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25 Dicembre 2024 - Anno C - Natale del Signore


Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

La salvezza è nell’oggi della fede


Paul Gauguin, Te tamari no atua (1896),  (Nascita di Cristo - in Polinesia) Monaco, Neue Pinakothek

Paul Gauguin, Te tamari no atua (1896),

(Nascita di Cristo - in Polinesia) Monaco, Neue Pinakothek


“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).

È il versetto col quale l’evangelista Giovanni sintetizza tutto l’evento natalizio di Gesù, che Matteo e Luca descrivono invece con una serie di episodi che vanno sotto il nome di Vangeli dell’infanzia. Giovanni, rispetto ai sinottici, non si limita a usare un linguaggio narrativo, ma sviluppa una riflessione teologica decisamente impegnativa. Si tratta di una riflessione che vediamo pienamente espressa nel Prologo [1] del suo Vangelo, nel quale sono contenuti in nuce tutti i temi che poi sviluppa via via nel corso del suo racconto. Leggendolo si capisce subito che è caratterizzato da uno stile argomentativo del tutto diverso rispetto a quello narrativo del Vangelo. Qui Giovanni sembra darci un saggio della sua intelligenza spirituale, con la quale indaga il mistero insondabile di Cristo: la sua origine, la sua uguaglianza con Dio, la sua incarnazione, la sua missione salvifica, la sua rivelazione divina[2]. Noi cogliamo l’occasione come pretesto per sollecitare anche la nostra intelligenza a compiere la stessa operazione, ovvero imparare a dare ragione della nostra fede (cf. 1Pt 3,15-15).

Naturalmente non possiamo commentare l’intero Prologo, sebbene alcuni suoi temi ci sono piuttosto noti come quello del Battista precursore, che abbiamo avuto modo di considerare in queste domeniche. Altri poi sono relativi proprio al tempo liturgico di Natale, come quello della luce che splende nelle tenebre. Noi ci soffermeremo in particolare sul nostro versetto, che mette a fuoco il significato autentico e originario del Natale: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).

Prima però di addentrarci in questo mistero, ritengo opportuno un’operazione previa che consiste nel fare memoria del cammino di Avvento finora tracciato e, mi auguro, anche vissuto. In effetti la celebrazione del Natale costituisce il compimento del cammino dell’Avvento. In questo senso il suo significato diviene comprensibile a quanti hanno vissuto questo tempo liturgico come preparazione all’incontro personale con Dio, e si sono lasciati accompagnare dalle varie figure che ci hanno via via suggerito gli atteggiamenti da assumere durante il cammino. Il Natale, infatti, è un incontro personale con Cristo, come ci suggerisce la parabola delle Dieci vergini (cf. Mt 25,1-12), che attendono lo Sposo per tutta la notte (vita). Tutte e dieci attendono di incontrarlo, ma solo alcune di esse riescono ad entrare nella stanza nuziale. Il diverso esito dipende dal modo “saggio” o “stolto” con cui hanno vissuto l’attesa. Ciascuna di essa infatti dispone di una lampada (fede), ma non tutte dell’olio (speranza) sufficiente per tenerla accesa durante la notte. A cosa allude la mancanza dell’olio se non alla negligenza, alla superficialità, alla scarsa speranza con cui spesso anche noi viviamo la fede durante l’attesa. Simili comportamenti ci fanno correre il rischio di essere tra coloro di cui parla Giovanni nel Prologo: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Sembra un paradosso, ma proprio coloro che l’attendevano e disponevano dei requisiti per identificarlo, non furono in grado di riconoscerlo. La questione dunque è disporre della luce sufficiente per vedere il volto di Cristo quando viene, il che significa preparare il nostro sguardo e la nostra intelligenza a questo riconoscimento. Ma siamo disposti a questo impegno?

Vivere l’attesa in modo intelligente significa inoltre gustare la gioia della libertà che l’incontro con Cristo comporta, come ci lascia intendere l’oracolo che il profeta Isaia rivolge a quel resto d’Israele che può finalmente tornare nella propria terra, dopo settant’anni di cattività babilonese: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annunzia la salvezza” (Is 52,7).

L’attesa, specialmente quella spirituale, come abbiamo più volte sottolineato in questo periodo, costituisce un atteggiamento difficile da praticare. Condizionati, infatti, come siamo, dalla cultura contemporanea, veniamo spesso indotti a bruciare tutti i tempi e a pretendere tutto e subito. Attendere invece comporta pazienza, discernimento, abilità nel capire “cosa” e “chi” dobbiamo attendere, e quindi sapere su cosa o su chi stiamo “investendo” il nostro tempo e le nostre energie. A questo riguardo mi sembra importante il brano di Geremia 17,5-8[3], che vi invito a leggere e meditare.Molte volte sperimentiamo la vanità e l’inefficacia dei nostri investimenti, solo perché capitalizziamo su cose o persone futili, inconsistenti, illusorie. Il profeta invece invita a puntare tutto su Dio, come il garante che dà senso e fondamento a ogni nostro investimento esistenziale. Il libro dell’Apocalisse rende ancora più esplicito questo garante nella persona di Cristo, riconosciuto come l’atteso della nostra vita, invocandolo con la preghiera: “Marána tha! Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). È questo tipo di attesa che giustifica il senso dell’Avvento. I cristiani vivono la propria esistenza di fede come attesa di Cristo, nel quale trovano senso e compimento tutta la storia e il creato. Ogni attesa che esula da lui rischia di verificarsi vana.

