25 Luglio 2021 - XVII Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 25 lug 2021
- Tempo di lettura: 6 min
2 Re 4, 42-44; Sal 144; Ef 4, 1-6; Gv 6, 1-15
Per una mentalità eucaristica
“Diceva così per metterlo alla prova” (Gv 6,6). Un’annotazione, questa di Giovanni, apparentemente secondaria, da passare quasi inosservata, eppure così intrigante, da suscitare non poco interesse. Su che cosa Gesù decise di mettere alla prova Filippo? E perché? La risposta potrebbe aiutarci a fare luce sulla mentalità che Gesù chiede ai discepoli di acquisire, per saper leggere i segni della sua messianicità. Si tratta di una mentalità che potremmo definire eucaristica, intesa non solo come atteggiamento di gratitudine e riconoscenza nei confronti di ciò che Dio opera quotidianamente nei nostri confronti, ma soprattutto come disposizione a fare la volontà di Dio, secondo la risposta che Gesù dà ai discepoli al termine dell’episodio della Samaritana: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete … Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato a compiere la sua opera” (Gv 4,32.34).
Perché Dio fa queste cose per me e per noi? Ecco la domanda che dovrebbe sempre accompagnare la nostra riflessione di fede quotidiana. Questo genere di domanda favorisce lo sviluppo di questa mentalità eucaristica, senza la quale diventa difficile capire il senso di quello che Gesù dice e fa. La sua assenza impedisce perfino a Gesù di parlare e di operare, come fa notare Marco al termine dell’episodio nella sinagoga di Nazaret: “E lì non poteva compiere alcun prodigio … (a causa) della loro incredulità” (cf. Mc 6,5-6). Gesù dunque vuole verificare se Filippo, in qualità di discepolo, ha acquisito questo suo modo nuovo di pensare. L’evangelista Giovanni ci offre la ragione per avallare questa interpretazione. Egli infatti inserisce l’episodio della Moltiplicazione dei pani non solo nel contesto dei segni messianici, come a voler rispondere a quella esigenza, tipicamente ebraica, espressa da lui stesso nel seguente detto: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete” (Gv 4,48), ma perfino nel contesto più chiaro della Pasqua (cf. Gv 6,4). Nel testo greco originale Giovanni non parla di miracoli, ma di segni[1]. Per questa ragione il segno non viene inteso come prova dimostrativa della divinità di Gesù, ma come motivo e luogo di riflessione su di lui. Il segno, infatti, vela e svela, al tempo stesso. Per comprenderlo occorre perciò disporre di un’intelligenza intuitiva, come quella artistica o poetica, o più chiaramente, di un’intelligenza simbolica, ispirata dallo Spirito[2].
Il brano evangelico di oggi offre elementi per acquisire questo tipo di mentalità. Non si tratta solo di assistere ad un miracolo, come fa la folla, ma di cogliere il senso che Gesù intende comunicarci attraverso di esso. Il popolo vede Gesù compiere un gesto, ma non lo capisce, o meglio, gli attribuisce un significato inesatto: “Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: questi è davvero il profeta … ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte” (Gv 6, 14-15). Per il popolo il gesto di Gesù è segno del suo potere regale. Ma Gesù rifiuta questo significato, perciò si sottrae al loro tentativo di farlo re (cf. Gv 6,15).
Inoltre il miracolo dei pani viene compreso dalla folla come un modo definitivo per risolvere il problema della fame. In realtà per Gesù esso è solo un pretesto per avviare tutto un discorso sul pane eucaristico, iniziato già a partire dalle Nozze di Cana e sviluppato durante l’intero corso del Vangelo. Tutta l’esistenza evangelica di Gesù è eucaristica. Ma una simile interpretazione è possibile solo a chi condivide con Gesù lo stesso orizzonte di senso. Fuori di questo orizzonte i suoi segni rischiano di rimanere dei gesti. Giovanni con la sua lettura dei fatti ci invita ad entrare nella comunione di vita con Gesù, per acquisire la sua stessa mentalità interpretativa e così partecipare della sua salvezza.
Come si entra in questa mentalità? L’evangelista ci invita a seguire la metodologia di Gesù: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Gv 6,5) chiede a Filippo. Gesù si serve di un problema quotidiano: la fame, per verificare l’atteggiamento di Filippo dinanzi alle problematiche che essa genera quando assume proporzioni giganti, come quella indicata dal Vangelo. Non si tratta solo di soddisfare la propria fame, ma quella della gente. E simili problematiche mettono a dura prova la nostra capacità risolutiva. Filippo non ha ancora imparato ad affrontare questo tipo di problemi alla presenza di Cristo. Egli, come i discepoli nella tempesta sedata (cf. Mc 5,35-41), si affanna a tenere dritto il timone della barca, per evitare di affondare, ma non va minimamente all’idea che Gesù è con loro. Abituarsi a pensare con Cristo, questa è la conversione alla quale siamo chiamati più che mai, nell’oggi della nostra mentalità scientista. Quello di Filippo è lo stesso atteggiamento che assumiamo anche noi quando, in simili circostanze – abituati come siamo a porre la fiducia solo nella nostra ragione e intelligenza – difficilmente concediamo spazio allo Spirito per intervenire nella nostra vita. Nel mentre ci affatichiamo a trovare solo una soluzione pratica al problema, ci precludiamo la possibilità di coglierlo come un segno comunicativo della volontà di Dio. Pensiamo sempre di affrontare e risolvere i problemi solo alla maniera umana, guidati da una ragione pratica, efficentista e autosufficiente, ritenuta capace di trovare soluzione a ogni genere di problemi. Questo modo di pensare molto diffuso e praticato anche tra i cristiani, impedisce alla fede stessa di svilupparsi, ovvero di fidarci dello Spirito che in modo discreto viene incontro alle nostre difficoltà. Basti pensare all’atteggiamento nei confronti dell’attuale pandemia: per alcuni è solo un incidente di percorso, e come tale un problema da risolvere, attraverso mezzi scientifici, razionali e logistici, per altri viene colto come un segno dei tempi, rivelativo di un senso esistenziale e spirituale.
