27 Agosto 2023 - Anno A - XXI Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 26 ago 2023
- Tempo di lettura: 10 min
Is 22,19-23; Sal 137/138; Rm 11,33-36; Mt 16,23-20
“Chi dite che io sia?

“La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo? Risposero: Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti. Disse loro: Voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,13-16). Questo breve e intenso dialogo tra Gesù e i suoi discepoli ci porta direttamente al cuore della fede cristiana. Provocato dalla domanda di Gesù, Pietro dà una risposta che costituisce una delle professioni di fede più chiare e profonde di tutta la letteratura neotestamentaria. Così, dopo aver testimoniato la sua fiducia incondizionata nella Parola di Cristo, durante la rischiosa attraversata notturna del lago in tempesta (cf. Mt 14,28-19), quest’oggi, lo stesso Pietro, ci offre una straordinaria intuizione della sua identità divina. Pietro si rivela, dunque, protagonista indiscusso di questa avventura di fede, cominciata già qualche domenica fa. Non è un caso allora che un simile episodio venga posto da Matteo, presso a poco, alla metà della sua narrazione evangelica (cf Mt 16,13-20)[1], come a voler evidenziare la svolta che essa deve necessariamente determinare nella vita del discepolo e anche nel cammino di fede personale del lettore.
Nella storia di ciascuno di noi, prima o poi, giunge un momento in cui ci si sente, più che mai, interpellati a definire il senso della propria relazione con Cristo. Questa decisione nasce sovente da una domanda che Gesù ci pone direttamente, in maniera strettamente personale: “Chi dici che io sia?” (Mt 16,15). Si tratta di una provocazione alla quale nessuno può sottrarsi, perché Gesù la pone ai discepoli di ogni tempo. Essa scuote la nostra responsabilità personale e comunitaria e ci invita a uscire fuori da quella prassi religiosa tradizionale, dove la fede viene spesso trasmessa, recepita e professata semplicemente come un fatto culturale. In un simile contesto l’appellativo “Cristo”, col quale la Chiesa riconosce l’identità divina di Gesù, viene dato per scontato, quando invece necessita di essere compreso nel suo significato più originario e profondo. La sua comprensione, infatti, è a fondamento della nostra fede, non a caso definita “cristiana”. È importante perciò vedere come Pietro giunge a questa definizione di fede e come anche noi, con lui, siamo chiamati a dare la nostra personale risposta a Cristo.
L’episodio petrino viene ambientato a Cesarea di Filippo, una città pagana a nord della Palestina. E ruota intorno alla questione centrale della predicazione di Gesù: l’esatta comprensione della sua identità messianica. Che il Messia fosse atteso era un dato da tutti condiviso, ma non tutti erano concordi sull’univocità del suo significato. Lo stesso Gesù, come attesta anche il v. 20 del nostro brano, si era mostrato estremamente cauto nell’usarlo: “Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo” (Mt 16,20). Questo divieto nasce dalle diverse interpretazioni a cui dava adito tale termine. Quella più diffusa era senza dubbio politica. Da qui l’idea, abbastanza radicata nel popolo, dell’attesa di un condottiero, di tipo davidico, che avrebbe dovuto conferire al popolo una dignità giuridica e politica, rispetto ai regni a cui Israele era spesso sottomesso. Tutt’altro che politico Gesù riconosce, invece, il significato che il profeta Isaia dà a questo titolo, quando ne parla in termini di “Servo sofferente” (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-15). Ed è questa l’immagine che Gesù lascia emergere dalla sua predicazione e in modo particolare dalla sua passione. Un’immagine, però, che perfino i discepoli fanno fatica a recepire, come attesta la reazione di Pietro all’annuncio della passione di Gesù (cf. Mt 16,22). Egli, benché avesse intuito il profilo messianico della persona di Gesù, rimane condizionato dalla visione politica condivisa dalla sua gente e dall’idea di successo che il messia avrebbe dovuto riscuotere a livello sociale. Da qui la sua disapprovazione: “prendendolo in disparte (Pietro) si mise a rimproverarlo: Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22).
