25 Dicembre 2023 - Anno B - Natale di nostro Signore Gesù Cristo
- don luigi
- 24 dic 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
Il Natale di Cristo
La novità della sua vita filiale

“E il Verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi; / e noi abbiamo contemplato la sua gloria, / gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre / pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
In un solo versetto – formulato per altro con un linguaggio teologico altamente poetico – Giovanni sintetizza tutto il racconto della nascita di Gesù, alla quale Luca e Matteo dedicano interi capitoli dei loro Vangeli (cf. Lc 1-2; Mt 1-2)[1]. L’affermazione che viene fatta in questo testo è tanto più audace quanto più viene messa in relazione ai primi versetti del Prologo[2], dove Gesù viene confessato con l’appellativo del “Verbo di Dio” e per questo gli viene riconosciuta una preesistenza divina, pari a quella di Dio, che Giovanni esprime con la formula “Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (cf. Gv 1,1). Un autentico scandalo, se si considera che questo Verbo decide, poi, di farsi non solo uomo, ma di assumere addirittura la “carne” umana, fino ad “abitare” da uomo “in mezzo agli uomini”.
Mi sono sempre chiesto come mai la Chiesa, tra i vari brani evangelici propri della liturgia del Natale, decida di proporre anche un testo così impegnativo come il Prologo di Giovanni. Non è forse esigere troppo da quei fedeli abituati a un tono più narrativo e descrittivo del Natale? Eppure essa, in qualità di madre audace, non si sottrae all’idea di chiedere ai propri figli un passo certamente più grande e rischioso, ma anche estremamente importante, pur di introdurli nella maturità nella fede. Pertanto essa sembra manifestare in questo modo, il desiderio di stimolarli all’intelligenza della fede, con la quale indagare le profondità del mistero di Dio e, in questo caso specifico, quello della sua Incarnazione. Un mistero questo al quale già domenica scorsa abbiamo avuto modo di accostarci e verificare come affondi le sue radici nella millenaria storia della rivelazione biblica, attraverso quei brani che ne tracciano il percorso che va dall’intuizione profetica di Davide (cf. 2Sa 7,1-5.18b-12.14a.16), fino alla sua reale attuazione nel grembo di Maria (cf. Lc 1,26-38)[3]. In questa prospettiva il nostro brano giovanneo sembra contribuire non solo a focalizzare la nostra attenzione sull’evento dell’Incarnazione, ma a capire anche cosa comporta per la nostra vita umana? Quali cambiamenti nel modo di pensare Dio e l’uomo ci propone? E soprattutto quale tipo di relazioni interpersonali esso ci invita a instaurare? Si tratta allora di operare una vera e propria metanoia, nel senso più originario del termine, ovvero di cambiamento di mentalità, a tutti i livelli: religioso, spirituale, intellettivo, morale, culturale, relazionale, sociale. Va da sé allora che il Natale non può più ridursi ad una semplice celebrazione liturgica, benché meno ad una festa pubblica, più o meno condivisa a livello culturale e sociale. Esso comporta invece un vero e proprio modo nuovo di concepire e vivere la vita, all’insegna di quella divina rivelataci da Cristo, che come afferma l’evangelista Giovanni, costituisce la ragione per cui noi siamo stati creati: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto tutti ciò che esiste” (Gv 1,3). Questa ragione costituisce il senso pieno e autentico della vita umana: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Si comprende allora che quando parliamo di Incarnazione del Verbo non intendiamo limitarci solo al momento del suo concepimento nel grembo di Maria, tanto meno a quello della nascita, ma a tutto quel percorso umanistico che Cristo ha compiuto durante l’arco della sua esistenza storica: dal suo concepimento fino alla sua Ascensione al Cielo. Pertanto, anche noi credenti, nella misura in cui aderiamo, come Cristo, al piano salvifico di Dio, siamo chiamati a continuare nella storia il suo processo incarnativo, finché Dio sarà tutto in tutti (cf. 1cor 15,28).
Ma in cosa consiste questa vita nuova rivelataci da Cristo? Anche in questo caso Giovanni si rivela estremamente illuminativo quando dice che: “A quanti accolgono Cristo e credono nel suo nome, egli dà il potere di diventare figli di Dio, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). Per Giovanni questo mistero filiale divino costituisce il cuore pulsante della vita nuova in Cristo, tanto da ribadirlo anche nella sua prima lettera, quando dice: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente … Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,1-2). In altre parole quella vita divina che Cristo ha realizzato nella sua umanità, nella sua carne, diventa per noi un autentico luogo di salvezza. Ecco allora la novità della rivelazione di Cristo: creare tra gli uomini la stessa vita filiale che lui intesse col Padre e che Giovanni definisce come vita di “grazia e di verità” (cf. Gv 1,14). Questa straordinaria novità è quella che lui ha inaugurato a partire dalla sua nascita, realizzata in seno alla sua famiglia, condivisa con i suoi discepoli e predicata col suo Vangelo, non a caso definito Buona novella.
