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25 Giugno 2023 - Anno A - XII Domenica del Tempo Ordinario


Ger 20,10-13; Sal 68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33


Quando il Vangelo diventa motivo

di contraddizione e persecuzione



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“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28);

“Disse Geremia: … Tutti i miei amici spiavano la mia caduta. Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta” (Ger 20,10).

Sono i versetti biblici che qualificano il tema della 12a Domenica del Tempo Ordinario, tutto incentrato sulle conseguenze drammatiche a cui espone il mandato missionario, nel quale ci siamo introdotti domenica scorsa. L’annuncio evangelico, per quanto costituisca una lieta e pacifica notizia e abbia come scopo la salvezza delle persone, può essere anche causa di dissensi religiosi, sociali, culturali, politici e provocare reazioni così violente da giungere anche a forme di persecuzioni. A tal riguardo Gesù avverte la necessità di far prendere coscienza ai suoi apostoli anche dei rischi che comporta la fede alla quale stanno aderendo; e metterli in guardia dal vagliare bene i loro interlocutori. Tra di essi potrebbero esserci alcuni che pur di difendere la propria mentalità religiosa, culturale o politica potranno giungere a denunciarli ai tribunali, ai governatori e a scacciarli dalle loro sinagoghe, convinti di compiere non solo una cosa giusta, ma di rendere perfino culto a Dio (cf. Mt 10,17-18; cf. Gv 16,2). Gesù non esclude neppure la possibilità che il suo Vangelo possa diventare motivo di contrasto, di odio e di violenza finanche all’interno di una stessa famiglia (cf. Mt 10,21-22.35), come attestano le parole che fanno seguito al nostro brano: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono infatti venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 34-36).

Quella degli apostoli è dunque una missione rischiosa, tanto che Gesù per dar loro un’idea del pericolo a cui vanno incontro, la paragona a quella delle “pecore in mezzo ai lupi”. Per questa ragione essi dovranno “essere prudenti come serpenti”, ma al tempo stesso anche “semplici come colombe” (Mt 10,16). In simili circostanze la fiducia che essi dovranno porre in Dio dovrà essere così estrema e radicale da non cedere alla tentazione della paura, convinti che Dio non farà mancare loro lo Spirito, specie quando saranno chiamati a giustificare e a difendere la loro fede nei tribunali (cf. Mt 10,19-20): “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”.

Queste forme di precauzione che Gesù premette agli apostoli all’inizio del loro primo mandato missionario, potrebbero spaventare chiunque, ancora più noi, abituati come siamo a immaginare il Vangelo come una realtà pacifica, alquanto edulcorata, scevra da ogni forma di conflitto, secondo il quale ogni cosa dovrebbe essere risolta in modo irenico, bonario, accomodante, tollerante. Ignari invece, che esso costituisce una forma di lotta contro quella mentalità del mondo che facendosi interprete delle forze del male, resiste e si appone, in diversi modi e forme, alla realizzazione della giustizia di Dio. Dinanzi a una simile percezione saremmo tentati di eludere questo insegnamento estremo di Gesù, e invece lui lo rivolge agli apostoli, senza mezzi termini. Da qui la necessità da parte nostra a prenderlo seriamente in considerazione, per evitare che anche noi, presi dallo spavento, possiamo reagire dicendo: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” (Gv 6,60).

Rileggendo il brano e collocandolo nel contesto narrativo del Vangelo di Matteo, prendiamo atto, invece, che questo discorso missionario viene esposto da Gesù solo dopo aver chiamato alla sua sequela gli apostoli e averli coinvolti all’interno della straordinaria avventura evangelica, durante la quale essi hanno avuto modo di conoscere l’uditorio di Gesù, e farsi un’idea delle conseguenze a cui andavano incontro, aderendo al suo Vangelo. Inserito all’interno di questa cornice Matteo ci fa capire che lungi dal voler incutere timore, il metodo didattico di Gesù è estremamente rispettoso del percorso formativo degli apostoli e quindi anche di noi lettori. Ciò non esclude la necessità di operare una scelta decisiva prima di inoltrarsi nell’avventura evangelica.

Si tratta chiaramente di una predicazione che cozza contro la mentalità del mondo, per questa ragione essa genera conseguenze spesso spiacevole e in non pochi casi perfino violente e conflittuali. Questa è la sorte che spetta in modo particolare ai profeti, come Geremia che, suo malgrado, è chiamato ad emettere un verdetto di condanna sulla classe dirigente di Giuda a causa della sua infedeltà a Dio. Egli avrebbe voluto creare con loro una relazione amabile, annunciando cose gradevoli, come era nel suo carattere, ma la circostanza gli impone tutt’altro. È costretto ad assumere un comportamento duro, contrario alla sua indole pacifica. Per questa ragione egli viene preso di mira, calunniato e perseguitato da parte di coloro che si vedono mettere in discussione la gestione del proprio potere. Perciò essi attendono l’occasione propizia per coglierlo in fallo, per denunciarlo e prendersi la loro vendetta (cf. Ger 20,10).