Una simile visione messianica rivela una mentalità particolarmente difficile da sradicare. Essa ha condizionato e condiziona non poco il vissuto della fede anche a livello ecclesiale, dove le interferenze politiche hanno spesso influenzato l’esatta interpretazione del primato conferito da Gesù a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16,18.19). La storia ci insegna che quest’interferenze politiche sono state motivo di non pochi conflitti, non solo sotto il profilo teologico, ma anche ecclesiale e sociale. Da qui il monito che proviene dal brano di Isaia 22,19-23, e che la liturgia ha saggiamente associato all’episodio evangelico. Esso ci insegna che il ruolo ecclesiale o sociale che Dio riserva ad alcuni di noi, non va affatto identificato con la chiamata alla santità, tanto meno esso è irrevocabile[2]. Al contrario, dipende dalla relazione di fiducia che si viene a stabilire tra lui e il discepolo. Nella storia del popolo d’Israele non mancano i casi in cui Dio destituisce una persona dal suo ruolo di guida, come dimostra la vicenda di Saul, il primo re d’Israele, al quale tolse il titolo di re per conferirlo a Davide (cf. 1Sam 16,1ss). La ragione della revoca non dipende certamente da una mutata volontà di Dio, alla quale rimane sempre fedele, bensì da una chiara strumentalizzazione del ruolo da parte del prescelto, come nel caso di Sebna, maggiordomo del palazzo regale. Egli pur essendo uno straniero era riuscito a risalire la china sociale, fino alla carica di sovraintendente capo della corte regale. La sua autorità era tale da essere secondo solo al re. Eppure Dio non esita a destituirlo attraverso l’intervento del profeta Isaia. Dio punisce Sebna per aver usurpato, a proprio favore, del potere che gli era stato conferito come dono. Egli, infatti, viveva nel lusso più sfrenato, a discapito di tutto il popolo ed in particolare dei poveri. La sua condotta di vita divenne perciò la causa del rovesciamento della sua sorte (cf. Lc 1,52-53), tale da trasferire i suoi poteri a Eliakim, figlio di Kelkia (cf. Is 22,19-20), il quale, con evidenti richiami alla parabola del Figliol prodigo (cf. Lc 15, 22), viene rivestito dei segni del comando: tunica, cintura e investito di tutte le facoltà regali: “Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire” (Is 22,22).
Le chiavi, a cui si fa riferimento in questo brano avevano un significato simbolico. Spesso erano di grandi dimensioni e venivano poste sulle spalle del maggiordomo, come a volere indicare il peso della responsabilità che comportava tale incarico. Gesù, nel momento dell’investitura petrina, si rifà a questa tradizione biblica, limitando però il suo gesto al solo uso verbale, pur conservandone il significato. Anche Pietro, come Eliakim, viene investito di tutto il potere divino: a lui vengono consegnate le chiavi del Regno di Dio, il che significa che Cristo gli conferisce il potere di decidere a suo nome. Qualunque cosa Pietro decida di fare: “sciogliere” o “legare”, ovvero consentire o meno l’accesso al Regno, è Cristo stesso che lo decide in lui (cf. Gal 2,20). Si tratta perciò di un potere che richiede una grande responsabilità e un’estrema fiducia reciproca, frutto di una forte intesa spirituale e di una profonda comunione di vita relazionale. Pertanto, la modalità con cui questo potere viene conferito richiede un atteggiamento radicalmente diverso, rispetto a quello preteso dai due figli di Zebedeo (cf. Mc 10,35-45)[3]. Egli, più degli altri, deve farsi interprete della volontà salvifica di Cristo nella comunità dei discepoli e quindi nella vita del mondo. Il perdono e la misericordia di Cristo, a partire da questo conferimento, dipendono dalla testimonianza d’amore che Pietro, e chi per lui, sapranno dare nel corso della storia.
Qual è allora il senso specifico di questo episodio evangelico? Senza minimizzare il ruolo governativo e amministrativo che un simile incarico comporta nella Chiesa, esso trova una notevole concentrazione nell’atteggiamento di fiducia che ciascuno di noi è chiamato a stabilire con Cristo e nell’esercizio della propria intelligenza di fede, con cui scrutare il mistero della sua identità umana e divina. La fede, per quanto disponga di un deposito millenario di sapienza teologica, non va data mai per scontata. Essa necessita di essere costantemente incarnata, indagata, compresa e attualizzata nei diversi contesti culturali e sociali che si susseguono nel corso della storia. E ciò richiede la stessa “beatitudine” che Gesù riconosce a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). La beatitudine che Gesù riconosce a Pietro non scaturisce dalla capacità speculativa della sua ragione, né dalla conoscenza teologica ereditata della tradizione religiosa della sua gente, ma è un dono libero e gratuito che Dio concede a chiunque si relaziona con lui. Non importa il grado culturale o il quoziente intellettivo. Ciò che Gesù chiede è la massima disponibilità alla sua volontà e la docile disposizione della mente alla sua rivelazione. Da questa dipende l’apertura della propria intelligenza, esercitata nello spirito della povertà evangelica, secondo la beatitudine dei “poveri in spirito” (cf. Mt 5,5), che giustamente Matteo pone all’inizio del cammino di discepolato.
A questo riguardo il passo paolino della lettera ai Romani (11,33-36) si rivela di straordinaria importanza. Esso evidenzia il dolore di Paolo legato alla sorte del popolo d’Israele. Questo popolo che Dio, attraverso i profeti, aveva pazientemente educato ad accogliere il salvatore, si rivela non solo incapace di riconoscerlo nella persona di Gesù, ma si mostra perfino ostile alla sua azione salvifica. Se nel passato questo privilegio era stato motivo di vanto, ora diventa il motivo della sua estromissione dal piano salvifico. Paolo individua la causa di questo atteggiamento del popolo nella pretesa sapienziale di padroneggiare la rivelazione divina a proprio vantaggio: una vera e propria forma di orgoglio religioso. Questo atteggiamento superbo costituisce il motivo della sua destituzione a favore di un popolo che ne porti a compimento il piano salvifico. Pertanto l’episodio di Sebna assume un carattere fortemente simbolico per interpretare la sorte riservata ad Israele. Dio non rimane legato al ruolo e neppure alla persona, quando questi si rivelano reali impedimenti alla realizzazione della promessa divina. Questo comportamento di Dio ci fa capire che la nostra professione di fede, prima ancora di assumere un carattere pubblico e sociale, deve essere la manifestazione della nostra riconoscenza personale al dono libero e gratuito che egli ci fa del suo amore salvifico. “Chi mai gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?” dice Paolo ai Romani (Rm 11,35). Senza la sua generosa magnanimità noi non avremmo neppure il dono dell’intelligenza per comprendere la “profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio” (Rm 11,33). Intelligenza e ragione invece di essere considerate come dono di Dio sono spesso motivo di orgoglio nei suoi confronti. In realtà ogni cosa di cui noi disponiamo – sostiene Paolo – ha in Dio la sua origine, il suo principio, il suo senso e il suo fine. Infatti, “da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose” (Rm 11,36).
