intorno a te e dici: chi mi ha toccato?” (v. 31), obiettano i discepoli. Ma Gesù, col suo sguardo introspettivo, suscita nella donna il coraggio di esternare quello che era appena accaduto in lei. Così “impaurita e tremante la donna gli si gettò davanti e le disse tutta la verità” (Mc 5,35). Ecco il miracolo che la fede in Cristo è in grado di operare: imparare a dirsi e soprattutto a dire quello che Dio compie in noi. La fede si profila per questa donna non solo come l’occasione della propria guarigione fisica, ma soprattutto come la condizione che le consente di ritrovare la sua dignità femminile e personale. Gesù le restituisce non solo la salute, ma la rimette nuovamente nella condizione di generare la vita e soprattutto le ridona quella fiducia e stima di sé che la malattia prima e i pregiudizi sociali e religiosi dopo le avevano impedito di conservare. La fede diventa per costei, come per chi vive solitamente ai margini della realtà, la via per uscire dall’anonimato e introdursi nel circolo delle relazioni sociali e divine. L’evento pasquale che siamo chiamati a tradurre nel quotidiano si attua proprio in questi passaggi dalla sterilità culturale e spirituale – alla quale ci conduce il peccato – alla fecondità della vita relazionale.
Ma se la malattia preclude nella donna la fecondità fisica e spirituale, nella bambina diventa addirittura causa di morte, proprio nell’età in cui lei sta per compiere il passaggio verso la fecondità fisica. Nell’uno e nell’altro caso in gioco è sempre la vita, quella che passa attraverso il sangue, nel quale risiede il nefesh, lo spirito divino, e quella che passa attraverso il respiro, nel quale risiede il ruakh, il soffio vitale. Gesù restituisce all’una lo spirito e all’altra la vita. Lo fa come è solito di Dio, intervenendo solo in circostanze estreme: dopo il fallimento di tutti i tentativi della donna con i medici (cf. Mc 5,25-26), e dopo quelli poco tempestivi del padre (cf. Mc 5,22-23). Egli interviene solo quando rimane solo il margine d’appello a Dio. È a queste condizioni che si rinnova quel moto interiore, prodigioso e discreto che è la fede, attraverso la quale ciascuno ha la possibilità di sperimentare, in Cristo, la straordinaria potenza dell’amore salvifico di Dio.
A noi cogliere quelle sfide quotidiane della vita che ci impediscono di fare un’autentica esperienza di fede. Esse possono avere il volto di una malattia che rischiano di chiuderci nel cerchio ristretto del nostro dolore, come poteva accadere alla donna; oppure dello scoraggiamento, come poteva accadere a Giairo, dinanzi all’annuncio della morte ormai avvenuta della figlia (cf. Mc 5,35). Credere significa porsi allora in ascolto della voce di Cristo che continuamente ci ripete: “Non temere, soltanto abbi fede” (Mc 5,36).
[1] Il nichilismo è un movimento filosofico che nasce a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e ha tra i suoi principali rappresentanti F. Nietzche (1844-1900). Si tratta di un pensiero che promuove lo sviluppo di una visione della vita in cui viene negato ogni riferimento al divino e alla trascendenza. [2] Il relativismo è quel pensiero che ritiene l’uomo incapace di conoscere la realtà oggettiva e assoluta, e come tale è impossibilitato a pronunciare giudizi di valore poiché i principi a cui egli si riferisce sono stabiliti dagli individui o dalle norme culturali vigenti. [3] Si tratta probabilmente di un giudeo - sotto il nome di Salomone - che vive ad Alessandria d’Egitto, una delle capitali culturali del tempo.




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