25 Dicembre 2022 - Anno A - Natale di nostro Signore Gesù
- don luigi
- 24 dic 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
Tu sei mio figlio; oggi, io ti ho generato

La celebrazione del Natale porta a compimento il cammino dell’Avvento. Molti brani biblici hanno scandito il tempo liturgico di queste quattro domeniche, durante le quali abbiamo avuto modo di incontrare e conoscere da vicino figure come: Isaia, il Battista, Maria, Giuseppe, Giacomo, Paolo, i quali ci hanno aiutato non solo a leggere i segni della presenza misteriosa di Dio nella nostra storia personale e comunitaria, ma anche fatto conoscere più da vicino atteggiamenti come: l’attesa, l’ascolto, il dubbio, la vigilanza, la pazienza, la certezza, il silenzio attraverso i quali si è dischiuso il loro cammino di conversione. Atteggiamenti che in alcuni di loro hanno assunto perfino livelli estremi, lungo i quali è oscillata la loro fede e magari, oggi, oscilla anche la nostra. In ogni caso queste figure, con le loro testimonianze, ci hanno accompagnato e indicato la meta, fino alla Capanna, dove nella silenziosa notte della loro e della nostra fede, più che mai, si è dischiuso il senso della Parola vivente di Dio in mezzo a noi.
Al termine di questo cammino avvertiamo, ora, l’esigenza di fare un bilancio, per verificare se c’è stato o meno un eventuale progresso spirituale. Da qui qualche domanda tesa a favorire la nostra riflessione: cosa è cambiato in noi e intorno a noi rispetto all’inizio dell’Avvento? Quanto ha inciso l’ascolto della Parola di Dio nella nostra vita? Durante questo tempo liturgico hanno prevalso di più i dubbi, i pregiudizi e i condizionamenti culturali e sociali, oppure gli atteggiamenti religiosi come la pazienza, l’accoglienza, la vigilanza, il silenzio, la speranza? Spesso abbiamo sentito dire che l’Avvento è un tempo di attesa, ma qual è stato realmente l’atteggiamento con cui ci siamo predisposti a vivere questo tempo liturgico? Chi o cosa abbiamo concretamente atteso durante questo periodo? Quante di queste attese sono andate compiute e quali invece sono andate deluse? Se dovessimo qualificare con un aggettivo l’attuale stato della nostra esistenza, diremmo di essere appagati, soddisfatti e felici, oppure sfiduciati, pessimisti e scoraggiati? Cosa determina o può aver determinato, l’uno o l’altro esito? È nelle nostre possibilità migliorare il livello della vita spirituale ed ecclesiale dove viviamo abitualmente, oppure demandiamo tutto al nostro messia di turno? Personalmente quanto spazio concediamo alla grazia di Dio nelle scelte della vita quotidiana?
La possibilità di lasciarsi interpellare da queste domande rivela la qualità della nostra fede e il nostro reale desiderio di progredire in essa. Pertanto, invece di scadere in facili accuse o inutili rimproveri per quello che avremmo dovuto e potuto fare e non abbiamo fatto, è opportuno chiedersi se disponiamo ancora di qualche residuo desiderio di varcare la soglia di questo mistero così straordinariamente grande e abissale qual è appunto l’Incarnazione del Verbo di Dio, come lo definisce Giovanni nel Prologo del suo Vangelo, quando dice che: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,14), e soprattutto verificare se siamo ancora disposti a lasciarci inondare dalla sua luce, così carica di senso per la nostra vita.
Probabilmente molti di noi preferirebbero ancora continuare a evocare quel clima magico e incantevole che con una certa nostalgia siamo soliti ricreare in queste feste natalizie, come ciò che, più di tutto, ci fa sentire il calore delle nostre tradizione religiose; ma la realtà è ben altra e ci inchioda tutti nella drammatica e attuale situazione sociale ed ecclesiale, nella quale ci scopriamo spesso stanchi, sfiduciati, scoraggiati, un po’ come il popolo d’Israele in esilio, bisognosi anche noi di un profeta che ci annunci la liberazione, tanto agognata. Eppure basterebbe uno sguardo più attento e sensibile per accorgerci che il nostro profeta è già qui in mezzo a noi, anzi come uno di noi, così vicino da non percepirne neppure la presenza, tanto discreta è la sua attività. Dopo tutto lui è abituato a rivelarsi nel silenzio e occorre fare molta attenzione per riconoscerne i segni e il linguaggio. Giovanni parla di lui come di un Dio che “nessuno ha mai visto” (Gv 1,18), ma che ansioso di rendersi visibile ha deciso di assumere perfino la carne e il corpo di un bambino, così normale e piccolo, da passare quasi inosservato. Con un solo versetto l’evangelista ci introduce immediatamente nel cuore del suo mistero: “E il Verbo si fece carne”. Quella di Giovanni non è solo una verità di fede, ma l’annuncio di un evento, di un accadimento storico, al quale ci siamo terribilmente assuefatti da non avvertirne più la straordinaria novità. Un evento nel quale Dio ha deciso di venire a vivere tra di noi e di farlo in condizioni di estrema precarietà, come un nomade, o se vogliamo come un migrante; abitando in una tenda, come suggerisce il seguito del versetto: “e venne ad attendarsi in mezzo a noi” solitamente tradotto con: “e venne ad abitare”. Viene allora da chiedersi: come mai questa singolare notizia non ci stupisce più di tanto? Perché non ci interpella più? Perché non ci lasciamo più entusiasmare, nel senso più originario del termine. Contrariamente all’opinione comune, infatti, l’entusiasmo non si riferisce alla semplice eccitazione momentanea, ma è qualcosa di molto più profondo. È sentirsi impregnati di una forza divina, come dice il termine stesso (dal greco en = dentro e theos = Dio), che letteralmente significa “essere dentro Dio” o “avere Dio dentro”. E cos’è il Natale se non l’evento con cui Dio si fa Emmanuel = Dio con noi. Egli viene a vivere in noi e tra noi, affinché noi possiamo vivere in lui e con lui.