Il Battista ci ha fatto capire che non basta attendere, ma occorre anche prepararsi a riconoscere e ad accogliere la sua persona. Lui stesso si è preparato meditando sui testi del profeta Isaia, che lo hanno aiutato a capire la sua vocazione di “voce che grida nel deserto”. Come lui anche noi siamo chiamati a proclamare la conversione, nel deserto spirituale dei nostri luoghi culturali e sociali. Anche noi, come gli astanti della sua predicazione, avvertiamo la necessità di sapere: cosa dobbiamo fare? Grazie ai suoi consigli spirituali abbiamo capito che la conversione non avviene una volta e per sempre, ma dura per tutta la vita. E anche a noi Giovanni ci ha chiesto di vivere appieno, con giustizia ed onestà, il nostro lo stato di vita, mettendo in comune i nostri beni; di non speculare sugli interessi a discapito degli altri; di non prevaricare sui deboli in forza del potere e del ruolo che occupiamo nella società. 

Maria, da parte sua, ci ha prefigurato la meta della nostra chiamata, quella cioè di essere “santi e immacolati … nella carità”, e a riconoscere questo stato di vita come quello definitivo della nostra comunione con Dio, nella quale ci introduce Cristo alla fine dei tempi. Nell’episodio della Visitazione, la cugina Elisabetta ci ha insegnato il valore della fede incondizionata di Maria nella parola di Dio, come lei stessa le riconosce al momento del saluto: “beata colei che ha creduto alla parola del Signore”.[4] La comunione di vita tra Maria e Giuseppe ci svela il segreto del Natale. Cristo nasce e rinasce là dove due o più, come Maria e Giuseppe, sono uniti nel suo nome, ovvero nel comandamento dell’amore reciproco.

Alla luce di questo excursus liturgico, proviamo ora a capire chi è il Verbo di cui parla Giovanni nel suo Prologo, e del quale oggi celebriamo la sua incarnazione[5] Egli è – come afferma l’autore della lettera agli Ebrei – il principio per mezzo del quale e in vista del quale Dio ha creato ogni cosa (cf. Eb 1,2). È l’intelligenza e la sapienza stessa di Dio, la ragione che dà senso a tutto l’universo, lo scopo che dà pienezza e compimento alla storia umana (cf. Gv 1,3). Egli è la pienezza della rivelazione divina. Pertanto, quel piano salvifico che Dio aveva comunicato, in diversi modi e forme, nel corso della storia, attraverso i profeti, trova in Cristo la sua piena manifestazione e realizzazione (cf. Eb 1,1-2). Se c’è dunque una ragione che spiega la sua incarnazione, questa sta tutta nella piena condivisione che egli ci fa dell’amore di Dio. Egli si fa uno con noi, per farci una sola cosa con Dio. Tutta la vita di Gesù è animata da quest’unico desiderio: fare di ogni relazione umana una cellula della vita trinitaria.

Celebrare il Natale significa, allora, fare memoria di questo amore eterno di Dio; e, al tempo stesso, condividere l’opera di Gesù che consiste nel continuare nella storia il suo evento incarnativo, finché Cristo non sarà tutto in noi e noi non saremo tutti in Dio. Natale è l’amore di Dio dispiegato nel mondo. Perciò è Natale là dove accade l’amore salvifico di Dio. Quell’amore che feconda le nostre relazioni umane e le rende ‘grembo ecclesiale’, capace di generare la presenza viva e vera di Cristo nell’oggi della nostra fede. Essere padri e madri di questa presenza è ciò che più di tutto attende il mondo e dà credibilità al nostro annuncio natalizio.

Auguro a ciascuno di vivere questa relazione evangelica, così da essere quel profetico “messaggero di pace che annunzia la salvezza”. È questo il messaggero che rende vivo e autentico il Natale di Cristo nel mondo.

 

 


[1] Prologo è un termine greco composto da pro = davanti e logos = discorso. Letteralmente significa “discorso introduttivo” di un testo.

[2] Una riflessione la sua che verrà in seguito definita in termini di teologia (dal greco Theos = Dio e logos = discorso), letteralmente discorso su Dio, attraverso la quale egli si sforza di capire, più profondamente che gli altri evangelisti, il contenuto della fede cristiana.

[3] Il profeta Geremia esprime in modo emblematico la capacità di fiutare il garante, specie quando l’investimento pone in gioco tutta la nostra esistenza. «Maledetto l'uomo che confida nell’uomo, / che pone nella carne il suo sostegno / e dal Signore allontana il suo cuore. / Egli sarà come un tamerisco nella steppa, / quando viene il bene non lo vede; dimorerà in luoghi aridi nel deserto, / in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. / Benedetto l’uomo che confida nel Signore / e il Signore è sua fiducia. / Egli è come un albero piantato lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici”.

[4] Ma c’è un’altra figura dell’Avvento, altrettanto importante, ma che solitamente non viene menzionata in questo tempo, se non dopo la celebrazione del Natale. Si tratta di Simeone che potremmo qualificare come l’uomo della pazienza. Egli attende fino alla fine dei suoi giorni il Signore, senza mai perdere la speranza del compimento. Egli vede compiuto il senso della sua vita e della sua attesa nell’incontro col Bambino Gesù, proprio quando questi viene presentato al Tempio. Anche Simeone viene considerato come Maria, pieno di Spirito Santo. È infatti lo Spirito ad ispirarlo e guidarlo nel Tempio, è lo Spirito a fargli riconoscere il Messia atteso nel Bambino di Maria e Giuseppe, così come è sempre lo Spirito a rivelargli la missione che egli avrebbe portato a compimento. Ancora prima del Battista che riconosce Gesù come l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, Simeone lo riconosce come segno di contraddizione e di salvezza per molti in Israele.

[5] Nella nostra grammatica il verbo indica l’azione o l’identità di un soggetto. Nell’uso che ne fa Giovanni il termine invece assume una gamma piuttosto vasta di significati come: discorso, parola, ragione, senso … gli stessi della lingua greca, dalla quale lui attinge il termine.

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