L’episodio di Cesarea di Filippo ci fa capire allora che la fede non si può fondare sul sentito dire, come invece accade per molti cristiani, ma sulla relazione interpersonale con Cristo, al quale, evidentemente, interessa sapere non solo la “fiducia” che nutriamo per lui, ma anche cosa “pensiamo” di lui[4]. In realtà in questo episodio assistiamo ad una duplice professione di fede: di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente” (Mt 16,16) e di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (18). Tra Cristo e Pietro si viene così a stabilire un rapporto di reciproca fiducia che costituisce il presupposto non solo della sussistenza della Chiesa nei confronti dei pericoli nel mondo: “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (18), ma anche di ogni esercizio ministeriale. Nessun ruolo ecclesiale può essere autenticamente e idoneamente svolto se esso non ha origine nella volontà di Dio e non ha come fine la sua salvezza. Tutto ciò che esula da questo principio e fine, prima o poi, è destinato a fallire. La storia della Chiesa ci fa capire, invece, che la salvezza si compie attraverso coloro che si fanno interpreti della volontà di Dio nell’oggi della fede.
[1] Lo stesso faranno anche Marco 8,27-30 e Luca 8,18-21. [2] Questo brano biblico, fatte le dovute debite differenze e adeguate contestualizzazioni, si presta a una chiave interpretativa dell’episodio della rinuncia al ministero di Vescovo di Roma, da parte di Benedetto XVI, il quale senza venire meno alla responsabilità personale della fede in Cristo, rinuncia esclusivamente al ruolo governativo, che una certa interpretazione esegetica e tradizione ecclesiale associa inscindibilmente alla vocazione. Si tratta certamente di una questione assai delicata di cui però non mancano casi precedenti nella storia dei vescovi, come il caso di sant’Alfonso. L’episodio, in ogni caso, offre la possibilità di distinguere il ruolo ecclesiale dalla vocazione personale. [3] Questa logica interpretativa del potere ci invita a cogliere l’esatta differenza tra autorità, di cui viene investito Pietro, e dominio che solitamente costituisce il modo essenzialmente umano e terreno con cui viene esercitato tale ruolo. Infatti, mentre l’autorità, così come viene intesa da Gesù, scaturisce dall’unione del mandato divino e dall’autorevole testimonianza della vita carismatica del destinatario, il dominio è spesso esercitato solo come diritto legale, legato al ruolo sociale e politico di cui si viene investito. Nella storia civile e perfino in quella ecclesiale, non mancano i casi in cui l’autorità, specie quando si è privi di autorevolezza carismatica, viene confusa ed esercitata solo come dominio sulle persone. Nel caso specifico della storia ecclesiale questa confusione assume toni relazionali conflittuali e perfino drammatici, quando il suo esercizio viene avallato da interpretazioni teologiche. Il passo evangelico invece lascia intendere che solo coloro che sono animati dalla beatitudine della purezza evangelica (cf. Mt 5, 8), possono cogliere l’autentica intenzione che Gesù ha associato a questo conferimento petrino. Il suo potere non sta nell’esercizio di un dominio, ma nella realizzazione di una comunione di vita evangelica fondata sul servizio, esattamente come lui stesso attesta, quando afferma di essere venuto per servire e non per essere servito (cf. Mc 10,45). [4] La sua esperienza ci offre l’occasione per comprendere la struttura della fede cristiana, che risulta costituita essenzialmente da due aspetti: la fede intesa come fiducia e la fede intesa come contenuto. La tradizione teologica, a partire da Agostino, esprime questi due aspetti con le formule fides qua e fides quae. La prima consiste nel porre in Cristo la massima fiducia personale, mentre la seconda consiste nel comprendere il messaggio salvifico che egli intende comunicarci. Questi aspetti costituiscono un binomio inscindibile della fede cristiana. In altre parole, la fede oltre a disporre della fiducia in Cristo, deve essere accompagnata dall’intelligenza che scruta la profondità e fa conoscere la ricchezza contenutistica della sua proposta evangelica. Se c’è una ragione che giustifica l’essenza della fede cristiana, questa sta nel riconoscere Gesù come Figlio di Dio e nel consegnarsi a lui per la salvezza.




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