Una riflessione questa che rischia di apparire avulsa dalla realtà, specie per noi che siamo abituati ad un realismo materiale, per cui tutto ciò che è spirituale o che non ha un immediato risvolto sociale e utilitaristico, viene considerato irreale e astratto.
Viene perciò da chiedersi: cosa ha determinato in Dio questa scelta di passare da una forma di vita “onnipotente ed eterna” come la sua, a quella di “una umanità fragile e mortale”, come la nostra. Chi tra di noi oserebbe passare da uno stato di vita sociale superiore ad uno inferiore? Cosa allora può aver motivato in Dio una simile scelta di vita, se non quella dell’amore? Chi ama condivide con l’amato la sua essenza. E cos’è Dio se non Amore (cf. 1Gv 4,16). Cos’è in ultima analisi l’Incarnazione di Dio se non farsi dono per amore? Dio decide di uscire fuori dal suo silenzio per condividere il suo amore personale con me, con te, con noi. Ed è qui che ha origine della nostra storia salvifica, la nostra avventura divino-umana. Se c’è dunque una ragione che spiega il senso del Natale questa è l’amore. Ecco la grande notizia “del messaggero dei lieti annunzi, … messaggero di bene che annunzia la salvezza” (Is 52,7). Questa è la novità che ha permesso ad Isaia di andare al di là delle “rovine di Gerusalemme” (Is, 52,9), di aiutare Israele a vedere oltre la sua tristezza e di condurre il popolo alla gioia con l’imminente notizia della salvezza. E questa è anche la notizia che ha impresso in modo definitivo, in noi, nel mondo, nella storia, la speranza che ci fa guardare oltre ogni circostanza drammatica della nostra vita.
Dio sussurra, come è suo solito, questo tipo di notizie nel silenzio della notte, ovvero nei luoghi più reconditi e misteriosi della nostra coscienza, ed è là che essa va accolta se intendiamo recuperare il senso originario del Natale e ritrovare le ragioni autentiche della nostra fede. La rivoluzione dell’amore originata dal Natale ha due segreti, che solo i “poveri in spirito” possono scoprire. Segreti che Gesù esprime con due parabole: quella del chicco di grano e quella del granello di senape. Il primo consiste nel morire a noi stessi, esattamente come fa Dio al momento dell’incarnazione: egli muore alla sua divinità per condividere le sorti della nostra umanità. Il secondo consiste nell’assumere lo stile di vita del servo, ovvero delle persone apparentemente insignificanti, esattamente come fa Gesù, che senza clamore imprime in ciascuno di noi quell’amore silenzioso, capace di rinnovare il mondo dal di dentro.
Se vogliamo essere credibili, nell’oggi della nostra cultura, allora, occorre che noi cristiani, come ha fatto Gesù prima di noi, facciamo vedere e sentire la bellezza dell’amore di Dio. In lui l’amore si vede, si dice, si fa. Solo l’amore è credibile (von Balthasar). L’amore, come la bellezza, è capace di provocare attrazione per l’altro, per il mondo e suscitare il desiderio per la sua salvezza. Solo così possiamo tornare a gridare ancora una volta col profeta Isaia: “Senti? Le sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con i loro occhi il ritorno del Signore … Prorompete insieme in canti di gioia” (Is 52,8-9).
Il Natale è scoprire che lo Spirito di Dio, lo stesso che ha operato in Maria, è venuto a fecondare il nostro spirito e a generare Dio in mezzo a noi. Natale accade quando lasciamo che Dio ripeta in ciascuno di noi: “Tu sei mio figlio; oggi, io ti ho generato” (Eb 1,5). È nella sua filialità divina che noi diveniamo “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). E quando la nostra testimonianza diventa viva e autentica ci sarà qualcuno che dirà di noi: “Dio, che aveva già parlato nei tempio antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato al mondo per mezzo del suo Figlio dentro di noi e in mezzo a noi” (cf. Eb 1,1-2).
L’augurio, dunque, è che ciascuno di noi diventi quella tenda di cui parla Giovanni, dove Dio trova dimora e riparo in mezzo. Facciamo festa perché ancora una volta è Natale, e ancora una volta, malgrado tutto, Dio non si è stancato di noi.
Auguri e buona meditazione




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