top of page

29 Settembre 2024 - Anno B - XXVI Domenica del Tempo Ordinario


Nm 11,25-29; sal 18/19; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48





La pretesa di monopolizzare Dio


ree

“Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito perché non era dei nostri. Ma Gesù disse: non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia miracoli nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,38-40).

Questi appena letti sono versetti evangelici che presentano un’evidente affinità con quello, più antico, contenuto nel libro dei Numeri: “Mosè, signor mio, impediscili!” (Nm 11,28). A pronunciarli sono rispettivamente Giovanni e Giosuè, nei confronti di Gesù e di Mosè, quando prendono atto che alcuni seguaci, pur non appartenendo alla loro stretta cerchia di discepoli, compiono miracoli e profezie “in nome” e su “mandato” dei rispettivi maestri. Dal loro atteggiamento traspare la chiara tentazione di voler monopolizzare Dio[1], al punto da pretendere di essere gli unici a disporre della sua verità e del suo potere salvifico. Animati da questo spirito, avrebbero rischiato, probabilmente, di scadere nel fanatismo[2], se Gesù e Mosè non fossero intervenuti in tempo a mitigare i loro animi. Il loro racconto ci fa capire che si tratta di una tentazione sempre in agguato dentro di noi e nelle nostre comunità ecclesiali, come attestano, tra l’altro, anche i rilievi di Giacomo nella sua comunità (cf. Gc 3,16-4,3). Pertanto la Liturgia ci propone questi brani come occasione di verifica personale e comunitaria, soprattutto per capire in che termini possiamo evitare di cedere alla sua seduzione.  

Chi sono quelli maggiormente esposti a questo tipo di tentazione? I brani biblici in questione sono inequivocabili nel dire che si tratta di coloro che, più assiduamente, frequentano gli ambienti religiosi e sono a contatto con persone carismatiche, specie quelli non hanno raggiunto ancora un’adeguata maturità spirituale. Si tratta di neofiti, il cui significato etimologico è: nuovi nella fede, ovvero di coloro che hanno aderito da poco a un cammino religioso o spirituale e abbracciato superficialmente la dottrina che ne scaturisce. Un principiante, dunque – o per dirla in termini più religiosi – un novizio. Ciò non significa che quelli più esperti e veterani ne siano immuni. Al contrario, essa emerge ogni qualvolta, ci si sente in dovere di prendere le difese della fede, contro coloro che ne negano o combattono la verità. Il rischio più frequente a cui ci si espone, perciò, è quello di intraprendere una lotta apologetica[3], quando si tratta solo di un conflitto teologico e intellettivo; una lotta bellica, quando entrano in gioco motivi politici, culturali e soprattutto interessi economici. Dinanzi a questo estremo rimedio, a cui si ricorre spesso, quando apparentemente sembrano non esserci più altre vie d’uscita, tanto Gesù, quanto Mosè, esigono dai rispettivi discepoli, un atteggiamento diametralmente opposto. Essi non propongono la tolleranza religiosa, ma la misericordia spirituale. Poiché la tolleranza è una qualità umana che si fonda sulla capacità di sopportazione dell’altro, finché raggiunto il limite, diventa esplosiva. La misericordia, invece, fa affidamento all’infinita pazienza, comprensione, bontà e carità divina. Per questo chi la esercita è senza limiti. Costui, guarda l’altro, le sue violazioni, le sue cadute, le sue fragilità, le sue mancate responsabilità, nella luce dell’amore divino, esattamente come fanno Gesù e Mosè. Non meraviglia, perciò, l’estrema generosità con cui Mosè esercita il suo potere profetico e lo condivide con agli altri. Praticamente la stessa magnanimità esercitata da Dio nei suoi confronti: “Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: prese lo spirito che era su di lui e lo infuse sui settanta anziani” (Nm 11,25). Ben lontana dunque dalla gelosia di Giosuè e di Giovanni, che pretendevano di avere l’esclusiva dei loro maestri: “Mosè, signore mio, impediscili” (Nm 11,28); “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito” (Mc 9,38). La ragione che entrambi usano per giustificare il loro comportamento è la stessa: “perché non erano dei nostri” (cf. Mc 9,38), e non partecipano alle liturgie che vengono praticate “nella tenda” (Nm 11,26). Una descrizione estremamente chiara questa che delinea la logica di gruppo con cui, ancora oggi, viene vissuta la fede all’interno delle comunità religiose ed ecclesiali[4]. Sia Giovanni che Giosuè non riescono ad andare al di là del loro recinto comunitario e della loro mentalità religiosa. Ad essi non interessa sapere se quelli “scacciano i demoni nel nome di Gesù” (Mc 9,38) e “continuano a profetizzare nell’accampamento” (Nm 11,26), ma solo che tali poteri non vengano esercitati fuori della loro cerchia. La possibilità che quei tali hanno li indispettisce, li irrita. Da qui la decisione di proibirne l’esercizio, reclamandone l’esclusività. Si tratta di un chiaro esempio di condizionamento culturale, che ci fa capire l’incidenza della cultura sociale sulla nostra forma mentis religiosa, ovvero sulla capacità di capire e interpretare la verità di Dio e del Vangelo. Quando questi filtri o prospettive culturali vengono assolutizzati, scattano i conflitti, poiché ognuno ritiene di possedere la conoscenza totale ed esclusiva della verità.

