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25/10/2020 - 30a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Es 20, 22-26; Sal 17 (18); 1Ts 1, 5c-10; Mt 23, 34-40


L’amore: sintesi della Legge


L’idea di proporre brani biblici sull’amore del prossimo, subito dopo il tema della politica, commentato domenica scorsa, si presta ad una felice coincidenza che sembra lasciar intendere il significato biblico più autentico dell’azione politica, intesa come servizio della promozione della vita sociale dell’uomo. La pagina biblica dell’Esodo che ci viene proposta come prima lettura, infatti, fa parte di quel cosiddetto Codice dell’Alleanza (cf. Es 22, 20-26), che contiene una serie di norme spirituali-etico-sociali che rendono perfino doveroso l’aiuto verso le categorie sociali più svantaggiate, quali sono gli stranieri, le vedove, gli orfani e gli indigenti. Costoro non disponendo di nessuna forma di protezione - come possono essere quelle esercitate dal clan, marito, padre, avvocato - sono costantemente soggetti alle prevaricazioni esercitate dai potenti, come molestie, maltrattamenti, sfruttamenti, strozzinaggi, pignoramenti. E quando il popolo viene meno in questi suoi impegni fondamentali allora Dio stesso interviene in prima persona, con una serie di norme giuridiche, come quelle espresse da Es 22, 20.21.24, che testimoniano l’istanza divina di regolare la vita sociale sulla base dell’amore, senza il quale nessuna forma di servizio politico, favorisce un autentico sviluppo umano sociale e personale. Fondato sull’amore di Dio tale servizio non è più solo una qualsiasi forma di filantropia, ma la manifestazione più autentica dell’agàpe cristiana. In questa prospettiva, parafrasando il detto di Gesù sul tributo a Cesare, potremmo dire che l’amore è l’unica cosa che, al contempo, va resa a Dio e all’uomo (cf. Mt 22, 21).

Benedetto Antelami, Dar da mangiare agli affamati, (1196-1216) part del portale del Battistero di Parma

L’amore costituisce quindi il principio, il senso e il fine di ogni forma di convivenza sociale e politica. Esso è a fondamento della Legge mosaica, ne costituisce l’essenza, il nucleo vitale (cf. Dt 5, 32ss). Pertanto la Legge è la manifestazione più intima e profonda della volontà di Dio, ne rivela l’identità misericordiosa e giusta, e traccia il percorso etico-spirituale per conformare la vita delle persone a quella divina. La Legge, infatti, non solo fonda e motiva la relazione con Dio, ma regola anche quella civile e sociale. In questo senso essa costituisce il cuore pulsante della fede ebraica, l’essenza del suo pensiero teologico-civile. Nella visione ebraica infatti non è possibile scindere la relazione personale verso Dio da quella interpersonale verso la comunità ‘civile’. Esse costituiscono un tutt’uno integrale. E’ a questa visione che venivano formati i dottori della Legge e sulla stessa viene interpellato anche Gesù, nell’episodio evangelico di questa domenica. La straordinaria autorevolezza che egli manifesta nell’interpretare la Legge costituisce, tuttavia, per alcuni un motivo di meraviglia (cf. Mt 22, 22), per altri, come le autorità religiose, un motivo di scontro dottrinale. In diverse circostanze infatti Gesù viene coinvolto in dispute su temi scottanti della fede. Non ultimo quella con i Sadducei, dai quali viene interpellato sullo spinoso argomento della risurrezione (cf. Mt 22, 23-33). Ma anche in questa circostanza, la prova alla quale essi decisero di sottoporre Gesù, lungi dal coglierlo in fallo, si rivela, per loro come un ulteriore smacco argomentativo. L’evangelista Matteo annota perfino, in modo piuttosto umoristico, che Gesù “chiuse loro la bocca” (Mt 22, 34). Non avendo più alcun argomento con cui confutarlo i Sadducei cedono il passo ai farisei, i quali tenuto consiglio, gli inviano un dottore della Legge, per sottoporlo ad un’ulteriore disputa dottrinale. Questa volta l’argomento verte sull’essenza della Legge: “Qual è il più grande comandamento” (Mt 22, 36), gli domanda il dottore. È interessante notare che Gesù nel rispondere non elenca i comandamenti più importanti, secondo l’ordine tracciato da Mosè nel libro dell’Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5, 6-21, come avrebbe fatto un qualsiasi dottore, ma coniuga in un'unica e inscindibile formula letteraria, l’essenza stessa della Legge: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso”, abbinando in questo modo i testi di Dt 6, 5 e Lv 19, 18. Una simile sintesi conferma la straordinaria capacità di declinare l’amore nelle sue principali forme manifestative: verso Dio e verso l’uomo. “Da esse dipendono tutta la Legge e i Profeti” (cf. Mt 22, 40)[1]. Dio e il prossimo costituiscono perciò gli estremi della tensione polarizzante dell’amore. Esso è ciò che consente di pensare Dio nell’uomo e l’uomo in Dio, in un’inscindibile unità divino-umana.