A giudicare dalla risposta Filippo dimostra di non aver affatto acquisito la mentalità del maestro: “Duecento denari di pane non bastano neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (v. 7). Egli, al pari di noi, pensa di risolvere i problemi solo con la mentalità economica. La sua risposta è molto simile a quella del servitore di Eliseo: “Come posso mettere questo davanti a cento persone?” (2Re 4,43). Entrambi fanno fatica a vedere il senso che sta dietro la richiesta dei loro maestri. Il loro è ancora uno sguardo superficiale che impedisce di riconoscere i gesti come segni. Non hanno ancora acquisito lo “sguardo simbolico” e più precisamente la “mentalità eucaristica”, di chi come Gesù vive le circostanze della vita, specie quelle più problematiche, come l’occasione per fidarsi solo del Padre.
Per giungere alla disposizione d’animo di Gesù occorre allora continuare a seguire il percorso giovanneo. Il brano evangelico infatti segue col gesto compiuto di Andrea: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma che cos’è questo per tanta gente?” (v. 9). Si tratta di un atteggiamento che come fa intendere Andrea, viene spesso snobbato, perché considerato come una forma di debolezza. In realtà è la condizione ottimale che consente a Gesù di intervenire. Proprio quando abbiamo il coraggio di riconoscere e ammettere tutta la nostra incapacità che consentiamo a Dio di intervenire e di sorprenderci con le sue soluzioni. Anche san Paolo lascia intendere di aver fatto questo tipo di esperienza quando dice: “è quando sono debole che sono forte” (2Cor 12,10). In questo senso solo quando lasciamo a Dio operare liberamente in noi troviamo le soluzioni più efficaci ai problemi. Non è solo questione di riconoscere la nostra povertà, ma di offrirla a Cristo, esattamente come fa il ragazzo del brano evangelico. Gesù chiede di imparare a fidarci di lui, come fa il bambino col padre. Ecco la mentalità filiale. Solo lui è in grado di benedire e trasformare il nulla di noi in nulla di Dio. Solo lui è in grado di fare della nostra vita un’esistenza eucaristica, capace di soddisfare quella fame di eternità che, malgrado tutto, abita ancora nei nostri cuori.
[1] Per Giovanni il termine “segno” costituisce una categoria interpretativa per comprendere l’identità di Gesù. Esso dà inizio e compimento alla sua predicazione pubblica (cf. Gv 2,1-12; 20,30-31). Tutto il Vangelo di Giovanni avviene all’interno di questa cornice. Il lettore è chiamato non solo ad assistere al loro accadimento, ma anche alla loro comprensione. In questa prospettiva Gesù costituisce il segno per eccellenza che necessita di essere interpretato. Tra i vari segni che Gesù compie ne vengono individuati alcuni, particolarmente significativi: 1) Nozze di Cana (la trasformazione dell’acqua in vino); 2) Figlio del funzionario del re (lo sviluppo della fede sulla Parola di Dio); 3) Paralitico alla piscina di Betsaida (la guarigione della volontà); 4) Moltiplicazione dei pani e dei pesci (il principio della condivisione); 5) Traversata del mare in burrasca (l’autorità su ogni forza del male); 6) Cieco nato (vedere tutto con gli occhi di Dio); 7) La risurrezione di Lazzaro (Gesù ha il potere anche sulla morte e anche noi possiamo ridare vita agli altri).
[2]Secondo Ravasi i segni hanno la funzione di ammiccare. Che significa? Per spiegarlo il Card. si rifà all’aforisma del filosofo Eraclito: “Il lume che ha l’oracolo a Delfi, dice e non dice, dice e nasconde, egli fa solo segno”. Questa “è la grande forza dei grandi messaggi religiosi e della poesia. La vera poesia non si spiega didatticamente, ma neppure nasconde completamente. Solo la falsa poesia è un gioco vacuo di parole. La vera poesia continuamente ammicca. Così è dei grandi testi religiosi. Fanno cenno. Non possono spiegare tutto, perché il mistero di Dio è imprendibile, ineffabile, infinito. D’altra parte però non vogliono neppure nascondere, perché cesserebbe la loro funzione di rivelazione, di svelamento. E allora ammiccano”.








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