25 Settembre 2022 - Anno C - XXVI Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 24 set 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Am 6,1.4-7; Sal 145/146; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
Le irreversibili conseguenze delle nostre scelte di vita

Alla parabola dell’Amministratore scaltro di domenica scorsa, fa seguito quella del Ricco epulone e il povero Lazzaro dell’odierna liturgia della Parola. Due parabole che hanno entrambi per oggetto la ricchezza; tuttavia mentre la prima ne denuncia principalmente la cattiva gestione, la seconda fa luce anche sulle conseguenze irreversibili che ne derivano a livello morale e spirituale. In ogni caso, ambedue invitano a fare una scelta, a decidersi cioè per la rispettiva logica di vita che comportano. L’impossibilità di seguire contemporaneamente l’una e l’altra viene ribadita da Gesù nel seguente detto evangelico: “Non si può servire a Dio e alla ricchezza” (Lc 16,13). Entrambe generano, infatti, due mentalità diverse, decisamente contrapposte tra loro: una è caratterizzata dalla tensione verso la gratuità e la libertà, l’altra verso il possesso e il dominio. La prima invita a riporre la propria vita nella totale fiducia in Dio; la seconda induce a riporla nelle proprie risorse economiche. L’una e l’altra comportano delle responsabilità verso gli altri, delle quali occorre saperne dare ragione dinanzi a Dio.
Rispetto alla parabola dell’Amministratore scaltro quella del Ricco epulone e il povero Lazzaro ci presenta, infatti, un evidente spaccato sulla vita ultraterrena. Dal suo racconto emerge una duplice condizione di vita: di gioia e consolazione, per chi ha deciso di vivere già questa vita nella comunione con Dio; di angoscia e sofferenza, per chi ritiene opportuno fare a meno del suo amore. L’una e l’altra vengono presentate come un inevitabile esito eterno della vita terrena. Queste due condizioni sono impersonate da due figure immaginarie, descritte con un linguaggio simbolico, pieno di significati: “il ricco epulone” e “il povero Lazzaro”. Essi esprimono due stili di vita: uno dedito a lauti banchetti quotidiani, come suggerisce il termine “epulone” (dal latino epŭlo che significa “banchetto”, “convito”), l’altro viene colto nell’affannosa ricerca dell’indispensabile cibo di cui nutrirsi. Ad arricchire la descrizione di queste già evidenti differenze sociali contribuiscono anche gli elementi narrativi con cui Gesù delinea il loro stato personale: il ricco vestiva di “porpora e di bisso”[1], mentre il povero “stava alla sua porta … bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla sua tavola” (Lc 16,20-21). E come se ciò non bastasse Gesù aggiunge che il povero Lazzaro era pure pieno di piaghe, tanto che perfino i cani si accostavano a lui per leccargliele.
Malgrado queste marcate differenze sociali ed economiche la morte giunge ugualmente per entrambi, ma a ciascuno riserva un esito diverso: il povero Lazzaro viene condotto accanto ad Abramo e reso partecipe della sua stessa comunione di vita; mentre il ricco epulone si ritrova a sperimentare una condizione esistenziale completamente diversa, fatta di inquietudini morali e sofferenze fisiche. Stravolto da questa tormentata condizione di vita, il ricco, nel tentativo di lenire i suoi dolori, cerca di rimediare lanciando grida di aiuto ad Abramo, ma inaspettatamente questi gli risponde che la distanza e la differenza tra le due nuove condizioni di vita è così abissale che è letteralmente impossibile interagire. Una situazione irreversibile quella che si viene a creare, che ribalta irrimediabilmente la sorte dei due, e che ora niente e nessuno potrà più modificare. Dinanzi a questo drammatico scenario il ricco cerca invano di provvedere con un ulteriore tentativo di aiuto, questa volta, però, fatto a favore dei suoi familiari: “Allora padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli, affinché li ammonisca severamente e non vengano anch’essi in questo luogo di tormento” (Lc 16,27-28). Ma neppure questo sentimento altruistico di premura viene esaudito. Infatti Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino loro”. Inesaudito, il ricco fa appello ad un’ultima domanda, nella quale chiede l’intervento di un “testimone” che proveniente dal regno dei morti, attesti l’evidenza delle sue insostenibili sofferenze, nella speranza che egli sia persuasivo e vanga ascoltato dai suoi familiari. Ma anche quest’ennesima richiesta viene respinta: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,31).
