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25 Aprile 2021 - IV Domenica di Pasqua Anno B


At 4,8-12; Sal 117/118; 1Gv 10,11-18; Gv 10,11-18


Un Pastore secondo il cuore di Dio




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Nella quarta Domenica di Pasqua la Chiesa ci propone di rileggere, alla luce della Risurrezione, il discorso di Gesù sul Buon Pastore (cf. Gv 10,11-18), come a voler dirci che, proprio grazie a questo evento, Cristo è stato riconosciuto e confermato tra gli uomini, quale guida sicura per chiunque decide di conseguire in lui la salvezza. Pietro, in qualità di testimone oculare e diretto destinatario della salvezza, si fa portavoce di questa straordinaria esperienza personale, asserendo che Gesù è la “pietra che scartata dai costruttori, è divenuta testata d’angolo”, ovvero l’unico nome in cui c’è salvezza: “non c’è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (cf. At 4,11-12). In questa prospettiva l’immagine del Buon Pastore si rivela carica di simbolismo teologico e assume una portata antropologica di notevole spessore, per gli uomini e donne di ogni epoca. Essa esprime la missione di Gesù nel mondo, quella cioè di condurre tutti alla salvezza. Con la sua risurrezione, infatti, Cristo inaugura, nel mondo, una nuova prospettiva di vita: quella divina e intesse tra gli uomini le stesse relazioni trinitarie che lo costituiscono.

Si rivela perciò estremamente significativa l’associazione di questa immagine di Gesù, con quella che Pietro (e con lui gli apostoli) si ritrova a svolgere all’interno della prima comunità cristiana, e che la liturgia della Parola ci sta proponendo attraverso la lettura continuata degli Atti, durante queste domeniche di Pasqua. Col Discorso che egli tiene davanti al sinedrio (cf. At 4,8-12), dimostra di aver portato a termine tutto quel processo di conversione che lo ha condotto ad assumersi la responsabilità della prima comunità cristiana, come Cristo gli aveva lasciato intendere al momento della chiamata (cf. Gv 1,42) e poi espressamente preannunciato a Cesarea di Filippo (cf. Mt 16,18). Il passaggio di testimone da parte di Cristo è avvenuto. Ora è lui il pastore delle pecore, esattamente come Cristo gli aveva personalmente comandato all’indomani della risurrezione: “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,16). Un mandato, questo, di fondamentale importanza per chiunque, in diversi gradi e forme, si ritrova nella Chiesa ad ereditare la responsabilità della guida e del governo del popolo di Dio.

Ritengo perciò molto importante che ciascuno di voi mediti, tenendo insieme, queste due immagini di pastori: quella di Cristo e quella di Pietro. L’una non può sussistere senza l’altra. Senza giustapporle, ma integrandole l’una nell’altra. In Pietro infatti è Cristo stesso che guida la sua Chiesa. Per Cristo invece è Pietro che ora deve operare nel mondo. La delega che Cristo compie nei suoi confronti è tale che tutto ciò che Pietro (e chi per lui) “lega sulla terra, sarà legato anche in cielo, e tutto ciò che egli scioglie in terra, sarà sciolto anche in cielo” (cf. Mt 16,19; 18,18; Gv 20,23). In Pietro Cristo opera non più alla maniera umana, ma in quella più discreta e misteriosa dello Spirito. Egli non è più visibile fisicamente e tuttavia la sua nuova forma d’esistenza non è meno reale di quella terrena. Tra Pietro e Cristo sussiste un’intesa di tipo spirituale, comprensibile in termini di comunione e realizzabile solo nell’alveo di quell’amore voluto da Cristo: “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21,15). Fuori di questo amore, come ha giustamente intuito il Patriarca Atenagora: “la Chiesa è una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda”. L’amore costituisce la chiave di lettura per capire la figura e la missione del Buon Pastore. Esso ci consente di addentrarci nell’essenza del suo ruolo, nell’esercizio della sua funzione e soprattutto di coglierlo nella giusta cornice teologica, che va al di là di ogni sua interpretazione politica, senza tuttavia escluderla. Solo chi è disponibile ad ereditare l’amore di Cristo si rivela idoneo – conforme cioè alle sue intenzioni – a svolgere questo esercizio nella Chiesa. Solo chi si fa interprete della volontà di Cristo diventa “pastore secondo il cuore di Dio” (Ger 3,15).

Ma proviamo ora a mettere a fuoco questa figura: la sua essenza, il suo ruolo, la qualità di potere che egli è chiamato ad esercitare nella Chiesa e nel mondo e soprattutto ad individuare le caratteristiche che la distinguono dal mercenario. Anche se la persona del pastore ci sembra alquanto anacronistica, il suo termine è ancora piuttosto diffuso e sembra prestarsi ancora bene a spiegare il senso di quel ministero che, al di là di tante incomprensioni, difficoltà e limiti, si rivela determinante per il governo, la guida e la salvezza del popolo di Dio nel mondo. Non sembra invece aver perso attualità la figura del mercenario, ovvero di chi cerca in tutti i modi di trarre guadagno da tutto ciò che fa, e quindi di chi, in modo spregiudicato, per motivi pratici, politici, individualistici, economici ed edonistici, è disposto a rinunciare a tutto, perfino alla propria moralità, spiritualità e libertà. Egli strumentalizza tutti e tutto in vista del suo fine e interesse personale.

Qualificate in questi termini le due figure appaiono piuttosto distinte. Non sempre invece è facile ed immediato riconoscerle nella vita quotidiana, specie quando si tesse con loro un rapporto interpersonale molto stretto. Non poche volte, infatti, accade che dietro il vello di un premuroso pastore si nasconde un vero e proprio mercenario, come è accaduto e purtroppo ancora accade, nei casi di pedofilia, da parte di non pochi preti. Naturalmente sotto questo aspetto il discorso andrebbe esteso a tutti gli ambiti della vita umana, nessuno escluso, anche se, ipocritamente, si tende, oggi, ad evidenziare solo quelli nella Chiesa.