Ma eccoci giunti al punto nevralgico della nostra argomentazione, che ora permettetemi di precisare con alcune domande oneste e franche: questa vita filiale di Cristo è ancora una novità per noi cristiani? Quanti di noi riescono a intuire lo spessore spirituale che essa comporta per la nostra vita relazionale? Per quanti di noi questa vita filiale costituisce effettivamente una luce capace di risignificare la propria esistenza? Quanti di noi osano inoltrarsi in quest’avventura divina, vivendo veramente da figli di Dio; abbandonandosi, cioè, fiduciosamente nelle sue mani, convinti che egli non ci abbandona neppure nelle circostanze morali ed esistenziali più incresciose e disperate? Ma che senso hanno queste domande per quei cristiani che, appagati dal benessere, si lasciano annichilire la mente al punto da non avvertire neppure più il desiderio di essere salvati da Cristo? Non risiedono forse in questa mentalità borghese e liberale, le ragioni che ci impediscono di cogliere la novità della vita filiale di Cristo? Senza volerlo queste domande sembrano tracciare un po’ il profilo del contesto sociale e religioso del popolo ebraico che annichilito dalla mentalità culturale babilonese, alla quale si era perfettamente conformato durante l’esilio, faceva fatica a cogliere la novità proclamata dal profeta Isaia: “Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, / messaggero di bene che annunzia la salvezza” (Is 52,7). Avvertiamo perciò quanto mai attuale l’esortazione di Paolo ai Romani: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). È alla luce di questa rinnovata sensibilità spirituale che saremo in grado di cogliere la sollecitazione di Isaia: “Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con i loro occhi il ritorno del Signore in Sion. / Prorompete insieme con canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo braccio santo … tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” (Is 52,8-10).
Senza questa rinnovata sensibilità spirituale sarà difficile percepire le ragioni che motivano quella gioia profonda che dimora nel cuore del salmista quando grida: “Cantate al Signore un canto nuovo, / perché ha compiuto prodigi … / il Signore ha manifestato la sua salvezza. / Egli si è ricordato del suo amore, / della sua fedeltà alla casa di Israele … / Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate di gioia” (Sal 97). Come non comprendere in questa luce la gioia di Maria, così mirabilmente espressa nel Magnificat (cf. Lc 1,46-55). È questa la novità che, oggi, più che mai, siamo chiamati a riscoprire, se vogliamo ridare senso alla nostra celebrazione del Natale. Qui è il segreto che origina la gioia della salvezza nell’oggi della nostra fede.
Pertanto l’augurio che vi formulo è che ciascuno di noi possa sentirsi ripetere le parole di Dio a Cristo: “Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato” (Eb 1,5).
[1] I due rispettivi capitoli sono comprensivi anche di tutti i racconti relativi all’infanzia di Gesù.
[2] In realtà tutto il Prologo, dal quale questo versetto è tratto, costituisce un preludio ai temi che Giovanni sviluppa poi successivamente nell’arco del suo Vangelo. Una sorta di stile sinfonico, tipicamente giovanneo, dove i temi teologici vengono accennati, ripresi, sviluppati e conclusi secondo il metodo circolare della riflessione sapienziale orientale.
[3] Un periodo storico profondamente caratterizzato da un senso di attesa, che si distende lungo un arco di tempo di circa mille anni, se consideriamo che Davide è vissuto tra l’XI e il X secolo a.C. e Maria nella seconda metà del I secolo; durante il quale gli ebrei hanno progressivamente preso coscienza dell’arrivo di una figura, piuttosto misteriosa, che viene qualificata in termini di Messia (Unto di Dio), ovvero di un uomo totalmente consacrato a Dio che avrebbe condotto il popolo alla libertà e quindi alla salvezza. In realtà l’attesa del Messia comincia alcuni secoli prima, e precisamente al tempo di Mosè (XIII e XII circa), quando egli formula una profezia che troviamo nel libro del Deuteronomio: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me, a lui darete ascolto” (Dt 18,15). Alla luce di questa profezia, sembra chiaro che Mosè, per quanto sia consapevole di aver svolto un ruolo determinante nel condurre il popolo di Dio verso la libertà, intuisce che la sua liberazione era solo prefigurativa di quella salvifica operata in seguito da Cristo, preannunciato e riconosciuto da lui come il vero Profeta a cui dare ascolto. Con Cristo, infatti, quella promessa salvifica, così tanto attesa dal popolo, trova il suo definitivo compimento, come attesta la visione del vecchio Simeone, nella quale Gesù viene salutato come il Messia atteso (cf. Lc 2,34). Questo riconoscimento ci consente di affermare che quella salvezza che per gli ebrei è ancora da venire, viene esperita già nella persona storica di Cristo. Pertanto noi cristiani, celebrando il Natale, non solo facciamo memoria dell’evento con cui Dio si è fatto uomo - ha assunto la nostra stessa carne e condiviso tutto quello che essa comporta - ma affermiamo anche che l’umanità di Gesù costituisce un autentico luogo di salvezza, per chiunque lo riconosce come Dio. Ecco la straordinaria novità dell’annuncio natalizio.




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