È interessante notare l’affinità di questo brano con quello del libro della Sapienza, dove viene tratteggiato in modo emblematico l’identikit di coloro che detengono il potere e soprattutto della scaltrezza con cui mettono in atto le loro strategie belliche: “Tendiamo insidie al giusto, poiché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge … È diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le sue strade … Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo ad una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà” (Sap 2,12-20). Ma contrariamente alle loro attese Dio si rivela affianco del profeta, contro il quale i suoi persecutori non riescono a prevalere (cf. Ger 20,11). Egli diventa segno di contraddizione, prefigurando in questo modo le conseguenze a cui espone la missione di Gesù[1]. Il discepolo, allora, non è meno del maestro (cf. Mt 10,26): “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome … Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15, 20-22). Gli apostoli devono sapere che l’annuncio del Regno di Dio susciterà una duplice reazione: una di accoglienza e adesione, da parte dei piccoli, semplici e poveri in spirito, per i quali il Vangelo è una reale forma di libertà e salvezza; e un’altra di ostilità e rifiuto, da parte di coloro che invece gestiscono le forme di potere secondo la logica del mondo, per i quali il Vangelo appare un chiaro segno di contraddizione.

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Eccoci dunque giunti al passo specifico del nostro brano evangelico. Tra coloro che manifestano una chiara resistenza al Vangelo ve ne sono alcuni che hanno il potere di uccidere il corpo, ma non l’anima; ve ne sono altri invece che hanno il potere di uccidere sia il corpo, sia l’anima. È da costoro che il discepolo è invitato a guardarsi in modo particolare (cf. Mt 10,28). Si tratta di un linguaggio metaforico col quale Gesù intende distinguere le diverse forme di persecuzioni: quelle che si limitano alla violenza fisica e quelle che giungono anche a quella psicologica e spirituale, insinuando dubbi e sospetti tali da confondere perfino il discepolo più convinto. Qualora un discepolo dovesse trovarsi in simili forme di persecuzioni, più che mai è chiamato a “perseverare” nella fiducia verso il padre, poiché è qui il segreto della loro salvezza: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (Lc 22,28), come attesta lo stesso Gesù anche durante le sue tentazioni (cf. Mt 4,1-11). Lungi dal dubitare della presenza del Padre, il discepolo deve continuare a rimanere sotto il peso della prova, convinto che il Padre manifesterà la sua potenza al momento e nel modo opportuno. Perseverare nella prova non significa ostinarsi nella propria forza di volontà o incaponirsi nel difendere a tutti i costi le proprie idee, ma abbandonarsi docilmente all’azione dello Spirito di Dio, pronto ad aderire sempre e con gioia alla volontà di Dio, così come essa si dispiega nelle varie circostanze della vita.

In queste situazioni estreme i discepoli potranno imparare a confidare nel Padre, osservando la modalità con cui lui si prende cura anche delle creature più piccole e insignificanti, come può essere un passero. Se egli provvede alla loro vita col cibo quotidiano, quanto più provvederà alla difesa di un suo figlio nei momenti di bisogno (cf. Mt 10,29). Egli è così attento da conoscere perfino il numero dei capelli del loro capo, perciò nessun timore: i figli valgono molto più dei passeri (cf. Mt 10,30-31). Ecco la certezza incrollabile che deve animare la fede del discepolo di Cristo. La fiducia che Gesù chiede ai suoi è la stessa che lui ha nel Padre. Pertanto se è vero che le persecuzioni costituiscono una dura prova di fede, paradossalmente creano anche le condizioni per un’autentica testimonianza d’amore evangelico. Si tratta di una testimonianza decisiva. Da essa dipenderà la credibilità del messaggio evangelico. Questa è la testimonianza a cui è chiamato il discepolo di ogni epoca.

Questo brano ci permette di entrare nell’animo di Gesù e in quello dei suoi discepoli. Essi sanno che è giunto per loro un momento decisivo. Fino ad ora hanno imparato a stare con Gesù e a condividere la sua relazione d’amore col Padre; lo hanno accompagnato nella sua predicazione e assistito alla sua opera, il tutto svolto all’interno di un contesto relazionale piuttosto pacifico; ora devono dar prova di questa vita anche all’esterno, attraverso la loro prima esperienza missionaria. Si tratta perciò di un brano estremamente significativo, anche per noi, perché ci offre la possibilità di verificare lo stato e la qualità della nostra fede, e soprattutto di chiederci se anche noi siamo pronti ad essere testimoni credibili del Vangelo, ad annunciarlo e darne ragione nel contesto sociale e culturale contemporaneo, dove le forme di persecuzioni non sono quelle violente tratteggiate da Gesù, ma certamente quelle più insidiose, subdole e serpentine che hanno il “potere di uccidere l’anima”. Basterebbe guardare al clima relazionale che caratterizza la nostra vita ecclesiale, per capire la difficoltà che manifestiamo nell’interpretare e soprattutto nel risolvere la stanchezza religiosa, il relativismo culturale, il torpore spirituale, il lassismo morale, l’indifferentismo e l’individualismo relazionale che impregna ogni meandro della nostra mentalità. Quando, pur di evitare gli attriti che ogni autentico annuncio evangelico comporta, preferiamo accomodare la fede alla logica del perbenismo borghese della nostra vita, privandola di tutta la sua forza carismatica e trasfigurativa, sarà opportuno ricordarsi delle parole di Gesù: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece, mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,31-33). Parole forti che non possono non interpellare la nostra coscienza e indurci a chiedere: sono pronto a testimoniare la fede in Cristo nell’oggi della nostra vita sociale?


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[1] “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (cf. Lc 2,34-35).

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