Gesù e Mosè, invece, pur essendo oggetti della rivelazione di Dio, elargiscono senza limiti il loro potere taumaturgico e il loro spirito profetico, perciò, riescono a valicare gli steccati creati dall’invidia e dalla gelosia[5], entro i quali rimangono intrappolati Giovanni e Giosuè (cf. Mc 10,38; Nm 11,28). Costoro, infatti, si comportano come se lo Spirito dovesse essere una prerogativa esclusiva dei loro maestri e perciò cercano di impedire loro di elargirlo con troppa generosità, ma entrambi vengono apostrofati di meschinità: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo Spirito” (Nm 11,29). Nella stessa scia di Mosè si muove anche Gesù, il quale ribadisce a Giovanni: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi e è per noi” (Mc 9,39-40). Compiere opere “nel nome di Gesù” significa essere in sintonia con la sua intelligenza e volontà, col suo modo di pensare e di volere. Si tratta di una sintonia spirituale che scaturisce dall’unità con lui e col suo Spirito, tale da volere, come loro, ciò che vuole il Padre che è nei cieli. Operare nel nome di Gesù significa allora essere in comunione col Padre. Per questa ragione, chi opera a questo livello, non può pensare diversamente da lui o agire addirittura contro di lui, subito dopo aver compiuto un miracolo. Egli, come Mosè, è animato dal desiderio di rendere tutte le persone partecipi della vita divina. Per questo non pongono limiti. Il loro desiderio è quello che ciascuno abbia un cuore come quello di Dio: santo (cf. Lv 19,2), perfetto (cf. Mt 5,48), puro (cf. Mt 5,8), magnanimo (cf, Mt 25,15), ecco lo scopo della missione di Gesù e di Mosè. È questa la condizione per non scivolare nel giudizio e nella condanna degli altri. Diversamente, quando la propria conoscenza di Dio e la propria integrità morale, vengono usate come metro di giudizio dell’altro, si rischia la sua condanna, come attesta la parabola del fariseo e del pubblicano: Lc 18,10-14. Anche in questo caso, infatti, il fariseo, nel tentativo di ostentare la sua impeccabile condotta morale e religiosa, considera il pubblicano poco idoneo ad esercitare la fede, considerata a suo giudizio, un ambito riservato solo ai più virtuosi e moralmente integerrimi. Un atteggiamento quindi ben lontano dalla povertà in spirito di cui parla Gesù nelle Beatitudini, il quale non manca di ricordare di “non essere venuto per i giusti, ma per i peccatori”, perciò, “andate e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9, 13). Diversamente chi tra di noi, pur frequentando quotidianamente la comunità ecclesiale e i relativi sacramenti, non riesce a trasformare i sentimenti di gelosia, invidia, diffidenza, sospetto, rivalità in cura, attenzione, sollecitudine, fiducia, finisce col diventare un ostacolo per la propria salvezza e per quelli che, malgrado il proprio passato da peccatori, decidono di riconciliarsi con Dio. Gli orizzonti del regno sono molto più estesi di quelli delle nostre comunità. I recinti con cui pensiamo di delimitarne i confini sono in realtà dentro di noi, nella nostra ristretta mentalità culturale. Il regno è là dove lasciamo operare lo Spirito. Anche là dove le persone, pur senza dichiararsi esplicitamente cristiani, vivono secondo la coscienza modellata sullo spirito delle Beatitudini evangeliche.

