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25 Febbraio 2024 - Anno B - II Domenica di Quaresima



Gen 22,1-2.9a10-13.15-18; Sal 115/116; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-105


La Trasfigurazione:

vedere Dio oltre il velo della prova



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Giovanni Bellini, La Trasfigurazione (1490 ca), Museo di Capodimonte, Napoli

“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un alto monte, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime” (Mc 9,2-3).

                “In quei giorni Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Abramo, Abramo! Rispose: Eccomi! Riprese: Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen 22,1-2).

                Questi due episodi biblici, apparentemente distanti tra loro, si rivelano invece intimamente connessi se consideriamo quello che Marco annota alla fine del suo racconto: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (Mc 9,9). Come a dire che l’episodio della Trasfigurazione di Gesù rischia di essere ridotto solo ad un evento spettacolare se non compreso nella luce della sua Risurrezione. E cos’è, infatti, la Risurrezione se non il compimento di quella suprema prova della “passione e morte” alla quale egli fu sottoposto; e della quale il sacrificio di Abramo ne è la prefigurazione? Riletti in questa chiave i due episodi appaiono allora intimamente collegati da un filo conduttore lungo il quale la Trasfigurazione ci appare come la seconda tappa del nostro cammino quaresimale – dopo quella della prova di cui abbiamo parlato domenica scorsa – attraverso la quale intravediamo già la realtà gloriosa della Risurrezione alla quale siamo orientati. L’idea di accostare la Trasfigurazione alla prova di Abramo si rivela, dunque, di una straordinaria intuizione teologica, che la Liturgia della Parola ci consegna quest’oggi.

Che i due episodi siano  intimamente collegati tra loro lo si deduce anche dai brani evangelici che precedono la Trasfigurazione. E ciò emerge chiaramente dalla sequenza narrativa con cui vengono disposti da Marco: la Professione di fede di Pietro (cf. Mc 8,27-30); il Primo annuncio della passione (cf. Mc 8,31-33); le Condizioni per seguire Gesù (cf. Mc 8, 34-38)[1]. Posta al termine di questa sequenza narrativa la Trasfigurazione costituisce il culmine della rivelazione: Gesù, dichiarato Messia da Pietro (cf. Mc 8,29), rivela ai discepoli l’esatta modalità con cui il Messia dovrà manifestarsi: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto” (Mc 8,31); nonché le condizioni attraverso le quali la sua identità potrà dischiudersi alla nostra intelligenza spirituale: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). La possibilità di cogliere questo intimo legame dipende, dunque, dalla nostra disposizione a “pensare come Dio”, che è esattamente ciò che Gesù chiede a Pietro (cf. Mc 8,32-33) [2]. Si tratta perciò di riconoscere la prova come condizione necessaria per giungere alla realtà gloriosa della risurrezione.

La croce è dunque la chiave interpretativa della Trasfigurazione. Essa riassume tutta la logica rivelativa di Dio, condensata nella Legge e nelle profezie messianiche, come spiegherà Gesù anche ai due discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,25-27). Si capisce allora la ragione per cui tutti i Sinottici annotano la presenza di Mosè ed Elia in questo episodio, i quali conversano con Gesù proprio sul modo con cui avrebbe portato a termine la sua passione e morte (cf. Lc 9,31)[3]. È interessante notare come questa intuizione teologica della croce, sia stata recepita anche in ambito artistico e tradotta in quella celebre opera musiva della Trasfigurazione nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, dove la figura di Cristo viene sostituita con una Croce gemmata, simbolo della risurrezione.

Ma proviamo ora a capire cosa accadde in quella circostanza. Tra i Sinottici Luca è l’unico a dirci che l’aspetto visibile di Gesù cambiò radicalmente durante un intenso momento di preghiera (cf. Lc 9,29). Ciò ci dà l’idea che la preghiera di Gesù non si limitasse ad essere solo una richiesta, come accade per la maggioranza di noi, ma fosse un dialogo intimo e profondo col Padre che sfociava in una reciproca comunione d’amore. Ancor più di Mosè, la cui la personale partecipazione alla vita divina si manifestò attraverso il volto raggiante (cf. Es 34,29-30.35), quella di Gesù si estende persino alle sue vesti, tanto da “divenirne splendenti” (cf. Mc 9,3)[4]. Una rivelazione quella di Gesù che rivoluziona il concetto classico di teofania. Non si parla infatti di un dio che appare in forma umana, ma di un uomo che si lascia totalmente impregnare della presenza divina. Il termine greco che viene usato è infatti: metamorfosi, ovvero oltre la forma. I discepoli vengono così resi partecipi di una visione che permette loro di vedere la presenza del Padre oltre la forma corporea di Gesù. Egli si fa nulla, tanto da diventare trasparenza del Padre, come dirà in seguito a Filippo: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9). Nel vedere Gesù trasfigurato gli apostoli intravedono la vita gloriosa che lui manifesterà con la sua risurrezione.

