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27 Febbraio 2022 - Anno C - VIII Domenica del Tempo Ordinario


Sir 27,4-7 (NV - gr. 27,4-7); Sal 91; 1Cor 15, 54-58; Lc 6, 39-45


L’amore: il criterio evangelico

della correzione fraterna


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Domenica scorsa Gesù, rivolgendosi ai discepoli durante il suo Discorso sulle Beatitudini, concludeva il brano evangelico con un inciso: “Siate misericordiosi” (Lc 6,36). Lo stesso inciso sembra costituire la chiave di lettura per comprendere anche il significato della liturgia di quest’oggi, che ruota intorno alla pratica della correzione fraterna, da esercitare nella luce dell’amore evangelico. Una pratica spirituale antichissima, tesa al recupero della persona, specie in quei casi più complessi come può essere quello di un nemico. Da qui la domanda: una simile pratica può essere estesa anche a livello sociale come, per esempio, l’attuale situazione bellica Europea, dove improvvisamente sembra essersi delineata l’ombra sinistra di un nemico. Anche costui rientra tra quelle persone da amare di cui parla Gesù? Una domanda delicatissima che ci induce, a maggior ragione, ad evidenziare i criteri e le condizioni previe a una simile pratica.

Come si fa a valutare obiettivamente l’entità di una persona o di una situazione, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi culturali? (cf. Sir 27,5-8). E soprattutto come si fa a intervenire nel caso in cui simili persone o situazioni necessitino di interventi correttivi? La logica umana, come attestano i diversi interventi internazionali, induce immediatamente ad intervenire con sanzioni penali, che nella stragrande maggioranza dei casi inducono l’altro più a giustificarsi e a difendersi che a ravvedersi. L’apostolo Paolo affronta questo argomento in alcune sue lettere, come quelle ai Galati, dove dice: “Qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza” (Gal 6,1); mentre nella seconda lettera ai Tessalonicesi ribadisce: “Se qualcuno non obbedisce, prendete nota di lui … tuttavia non trattatelo come un nemico ma ammonitelo come un fratello” (2Ts 3,14-15). In entrambi i casi emerge che la correzione fraterna prima ancora di essere un atto penale e un intervento educativo, e come tale va esercitato con carità evangelica, che lui traduce in termini di “dolcezza”; perciò più che al giudizio e alla condanna è teso alla promozione dell’altro (cf. Ez 33,11; Lc 15,7). La carità, dunque, costituisce l’atteggiamento fondamentale che deve caratterizzare coloro che sono preposti per un simile compito nella comunità ecclesiale e ancora di più in quella sociale. Solo chi dispone di una maturità umana e spirituale è in grado di far convergere tutto al bene. Diversamente chi è nutrito da un rigido legalismo giuridico trasforma la correzione in un’occasione di giudizio e di condanna. Per questa ragione è opportuno che costoro facciano memoria del discorso di Gesù sulla misericordia, per fare luce sulle giuste condizioni da assumere qualora dovesse ritrovarsi ad esercitare questa pratica spirituale nel contesto di un rapporto interpersonale, familiare o più estesamente a livello ecclesiale e sociale, fino a quello internazionale. Si tratta naturalmente, ed è utile ricordarlo, di una pratica che non tutti possono o sono in grado di esercitare già in un contesto sereno, lo diventa ancora di più in quegli ambienti dove le relazioni sono spesso viziate da vincoli affettivi, retaggi conflittuali, pregiudizi culturali dovuti senz’altro ai reali limiti dell’uno o alla reciproca incomprensione, che non favoriscono affatto la dovuta oggettività e il clima sereno necessari a questa pratica.