“Glielo abbiamo impedito perché non voleva seguirci” (Mc 9,38), dice Giovanni a Gesù. Anche noi, come Giovanni, spesso ci ritroviamo a considerare poco credibile ed efficace il bene degli altri, semplicemente perché non “sono dei nostri” o “non seguono” le nostre le nostre idee e logiche di vita comunitaria. Ma chi sono quelli che non si conformano ai nostri schemi culturali? E perché si rifiutano di pensarla come noi e di entrare a far parte delle nostre comunità? Probabilmente perché percepiscono la nostra tacita intenzione di fare di loro dei proseliti più che degli uomini liberi. Essi si allontanano quando percepiscono che intendiamo legarli a noi più che unirli a Gesù. Ecco le situazioni che ingenerano pregiudizi ed equivoci, spesso radicati e difficili da risolvere. Quando invece siamo animati dall’amore di Dio, allora non c’è recinto che tenga. Nulla ci impedisce di soddisfare, con larghezza d’animo e generosa bontà, le varie forme di bisogno degli altri, fosse anche, come dice Gesù, un “semplice bicchiere d’acqua” (Mc 9,41). Quest’atto d’amore, per quanto piccolo e apparentemente spontaneo e naturale, non andrà assolutamente perduto. Gesù ci garantisce un’illimitata ricompensa divina. La logica dello Spirito è quella che chiunque dona per amore riceverà cento volte tanto (cf. Mt 19,29). “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”, dice san Paolo ai Corinti 9,7[6]. Ogni atto d’amore compiuto nel presente, per quanto piccolo e insignificante, diventa un seme da cui fiorisce l’eternità, dice il biblista S. Fausti.

Per fare il bene non occorre avere un’etichetta religiosa o morale, ma vivere in conformità alla coscienza. Nell’operare la salvezza lo Spirito traccia e segue percorsi che non poche volte esulano dall’ordinario cammino di fede, seguendo logiche che solo lui sa originare nei cuori delle persone. Gesù, paragonando la sua azione a quella del vento, dice che egli “soffia dove vuole e non sai da dove viene e dove va”. Solo chi “rinasce dallo Spirito” (Gv 3,8), ovvero chi familiarizza con la logica del suo amore è in grado di riconoscerlo nelle misteriose vicende della vita e nelle storie umane delle persone. 

Nonostante questa estrema prodigalità divina che Gesù elargisce senza limiti, Marco non esita a riferirci che lo stesso Gesù proferisce un giudizio durissimo contro, chiunque “scandalizza uno di questi piccoli che credono” (Mc 9,42) in lui. Per Gesù “è inevitabile che avvengano gli scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avvengono” (Mt 18,7). La loro gravità è tale che sarebbe “meglio per lui mettersi una macina di asino al collo e gettarsi nel mare” (Mc 9,43). Un giudizio che facciamo fatica a prendere in considerazione e a immaginarne le conseguenze, specie in un contesto ecclesiale come il nostro così devastato dallo scandalo della pedofilia. La salvezza per Gesù è così prioritaria e importante che, pur di parteciparla a chiunque, giunge a formulare un paradosso: è meglio entrare nella vita monco, zoppo o cieco che sperimentare il dolore della dannazione eterna (cf. Mc 9,41-48). È interessante notare che lo sguardo, le mani e i piedi ai quali fa riferimento Gesù, altro non sono che metafore per dire il modo con cui la logica diabolica, si introduce in noi e viene da noi tradotta e consumata negli scandali, nei quali coinvolgiamo anche gli altri. Se per ipotesi dovessimo usare questo criterio nel giudicare gli scandali che caratterizzano la nostra realtà sociale ed ecclesiale, verrebbe da chiedersi, con i discepoli: “Chi si potrà dunque salvare?”. Ma ancora una volta ci consola la risposta di Gesù: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (Mt 19,25.26). 


[1] Il monopolio religioso è segno di una discriminazione spirituale e culturale che si manifesta per lo più in coloro che hanno la pretesa di possedere la verità di Dio. Esso si manifesta anche a livello istituzionale, quando le autorità religiose fanno della loro conoscenza teologica, del loro potere sacro, dei loro riti liturgici, delle loro strutture e luoghi di culto un’esclusività religiosa, tale da non riconoscere negli altri nessun seme di verità. Gesù, nel corso della sua predicazione, come tanti profeti che l’hanno preceduto, ha sempre combattuto questo atteggiamento, ritenendo Dio libero da ogni vincolo istituzionale. Per lui né il Tempio né la Legge sinaitica sono eterni. L’unica adorazione di Dio autentica è quella “in Spirito e verità: così infatti vuole che siano quelli che lo adorano (Gv 4,23-24). Dio è Spirito e lo Spirito soffia dove vuole, senza essere legato a un’istituzione umana, per quanto sacra sia. 