Ne scaturisce un dibattito drammatico sul possibile destino che l’aldilà può riservare a ciascuno di noi, ma così stringente e provocatorio da suscitare domande che possono aiutarci a cogliere il senso della parabola: a chi allude Gesù col “ricco epulone”? A chi invece col “povero Lazzaro”? Tra i protagonisti, tuttavia, di questa parabola compare anche Abramo che con le sue dichiarazioni getta un fascio di luce sulle condizioni della vita ultraterrena, senza tuttavia togliere quella penombra che avvolge il suo mistero. Quelle di Abramo rimangono perciò affermazioni che ci consentono di intuire, ma non di definire esplicitamente tale realtà. Essa è e rimane oggetto di fede, nonostante l’attestazione della Risurrezione di Cristo che rimane per tutti un dato ineludibile, col quale confrontarsi. Il ricco epulone, allora, rappresenta simbolicamente quella ragguardevole parte dell’umanità che vive a discapito degli altri e del creato. La prima lettura lo identifica con l’élite della comunità ebraica che vive la ricchezza non come segno della benedizione divina, ma come forma di discriminazione sociale, e per questo denunciata aspramente dal profeta Amos (cf. Am 6,1a.4-7). La ricchezza che nella prospettiva biblica ha la funzione di creare un clima diffuso di benessere sociale, viene invece praticata per soddisfare esclusivamente il privilegio di alcuni; contravvenendo, in questo modo, a quello che è uno dei principali pilastri della fede mosaica: la giustizia di Javhè. Questo comportamento che genera squilibri e tensioni conflittuali tra le varie classi sociali, per Gesù, come per tutti i profeti che lo hanno preceduto, non è affatto privo responsabilità personale. Da qui il senso della parabola. La cattiva gestione della ricchezza esercitata dai responsabili del popolo, unita al diffuso sincretismo religioso, vengono riconosciute dal profeta Amos come due delle principali cause del disastro sociale che sfocerà nella deportazione in Babilonia, compiuta delle armate assire di Argon II, nel 722 a.C.
Di contro all’atteggiamento opulento del ricco, la parabola tratteggia, con mirabile discrezione, la figura del povero Lazzaro, che nello specifico incarna l’ideale religioso dei poveri di Jahvè, così mirabilmente descritto dal Salmo 145/146, ovvero di chi vittima delle varie ingiustizie umane e sociali, viene teneramente accolto nel “seno di Abramo”, che per il giudaismo costituisce il luogo di riposo dei “giusti”.
Il significato della parabola, tuttavia, non si esaurisce solo nella responsabilità personale e comunitaria della gestione della ricchezza, ma fa luce anche sulle conseguenze drammatiche che un perverso stile di vita, personale e sociale, può determinare a livello spirituale. Ed è proprio su questo aspetto che Gesù invita i suoi a soffermare l’attenzione, attraverso l’eloquente dialogo tra il ricco, Lazzaro e il povero Abramo, grazie al quale egli fa prendere coscienza delle estreme conseguenze a cui possono condurre le nostre scelte morali. Esse, infatti, possono determinare una distanza così abissale tra noi e Dio, da impedire ogni collegamento e vanificare ogni sforzo morale teso al bene. Pur volendo non ci si può più salvare. Non c’è più spazio per il pentimento. Più nessuna domanda e nessuna preghiera può essere esaudita. Ecco la drammatica conseguenza prospettata da Gesù che si materializza nella tragica esperienza della dannazione eterna, che è l’amara presa di coscienza di un bene a lungo denigrato, minimizzato e rifiutato e ora totalmente inaccessibile.
Si coglie così anche il senso del brano della prima lettera di Paolo a Timoteo, il quale come a voler salvaguardare il suo collaboratore da queste possibili conseguenze, lo invita ad evitare tutto ciò che impedisce o ostacola la sua testimonianza di vita e quindi ad operare la pietà, la carità, la pazienza, la mitezza al fine di combattere la buona battaglia della fede evangelica, attraverso la quale è chiamato a raggiungere la vita eterna (cf. 1Tm 6,11-12).
Questa liturgia della Parola diventa allora un monito con cui la Chiesa intende aiutarci a prendere coscienza del carattere irreversibile delle nostre piccole e grandi scelte esistenziali, spesso prese a cuor leggero o in modo negligente. In questo orizzonte le Beatitudini possono essere comprese come la chiave interpretativa di tutti i brani biblici. Esse ci prospettano la svolta evangelica da operare nella nostra logica di vita: “Beati i poveri, perché vostro è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati voi, che ora piangete, perché riderete” (cf. Mt 5,4-5; Lc 6,20-21). “Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete” (Lc 6,21.24-25). Si tratta di una svolta apparentemente discreta e insignificante agli occhi del mondo, ma se accolta può sprigionare tutta la forza trasfigurativa dello Spirito che è in noi, di quello Spirito divino che ci apre all’eternità della vita.
[1] La “porpora” è un particolare pigmento di colore rosso, di origine animale, difficile da reperire, per questo molto prezioso e costoso. I Fenici lo estraevano da i murici essiccati al sole, un mollusco piuttosto piccolo, per cui servivano migliaia di essi per ottenere un solo grammo di porpora. Tinteggiare gli abiti di questo colore significava perciò essere molto facoltosi (cf. Gdc 8,26; Est 8,15). I Romani lo usavano per tinteggiare le vesti dei senatori e ancor più il mantello dell’imperatore. È interessante notare che anche Gesù, durante la passione, indossa un simile mantello (cf. Mc 15,17-20). Il “bisso” che erroneamente viene tradotto con “lino”, è in realtà una fibra tessile di origine animale, una sorta di seta naturale, ottenuta dalla secrezione di un mollusco marino bivalvo (simile ad una cozza gigante), la cui lavorazione richiede un processo molto laborioso e delicato. Essa è stata sviluppata esclusivamente nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo, per la realizzazione di capi di abbigliamento leggeri.




Commenti