Da qui la necessità di sviluppare quei criteri che ci consentono un sano discernimento. Entrambi, dunque, si ritrovano ad avere a che fare con le persone, ma diverse sono le intenzioni, differenti gli scopi e i modi che li conducono a stabilire relazioni.

Nello specifico cristiano ciò che qualifica l’identità di un pastore, in primo luogo, è la consapevolezza dell’origine divina di questa sua responsabilità nella Chiesa. Egli non opera in vista di sé o in nome della sua volontà, ma per Cristo e per il bene della sua Chiesa. Egli è chiamato a continuare nel mondo la stessa opera di Cristo (cf Gv 20,21; 5,19-47). Il suo è un mandato di origine divina (cf. Mt 16,18-19) e come tale sa che il Vangelo è per lui la prima causa da sposare nella vita e durante il suo ministero. Tale ministero è in vista della salvezza e questa ha una dimensione fondamentalmente ecclesiale. Il pastore non si salva da solo, in virtù delle sue conoscenze e meriti, ma insieme a coloro che Dio stesso gli affida. Egli fa sua la stessa preghiera di Cristo: “Io prego per loro … per quelli che tu mi hai dati, perché siano tuoi” (Gv 17,9); e “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una sola cosa” (Gv 17,20). La comunione che egli è chiamato a realizzare nella Chiesa e nel mondo, non si limita solo alla dimensione spirituale, ma va estesa anche a quella economica e culturale, secondo le disposizioni della prima comunità dei cristiani, descritta negli Atti degli Apostoli, dove tutto veniva messo in comune in vista delle esigenze di ciascuno (cf. At 2,42-48) e in vista della promozione e dello sviluppo della comunità ecclesiale.

Come Cristo, egli stabilisce con ciascuno un rapporto personale e la conoscenza che ne scaturisce è la stessa che sussiste tra quella sua e Cristo e tra Cristo e il Padre (cf. Gv10,14-15).

In questo orizzonte d’amore si capisce la sua disponibilità a dare la vita per gli amici, secondo il comandamento dell’amore di Cristo (cf. Gv 10,15; 15,13). La disponibilità assume una tale radicalità che egli, pur custodendo la vita come il dono più prezioso, è pronto a donarla, perfino a quanti tentano violentemente di strappargliela: “Io do la mia vita … nessuno me la toglie, ma la do da me stesso” (cf. Gv 10,17-18).

Il pastore ha cura non solo di quelli che gli sono stati affidati all’interno della Chiesa, ma anche di coloro che per diversi motivi, si ritrovano a svolgere nel mondo una vita che è tutt’altra da quella evangelica, di coloro cioè che non appartengono alla Chiesa e vengono considerati “lontani”. Anche per queste persone egli nutre la stessa premura e attenzione, educandole all’ascolto della stessa voce di Dio e quindi a fare di tutto pur di custodirle nell’unica comunità ecclesiale (cf. Gv 10,16).

Il pastore inoltre non si limita solo a guidare e governare, ma anche a insegnare, educare, e sostenere lo sviluppo umano, spirituale, sociale, culturale di ciascuno e della Chiesa. Ogni persona è per lui e con lui un luogo ecclesiale. Per questa ragione egli non considera gli altri solo delle pedine che servono a raggiungere scopi e a realizzare progetti personali, sia pure religiosi e sacri. Coloro che gli sono affidati non sono altri da sé, ma fratelli che partecipano della stessa filialità di Cristo, e hanno come Dio lo stesso Padre (cf. 1Gv 3,2). Il suo obiettivo perciò è quello di renderli partecipi della sua stessa vita filiale ed ecclesiale, caratterizzata dalla stessa fede, speranza e amore fraterno. In vista di questa promozione umana e spirituale egli non si limita solo a esporre i contenuti della fede, come spesso accade di fare a coloro che fanno della sapienza un metro di giudizio, ma a rendere credibile, vivo, vero e autentico il suo insegnamento con la testimonianza della sua vita. Il suo scopo non è solo informare e istruire, ma alimentare, col suo insegnamento, la fede della sua gente. Egli, come una formica, educa ad accumulare il proprio tesoro in cielo (cf. Mt 6,19-21); come un ragno a tessere relazioni d’amore tra le persone; come un’ape a tradurre in cibo spirituale i contenuti della fede.

Fuori da questo orizzonte relazionale d’amore il ministero del pastore e con tutto ciò che esso comporta: guida, governo, docenza, rischia di essere gestito con la stessa logica di potere del mondo, esulando ed eludendo quanto Gesù dice ai suoi: “tra voi però non sia così: “chi invece vuole essere grande si faccia servitore, e chi vuole essere primo si faccia servo di tutti” (Mc 10,43-44).

Pastore, dunque, è colui che, come Cristo, genera tra gli uomini e nel mondo, la stessa relazione d’amore di Dio e fa della Chiesa un luogo dove chiunque sperimenta la stanchezza e l’oppressione del modo, ha modo di trovare, in essa, ristoro e pace (cf. Mt 11,28-30).

Auguro a ciascuno di costruire, come il Buon Pastore, recinti intorno alla propria comunità ecclesiale, non per delimitare lo spazio del proprio ministero, ma per custodire dal maligno (cf. Gv 17,15) quanti, in diversi modi e forme, vengono affidati alla sua cura e responsabilità. Al contempo, auguro a ciascun pastore di avere con tutti la stessa unità di Cristo col Padre, come nucleo vitale e propulsivo della sua evangelizzazione.

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