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26 Settembre 2021 - XXVI Domenica del Tempo Ordinario Anno B

Aggiornamento: 27 set 2021


Nm 11,25-29; sal 18/19; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48


Quando la gelosia e l’invidia diventano criterio di giudizio morale ed ecclesiale

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La liturgia di oggi ci invita a riflettere sulla responsabilità morale ed ecclesiale che noi cristiani abbiamo a livello sociale. Benché la salvezza universale passi anche attraverso i misteriosi piani di Dio, la nostra testimonianza rimane insostituibile. Il senso della condotta morale ed ecclesiale, come ci ricorda ancora una volta san Giacomo, sta nel conformare la nostra vita ai principi etici della giustizia. Tuttavia nessuna morale è realmente efficace senza un’autentica esperienza di “Dio amore”, alla cui luce, e solo alla cui luce, diventa possibile cambiare concretamente la propria vita. Senza questa originaria e fondativa esperienza di Dio, la morale rischia di operare solo una trasformazione superficiale dell’uomo, limitando la relazione con Dio ai soli precetti religiosi. L’incontro con “Dio amore” si rivela perciò determinante, per una profonda trasformazione del cuore e una radicale conversione della mentalità alla vita relazionale di Dio, quindi per un’autentica testimonianza di fede.

San Giacomo si rivela con questo brano, più che in altre circostanze, un severo ammonitore della prassi immorale della vita, specie quando questa è chiaramente contraria alla giustizia. Nello specifico la sua requisitoria è rivolta non tanto ai ricchi, quanto a chi accumula senza scrupoli a discapito degli altri e a quanti pongono le proprie sicurezze in essa, al punto da rimanere indifferente verso chi invece è costretto a sfiancarsi per vivere dignitosamente la vita. La condanna, quindi, non è destinata alla ricchezza in sé, quanto a coloro che si lasciano ingabbiare dalla logica dell’accumulo che la anima. Una logica che innesca un meccanismo psicologico perverso, secondo il quale l’accumulo è il solo scopo da raggiungere, la frode è la sola legge da seguire e la strumentalizzazione dell’altro è la sola relazione da stabilire. Chi vive perseguendo solo questi obiettivi, eludendo costantemente il confronto con i principi morali, rischia di rimanere intrappolato per sempre nel suo circolo vizioso. Sforzarsi di uscire da questo cerchio significa lasciarsi interpellare dal senso della giustizia. Conformarsi a questa, poi, significa mettere mano all’aratro della conversione.

Ma nessuna conversione è autentica se non è originata dalla chiamata. Essa prevede un dono particolare: lo Spirito di Dio. La sua presenza garantisce che la conversione non si fonda sulla volontà umana di cambiare, ma sulla volontà divina di trasfigurare. Lo Spirito è colui che conforma il cuore dell’uomo a quello di Dio; trasforma l’amore umano in quello divino (cf. Gv 2,1-11), ed estende i limiti dell’uomo nell’infinito orizzonte della misericordia divina. Gesù, e Mosè prima di lui, elargiscono senza limiti questo Spirito e, perciò, riescono a valicare gli steccati dell’invidia e della gelosia, entro i quali rimangono intrappolati Giovanni e Giosuè (cf. Mc 10,38; Nm 11,28). Entrambi, infatti, si comportano come se lo Spirito dovesse essere una prerogativa esclusiva dei loro maestri e perciò cercano di impedire loro di elargirlo con troppa generosità, ma entrambi vengono apostrofati di meschinità: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo Spirito” (Nm 11,29), risponde Mosè a Giusuè. Sulla stessa scia Gesù ribadisce a Giovanni: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi e è per noi” (Mc 9,39-40). L’invidia e la gelosia sono molto spesso all’origine di una desolante ristrettezza mentale e una spaventosa insufficienza morale. L’invidioso fa di tutto per impossessarsi dei quei beni altrui, di cui lui non dispone, mentre il geloso pretende di avere l’esclusività: quel bene è mio e di nessun altro. Perciò i due discepoli si mostrano inadeguati all’estrema prodigalità con cui Dio elargisce lo Spirito. Avere un cuore secondo il cuore di Dio, ecco lo scopo della missione di Gesù e di Mosè. È questa la condizione per non cadere nella tentazione della condanna degli altri. Chi, in nome della giustizia, non dispone di questo sconfinato amore di Dio, rischia di diventare giustiziere e finisce col giudicare gli altri secondo i criteri della superbia e dell’arroganza morale, come attesta La parabola del fariseo e del pubblicano: Lc 18,10-14. Costui pensa e vive la fede come una qualità riservata solo ai più virtuosi e moralmente integerrimi. In realtà, tanto Gesù quanto Mosè, sono animati dall’unico desiderio di rendere partecipi tutti dell’amore misericordioso di Dio, in vista del quale sono disposti ad allargare i confini del perdono a chiunque ne fa richiesta e si sforza di riconciliarsi con Dio. “Non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori” dice Gesù, perciò “andate e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9, 13). Diversamente chi, come Giovanni e Giosuè, pur frequentando quotidianamente la fede non riesce a trasformare la propria gelosia, invidia, diffidenza, insicurezza, sospetto, rivalità in cura, attenzione, sollecitudine, fiducia, finisce col diventare un ostacolo per quanti, malgrado il proprio passato da peccatori, decidono di riconciliarsi con Dio. I confini del regno sono molto più estesi di quelli delle nostre comunità. Il regno è là dove lasciamo operare lo Spirito. E la sua azione esula dalla gretta mentalità con cui gestiamo le relazioni nella ristretta cerchia delle nostre comunità parrocchiali.