La misericordia – ricordiamo allora che – è l’essenza di tutto l’insegnamento di Gesù sulle Beatitudini; la meta verso la quale ogni suo discepolo deve orientare la propria vita. Essa è il tratto specifico di Cristo, la qualità distintiva della sua predicazione, l’attributo tipico del Padre. Per lui non c’è altro obiettivo nella vita che essere misericordiosi come il Padre che è nei cieli (cf. Lc 6, 36), fino a raggiungere la sua perfezione nell’amore (cf. Mt 5, 48). Tutto l’insegnamento di Gesù ruota intorno a questa prerogativa divina. Del Padre egli non dice altro se non la misericordia. Ogni altro attributo del Padre ha nella misericordia il suo principio, il suo senso, il suo fine. La misericordia è l’essenza del Padre. Ne qualifica la perfezione, connotandola di un’apertura relazionale che è tutt’altro rispetto a quella di un Dio chiuso nell’alveo della sua divinità. Egli è perfetto non perché è onnipotente, onnisciente, ma perché è amante; impregnato di un amore perennemente in atto. Pertanto chiunque pratica il suo amore nelle relazioni interpersonali col prossimo, vive del suo amore divino e partecipa della sua perfezione, fino a diventare santo come lui è Santo (cf. Lv 19,2). L’amore con cui Gesù intesse le relazioni con i suoi discepoli è lo stesso che lui condivide col Padre nello Spirito. Pertanto la sua comunità ecclesiale dovrà essere un riflesso della sua vita trinitaria, dalla quale egli proviene. I suoi discepoli non dovranno avere altri impegni se non quello di incarnare questa vita divina nel mondo. Essi, perciò, non sono chiamati ad eccellere nella scienza, nella politica, nello sport, nelle arti, nella cultura …ma nell’amore. Tutte questi ambiti altro non sono che luoghi dove manifestare e declinare la perfezione dell’amore di Dio. Ogni cosa essi devono impregnare del suo amore misericordioso. La misericordia diventa allora per Gesù il criterio con cui dovranno esercitare ogni loro atto, pensiero, scelta e decisione, specie per coloro che si ritrovano ad assumere responsabilità spirituali, morali e pastorali sugli altri. Essi dovranno guidare, insegnare, predicare, correggere, valutare, decidere … tutti ambiti nei quali sono chiamati ad esercitare l’amore evangelico. È qui lo specifico segno distintivo delle loro relazioni interpersonali, ecclesiale e sociali. La misericordia si traduce allora nella benevolenza con cui dovranno guardare le persone, nella clemenza con cui dovranno giudicarle, nella comprensione con cui dovranno correggerle. Solo chi diventa esperto in misericordia è in grado di valutare la realtà e le persone nella luce dell’amore evangelico. Diversamente, si corre il rischio di scadere nel giudizio e nella condanna. Quando, infatti, la correzione è guidata solo dal criterio della giustizia legale, allora, si è propensi a condannare; mentre quando si animati dalla misericordia, si è disposti a perdonare. Il perdono e la condanna costituiscono pertanto i segni visibili dei sentimenti di amore o ostilità che albergano tacitamente nel cuore delle persone; come i frutti lo sono dell’albero quando è ancora in pieno inverno (cf. Lc 6, 43-44). Nessuno può conoscere tali sentimenti finché le circostanze della vita non li fanno emergere. Non è possibile valutare l’albero quando è spoglio. Allo stesso modo nessuno può dire chi sia un uomo, prima che abbia parlato (cf. Sir 27,8). Dal modo di ragionare si capisce la qualità dei suoi pensieri. Il ragionamento – stando al Siracide – costituisce il banco di prova di un uomo, così come la fornace lo è per i vasi di ceramica. Un atleta, per esempio, non può pretendere di gareggiare se non si è mai allenato. E non potrà mai conseguire una vittoria se si sottrae alle prove delle gare. È opportuno perciò non esprimere alcuna valutazione, o emettere una sentenza su di una persona, prima che questa non abbia dato prova di sé (cf. Sir 27,5-8). Ciascuno rivela quello che è, e dà quello che ha. Ogni persona è quello che pensa, dice e fa; e pensa, dice e fa solo quello che nutre nel cuore. Pertanto se una persona, o una comunità ecclesiale o internazionale, è costantemente litigiosa, sospettosa, conflittuale, diffidente e alimenta solo sentimenti di invidia, rivalità, gelosia, rancore, … è segno che la sua religiosità è del tutto estranea alla vita evangelica e la sua spiritualità è tutt’altro che impregnata d’amore. Costoro non dispongono di alcuna prerogativa per dire agli altri come e cosa fare. La regola d’oro da adottare in queste circostanze, rimane allora quella evangelica di Gesù: correggi gli altri come vorresti essere corretto tu (cf. Lc 6,31), poiché la misericordia con cui correggi sarai corretto (cf. Lc 6,38). L’amore è l’unica condizione relazionale che consente di valutare l’altro nella sua vera entità umana. Esso costituisce il vero recinto ecclesiale ed umano all’interno del quale è possibile sperimentare la salvezza di Cristo. L’antico adagio sulla Chiesa che ha creato non pochi disagi potremmo allora parafrasarlo in questi termini: Extra agàpe nulla salus, fuori dell’amore non c’è salvezza.

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