[2] Il fanatismo religioso viene considerato dai più come uno dei principali motivi dell’intolleranza religiosa, piuttosto frequente anche nell’attuale contesto sociale e culturale. Spesso è sintomo di una rigidezza mentale, con manifestazioni intransigenti anche a livello spirituale e morale. Non di rado viene dettato dalla paura o dall’incapacità di approcciarsi alla realtà religiosa dal punto di vista dell’altro.

[3] In ambito cristiano viene definita apologetica quella disciplina teologica che specie nei primi secoli, si propose di sostenere le tesi dei propri dogmi in opposizione alle varie forme di eresia. Il suo compito è rivolto a difesa, dimostrazione o esaltazione della propria fede.

[4] È interessante notare le affinità tra le nostre comunità e quella di San Giacomo, che in questo brano sentenzia una seria condanna della prassi morale, chiaramente contraria alla giustizia. Nello specifico la sua requisitoria è rivolta non tanto ai ricchi, quanto a chi accumula senza scrupoli a discapito degli altri e a quanti pongono le proprie sicurezze in essa, al punto da rimanere indifferente verso chi invece è costretto a sfiancarsi per vivere dignitosamente la vita. La condanna, quindi, non è destinata alla ricchezza in sé, quanto a coloro che si lasciano ingabbiare dalla logica dell’accumulo che la anima. Una logica che innesca un meccanismo psicologico perverso, secondo il quale l’accumulo è il solo scopo da raggiungere, la frode è la sola legge da seguire e la strumentalizzazione dell’altro è la sola relazione da stabilire. Chi vive perseguendo solo questi obiettivi, eludendo costantemente il confronto con i principi morali, rischia di rimanere intrappolato per sempre nel suo circolo vizioso. Sforzarsi di uscire da questo cerchio significa lasciarsi interpellare dal senso della giustizia. Conformarsi a questa, poi, significa mettere mano all’aratro della conversione. Pertanto nessuna conversione si rivela è autentica e incisiva se non è mossa dalla misericordia divina: originata e fondata su di essa. Essa prevede un dono particolare: lo Spirito di Dio. La sua presenza è segno che la conversione non si fonda sulla volontà umana di cambiare, ma sulla libertà di lasciarsi trasfigurare. Lo Spirito è colui che conforma il cuore dell’uomo a quello di Dio, trasforma l’amore umano in quello divino (cf. Gv 2,1-11), ed estende i limiti dell’uomo nell’infinito orizzonte della misericordia divina.

[5] L’invidia e la gelosia sono molto spesso sintomi di una desolante ristrettezza mentale e una spaventosa insufficienza morale e spirituale. L’invidioso fa di tutto per impossessarsi dei beni altrui, di cui lui non dispone; mentre il geloso pretende di avere l’esclusività dei suoi beni, e non vuole che altri ne dispongano: quel bene, quell’amico, quel dono è mio e di nessun altro. Perciò essi si mostrano incapaci di capire l’estrema prodigalità di quanti operano ed elargiscono i propri beni secondo lo spirito evangelico di Cristo. Chi, per esempio, pur perseguendo la giustizia, non dispone di questa sconfinata magnanimità, rischia di diventare giustiziere e finisce col giudicare gli altri secondo i criteri della superbia e dell’arroganza morale.

[6] Lo Spirito manifesta la sua prodigalità in diversi gradi e forme e la sua azione è universale, pertanto non può essere circoscritta neppure dai discepoli di Cristo, tanto meno essere limitata da noi entro i confini della Chiesa. Egli è per antonomasia lo Spirito libero e liberante. Un’universalità salvifica la sua che il Concilio Vaticano II, nel tentativo di creare i presupposti per un dialogo, riconosce e qualifica la sua presenza in termini di semina Verbi, anche nelle altre esperienze religiose. Pertanto chiunque, mostrandosi docile alla sua azione, opera il bene a favore dell’uomo e ne promuove la crescita, sotto tutti i punti di vista: fisico, intellettivo, spirituale, morale è per Gesù e per la causa del regno di Dio (cf. Mc 9,40).

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page