“Glielo abbiamo impedito perché non voleva seguirci” (Mc 9,38), dice Giovanni a Gesù, nei confronti di chi non si conforma alla mentalità del gruppo. Anche noi, come Giovanni, spesso ci ritroviamo a impedire il bene degli altri, semplicemente perché non “sono dei nostri” o “non seguono” le nostre le nostre idee. Ma chi sono quelli che non si conformano ai nostri schemi culturali e soprattutto cosa intendiamo fare di loro: proseliti delle nostre idee o discepoli di Gesù? Intendiamo legarli a noi o unirli a Gesù? Ecco le domande cruciali con le quali dovremmo costantemente confrontarci. Tutte le volte, dunque, che ci ritroviamo ad escludere gli altri a causa di un nostro un pregiudizio morale o religioso, impedendo loro l’accesso alla vita della comunità ecclesiale, è segno che siamo ancora condizionati dai sentimenti di gelosia ed invidia. Diversamente, ogni qualvolta che, animati dall’amore di Dio, ci ritroviamo a soddisfare, con generosità e larghezza d’animo, le varie forme di bisogno degli altri, fosse anche, come dice Gesù, un “semplice bicchiere d’acqua” (Mc 9,41), allora quell’atto d’amore non andrà assolutamente perduto. Gesù ci garantisce un’illimitata ricompensa divina. La logica dello Spirito è quella che chiunque dona per amore riceverà cento volte tanto (cf. Mt 19,29). “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”, dice san Paolo ai Corinti 9,7. Ogni atto d’amore compiuto nel presente, per quanto piccolo e apparentemente insignificante, diventa un seme da cui fiorisce l’eternità (cf. S. Fausti).

Lo Spirito manifesta la sua prodigalità in diversi gradi e forme e la sua azione è universale, pertanto non può essere circoscritta neppure dai discepoli di Cristo, tanto meno essere limitata da noi entro i confini della Chiesa. Egli è per antonomasia lo Spirito libero e liberante. Un’universalità salvifica la sua che il Concilio Vaticano II, nel tentativo di creare i presupposti per un dialogo, riconosce e qualifica la sua presenza in termini di semina Verbi, anche nelle altre esperienze religiose. Pertanto chiunque, mostrandosi docile alla sua azione, opera il bene a favore dell’uomo e ne promuove la crescita, sotto tutti i punti di vista: fisico, intellettivo, spirituale, morale è per Gesù e per la causa del regno di Dio (cf. Mc 9,40). Per fare il bene non occorre avere un’etichetta religiosa o morale, ma vivere in conformità alla coscienza. Nell’operare la salvezza lo Spirito traccia e segue percorsi che non poche volte esulano dall’ordinario cammino di fede, seguendo logiche che solo lui sa originare nei cuori delle persone. Gesù, paragonando la sua azione a quella del vento, dice che egli “soffia dove vuole e non sai da dove viene e dove va”. Solo chi “rinasce dallo Spirito” (Gv 3,8), ovvero chi familiarizza con la logica del suo amore è in grado di riconoscerlo nelle misteriose vicende della vita.

Di contro, chiunque “scandalizza uno di questi piccoli che credono” (Mc 9,42), difficilmente sfuggirà all’inesorabile giudizio di Dio. Per Gesù “è inevitabile che avvengano gli scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avvengono” (Mt 18,7). La loro gravità è tale che sarebbe “meglio per lui mettersi una macina di asino al collo e gettarsi nel mare” (Mc 9,43). Un giudizio durissimo questo di Gesù, che, oggi, non siamo neppure in grado di orecchiare, tanto urta la nostra fragile sensibilità psicologica. La salvezza per Gesù è così prioritaria e importante che, pur di parteciparla a chiunque, giunge a formulare un paradosso: è meglio entrare nella vita monco, zoppo o cieco che sperimentare il dolore della dannazione eterna (cf. Mc 9,41-48). È interessante notare che gli arti e l’organo ai quali fa riferimento Gesù, costituiscono i modi attraverso i quali lo scandalo si consuma in noi e nella società, impedendo la salvezza personale e altrui. Se per ipotesi dovessimo usare questo criterio nel giudicare gli scandali che caratterizzano la nostra realtà sociale ed ecclesiale, verrebbe da chiedersi, con i discepoli: “Chi si potrà dunque salvare?”. Ma ancora una volta ci consola la risposta di Gesù: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (Mt 19,25.26).

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