27/12/2020 - Santa Famiglia - Anno B
- don luigi
- 27 dic 2020
- Tempo di lettura: 7 min
Gen 15, 1-6; 21, 1-3; Sal 104; Eb 11, 8.11-12.17-19; Lc 2, 22-40
La spiritualità della famiglia di Nazaret

Nella prima domenica del Tempo di Natale la Chiesa ci invita a meditare sulla Sacra famiglia di Nazaret. In un contesto culturale in cui la sua identità religiosa è seriamente minacciata, avvertiamo più che mai la necessità di conoscere la dinamica spirituale che la caratterizza, per porla alla base delle nostre relazioni familiari. Un compito piuttosto impegnativo, che mi limiterò, tuttavia, a tratteggiare solo a grandi linee, attraverso i brani biblici della Liturgia della Parola quest’oggi.
Di solito siamo abituati a idealizzare l’immagine della Famiglia di Nazaret e a ritenerla possibile solo perché era composta da persone virtuose e sante che disponevano di tutte le perfette condizioni della fede. In verità, da una lettura più attenta e realistica dei racconti evangelici di Matteo e Luca, emerge un profilo di famiglia che è tutt’altro. Le difficoltà che Maria e Giuseppe hanno dovuto affrontare dal momento in cui decisero di mettere su famiglia, sono davvero innumerevoli e dolorose, sia a livello personale sia comunitario. Basti pensare al fatto che Maria si ritrova incinta prima che i due andassero a vivere insieme (cf. Mt 1, 18). Una situazione morale la sua che rischiò di compromettere il matrimonio già sul nascere. Matteo è molto discreto e delicato nel descriverla, ma non può fare a meno di dire i dubbi e il dolore che una simile situazione arrecò all’animo di Giuseppe (cf. Mt 1, 19-21); senza contare poi le malevoli dicerie della gente che i due hanno dovuto subire, al diffondersi di una simile notizia. L’evangelista naturalmente non ne parla, ma non è difficile immaginarle. Giuseppe, per esempio, si sforza di contenerle e di risolverle come può, sulla base di quei principi morali e religiosi che lo rendono uomo giusto ed integro. Infatti, egli, per evitare di esporre Maria alla condanna della lapidazione, come previsto dalla legge mosaica (cf. Dt 22, 22-23), decise di ripudiarla in segreto (Mt 1, 19). E sarà solo in seguito ad una visione dell’Angelo, avuta durante il sonno, che lui avrà la luce necessaria per capire il senso di quello che gli stava accadendo. La stessa nascita di Gesù avviene in una cornice carica di avversità, dove tutto sembra remare contro: il censimento che li costringe a doversi spostare proprio quando Maria era giunta al tempo del parto (cf. Lc 2, 1-6); il ritrovarsi inaspettatamente in un luogo inospitale, privo di qualsiasi assistenza familiare che le impediva di partorire in un clima di maggiore intimità e sicurezza (cf. Lc 2, 7). Anche la notizia della nascita del figlio che avrebbe dovuto essere motivo di gioia, sembra invece scatenare sentimenti d’invidia così violenti nel re Erode, da sentirsi costretti a fuggire in Egitto, per sottrarsi alle sue minacce e lì rimanere fino alla sua morte (cf. Mt 2, 13-18). Come pure la decisione di “uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio da due anni in giù” (Mt 2, 16), che il re prende, per così dire, a scopo ‘precauzionale’, per tutelare il suo potere regale, costituisce senza dubbio un motivo di profondo dolore, di cui la giovane coppia probabilmente si sentiva responsabile. Le sofferenze non mancano neppure al momento più bello della presentazione del proprio figlio al tempio di Gerusalemme, quando il vecchio Simeone, subito dopo aver proferito parole di profondo stupore e commozione su Gesù, prefigura a Maria un evento che le avrebbe trafitto l’anima (cf. Lc 2, 34), tanto era il dolore che avrebbe provato. E come se ciò non bastasse durante il loro primo pellegrinaggio col figlio al tempio di Gerusalemme, entrambi fanno una delle più drammatiche esperienze che può capitare ad una coppia: la perdita del ragazzo per tre lunghi giorni (cf. Lc 2, 41-50).
Alla luce di queste difficoltà che emergono non senza lasciar trapelare il pudore narrativo degli evangelisti, è evidente che la nostra immagine ideale di Famiglia di Nazaret s’infrange contro una serie di problemi concreti che avrebbero messo in discussione la vocazione di chiunque di noi, ma che Giuseppe e Maria invece di considerare come motivo di crisi, vivono e interpretano come occasioni per rafforzare ulteriormente l’unità tra loro e con Dio.
Da qui alcune domande che potrebbero aiutarci a capire il segreto della loro vocazione e quella di quanti, come loro, si sentono chiamati alla stessa vita matrimoniale: come hanno fatto a rimanere fedeli alla loro chiamata in circostanze così avverse? Cosa ha consentito loro di non lasciarsi schiacciare dalle situazioni? Che ruolo ha giocato la fede in Dio nei momenti più critici della loro vita personale e familiare? Si tratta com’è evidente di domande che ci invitano ad andare al cuore della dinamica spirituale che animava le loro relazioni familiari. Noi vorremmo accostarci a questo nucleo pulsante se non altro per partecipare e gustare di quel clima di vita divina che trapela dai racconti degli evangelisti.