Colta in questa prospettiva la prova diventa luogo di una progressiva scarnificazione, o come dice Gesù, di un “rinnegamento” del nostro io, fino a lasciare intravedere l’io di Dio. Non basta, dunque, porsi alla sequela di Gesù e neppure riconoscerlo come Messia (cf. Mc 8,29), la conversione comincia realmente quando iniziamo a “pensare come Dio”, ovvero a condividere pienamente la logica della croce, esattamente come Gesù chiede di fare ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Mc 8,34-35). Si tratta di un modo nuovo di pensare, nel quale noi veniamo introdotti dallo Spirito, allo stesso modo con cui lo Spirito guidò Gesù nel deserto, per essere sottoposto alle tentazioni. Quello stesso Spirito guida anche la nostra conversione in questo tempo di quaresima. Il che significa lasciarci plasmare dalle prove alle quali Dio misteriosamente ci sottopone. Questa metodologia divina potrà sembrarci paradossale, ma la storia della salvezza ci insegna che Dio si serve di simili circostanze per conformare a sé coloro che ama, come ci ricorda san Giovanni nel libro dell’Apocalisse 3,19: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo”. È in questo modo che possiamo cogliere la ragione per cui anche Abramo, pur avendo aderito alla voce di Dio, fu sottoposto alla tremenda prova del Sacrificio del figlio, come attesta la prima lettura.

Questa prova subentra quando nella vita di Abramo tutto sembrava andare per il meglio: la promessa della terra e del figlio si erano realizzate e a lui non rimaneva che godere di questi doni. Ma come spesso accade in queste circostanze Abramo, senza accorgersene, cominciò a sostituire lentamente l’amore di Dio con quello di Isacco; ad attaccarsi ai doni di Dio, più che a Dio stesso. Il sacrificio del figlio diventa allora per lui una prova d’amore. “Abramo, prendi il tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco[5], va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen 22,2)[6]. Si tratta di una prova drammatica, indice di un elevato livello di maturità nella fede, nella quale Dio chiede una totale adesione a lui. Nulla può essere più anteposto all’amore di Dio, per il quale gli viene chiesto di rinnegare quello del figlio. A questo genere di prova viene sottoposto solo chi ama totalmente Dio. Fuori di questa totalità la volontà di Dio appare assurda e tirannica. Abramo vi si inoltra perché è profondamente convinto che Dio gli rivelerà la sua volontà solo dopo aver verificato questa assurda richiesta. E per farlo dovrà avere il coraggio di compiere quel folle gesto d’amore.  Egli è certo della fedeltà di Dio. E per lui è giunto il momento di doversi fidare solo di Dio, abbandonandosi solo alla sua volontà. È una prova estrema, come quella che Gesù vivrà sulla croce, quando sentendosi abbandonato da Dio, spirando, si abbandona a lui: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (cf. Mc 15,34; Mt 27,46; Lc 23,33-46). C’è una profonda affinità tra queste due prove: rinnegando l’amore del figlio Abramo dà prova di aver amato Dio sopra ogni cosa. Per lo stesso amore Gesù, ancora più di Abramo, accetta di dare perfino la propria vita. Se nel caso di Abramo la prova diventa motivo per riacquistare pienamente suo figlio, nel caso di Gesù la prova della morte diventa la condizione per aprirlo alla vita gloriosa della risurrezione. Ecco la meta pasquale che Cristo ci lascia intravedere se, come lui, siamo disposti a lasciarci trasfigurare da Dio nell’oggi della nostra prova. 

 

 


[1] È interessante notare che anche Matteo e Luca presentano la stessa sequenza narrativa nei loro Vangeli (cf. Mt 16,13-17,8; Lc 9,18-36).

[2] La mancata comprensione di questa logica rivelativa da parte dei discepoli induce Gesù a proibire loro di parlare di “ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9); lo stesso divieto che ritroviamo nell’episodio della Professione di fede di Pietro (Mc 8,30), come a voler ribadire che nessuno dei discepoli avrebbe potuto comprendere il senso pieno di quelle rivelazioni senza aver prima aderito alla logica della croce. Un vero e proprio monito per quanti, teologi e catechisti, ritengono di parlare di Cristo senza partecipare della sua sofferenza.

[3] L’apostolo Paolo traduce questa logica rivelativa di Cristo in termini di kenosi (cf. Fil 2,5-11).

[4] Come non cogliere in questo particolare una prefigurazione della trasfigurazione dell’intero creato di cui parla Paolo nella lettera ai Romani (cf. Rm 8, 19).

[5] Con una sequenza logica impressionante Dio esclude in lui ogni possibilità di equivoco: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, quello che ami, Isacco”. Dinanzi a questa progressiva precisazione di Dio Abramo non può pensare ad Ismaele, pure lui è suo figlio, ma non quello della promessa. Ismaele invece è figlio di un com-promesso.

[6] È interessante notare come la struttura narrativa di questa nuova chiamata riflette molto quella della prima. Ancora una volta ad Abramo viene chiesto di uscire: “Va’ nel territorio di Mòria”, e ancora una volta la volontà di Dio gli si rivela in divenire: “su di un monte che io ti indicherò”. Questa volta però il comando di uscire si presenta ancora più difficile da comprendere e soprattutto da attuare. Non si tratta solo di un atto fisico, ma spirituale. Nella prima volta Dio lo invitava ad uscire dalla tradizione religiosa della sua terra e dei suoi parenti, ora deve uscire invece da quella che lui stesso si è creato, e nella quale si è adagiato col tempo.

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