Per mettere a fuoco questa dinamica spirituale interpelliamo direttamente i brani biblici in questione. La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci riferisce di un’altra grande coppia della fede biblica: Abramo e Sara. I due si sa non potevano avere figli, a causa della sterilità di Sarà. Questo problema, stando alle prescrizioni della legge mosaica, poteva essere risolto solo in alcuni modi: il ripudio della moglie, così da poterne sposare un’altra; l’unione con la schiava più fidata che la moglie decideva di mettere a disposizione del marito; oppure, nel caso in cui anche il marito poteva risultare sterile, considerare erede il figlio di un proprio domestico (cf. Gen 15, 2). Abramo, benché disponesse di tutte queste possibilità non ripudia né la moglie, non considera né Ismaele – avuto con Agar – figlio della promessa, né lascia ad Elièzer la propria eredità. È chiaro che simili scelte possono essere compiute solo sulla base di una profonda e indubitabile fede in Dio. Una fede, però, per nulla scontata la sua, anzi che matura col tempo solo attraverso dolorose prove (cf. Eb 11, 17). Due furono, infatti, quelle alle quali Dio lo sottopose: la prolungata attesa del figlio, che ebbe solo all’età di cento anni, e quella più assurda e paradossale del sacrificio del figlio (cf. Gen 22, 1-19). Durante la prima, pur potendo fare diversamente, decise di rimanere fedele a Sara e al loro matrimonio, durante la seconda, nonostante l’assurda richiesta, rimase fedele a Dio e alle sue promesse. Tuttavia, sin dalla sua chiamata egli era convinto che Dio avrebbe compiuto le sue promesse, quelle cioè di avere una terra, una discendenza e infine che sarebbe diventato motivo di benedizione per tutte le famiglie della terra (cf. Gen 12, 1-3). Una fede salda, dunque, che gli garantisce di sperare “contro ogni speranza” (Rm 4, 18), di continuare, cioè, a credere malgrado tutte le avversità che sembravano precludergli al possibilità di portare a compimento le promesse di Dio.
Qual è la testimonianza che Abramo ci eredita con questa sua esperienza di fede? Probabilmente se lui potesse rivolgersi, oggi, ad una giovane coppia, la formulerebbe in questi termini: fate discernimento della chiamata di Dio e rimanete saldi alla sua promessa, anche qualora dovesse sembrarvi di “sperare contro ogni speranza” e di essere apostrofati come sognatori e irragionevoli. Se c’è una ragione che mi ha permesso di rimane fedele a Sara e al nostro matrimonio, questa non è da individuare nei miei ferrei principi morali, ma nella fedeltà a Dio e alle sue promesse. La garanzia del nostro matrimonio si fonda sul nostro “sì” a Dio, prima ancora che su quello reciproco. Un “sì” questo che va rinnovato specie quando accade di sperimentare le più assurde incomprensioni ed avversità. Personalmente non mi sono fermato davanti a niente e a nessuno, non perché sono ostinato e cocciuto, ma perché sono convinto della fedeltà di Dio alle sue promesse e ciò mi ha insegnato a perseverare e a rimanere saldo nelle prove. È vero che solo quando mi sono deciso ad accettare i miei limiti e quelli di Sara che Dio si è rivelato in tutta la sua potenza creativa, ma è anche vero che, pur facendo di tutto per avere un figlio, non sono mai giunto a considerarlo un diritto col quale sfidare la sua volontà. La totale sottomissione a lui e al suo disegno salvifico, ecco il segreto della mia fede e della mia vocazione[1].
Alla luce di questa personale e accorata dichiarazione di Abramo, con la quale mi è piaciuto presentarvela, proviamo ora ad immaginare tutte quelle giovani coppie che come Abramo e Sara, si ritrovano a sperimentare il dramma della sterilità. Quante di loro diventano vittime di quei pregiudizi religiosi che inducono a considerare la sterilità come una sorta di punizione divina? Quante cedono alla tentazione scientifica, sottoponendosi ad ogni genere di sperimentazione genetica, senza mai fermarsi a considerare se la loro sterilità è un limite naturale o un luogo in cui Dio può manifestare la sua potenza divina? Quante di loro veramente giungono a scoprire che a Dio nulla è impossibile (cf. Lc 1, 37). Quante si lasciano scarnificare proprio da simili situazioni, sforzandosi di coglierle come circostanze provvidenziali, attraverso le quali Dio intende maturarle per una fecondità spirituale? E quante si precludono di scoprire questa possibilità solo perché hanno la fretta di bruciare le loro esigenze di prole? E quante, infine, dinanzi al dono di un figlio non si limitano alla sola gratitudine, ma si rendono disponibili a riconsegnarlo a lui, come fa Maria all’atto della presentazione di Gesù al Tempio, e perfino a sacrificarlo, come farà Abramo (cf. Gen 22, 1-19), prefigurando quello che Dio farà del suo Figlio quando, per amore del mondo, lo consegna alla sua passione e morte.
L’augurio che estendo a ciascuno di voi è che queste condizioni ci aiutino a tracciare il profilo di quella spiritualità familiare che lascia intravedere, nell’oggi delle nostre relazioni ecclesiali, la vita trinitaria di Dio nel mondo, esattamente come fa la Famiglia di Nazaret.
[1] A questo riguardo consiglio di leggere la meditazione che Papa Francesco tiene nell’Udienza Generale del 28 dicembre 2016 nell’Aula Paolo VI.




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