La risposta di Gesù ci offre l’opportunità per soffermare la nostra attenzione su questa triade costitutiva della persona umana: l’amore, Dio e il prossimo. Cogliamo perciò l’occasione per far luce sul loro significato, nel tentativo di capire cosa esso comporta nella nostra vita di fede e per le nostre relazioni sociali. Cominciamo dall’amore. Nella prospettiva biblica l’amore costituisce l’essenza di Dio che si manifesta in primo luogo nella sua potenza creativa e poi nel suo piano salvifico che si dischiude lungo il cammino storico della fede biblica. A testimonianza di questa indiscutibile qualità di Dio l’apostolo Giovanni, alla luce dell’esperienza evangelica di Gesù, giunge a qualificare Dio in termini di Amore (cf. 1Gv 4, 8), esso perciò è la realtà che più di ogni altra dà credibilità dell’identità di Dio e della testimonianza della Chiesa, secondo quello che afferma un noto teologo del XX secolo: H.U.von Balthasar, nel suo libro: Solo l’amore è credibile. Questo amore non è affatto un tesoro che Dio custodisce gelosamente, al contrario, lo rende partecipe all’uomo. Per questa ragione l’uomo ama in quanto è amato da Dio (cf. 1Gv 4, 7ss). Amare Dio è la manifestazione della pienezza stessa dell’amore umano. Quello verso Dio viene considerato infatti come la forma più alta e perfetta dell’amore umano, come afferma Gesù, nella risposta al dottore della Legge: “Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, con tutte le forze” (cf. Mt 22, 37; cf. Dt 6, 5). Il che significa che l’uomo per raggiungere la perfezione dell’amore non può esercitarlo solo verso se stesso o l’altro, bensì verso Dio, quale principio di un autentico cammino di fede salvifica, come attesta la storia di Abramo, paradigma di ogni uomo che decide di uscire dall’immanentismo della propria esistenza terrena. È proprio questo esodo esistenziale che consente all’uomo di superare il suo egotismo. Chi ama è chiamato ad uscire fuori di sé. Senza questo movimento estatico si rischia di rimanere circoscritti all’interno del proprio io. L’io diventa in questo caso il referente unico dell’amore, limitandone l’estensione, lo sviluppo e il progresso. Questo movimento estatico l’uomo lo inizia dalla relazione interpersonale verso l’altro da sé. Non a caso il termine ebraico che viene usato per indicare il prossimo sottolinea l’alterità, la differenza. Il prossimo, infatti, è il diverso da sé. Nella versione dei LXX (traduzione greca della Bibbia ebraica) il termine assume il significato di vicinanza. Il diverso, l’altro da sé diventa così colui che è vicino a sé, presso di sé, prossimo per l’appunto. Questo apporto greco determina, nel corso della riflessione teologica ebraica, uno sviluppo semantico più universale. Il termine prossimo non indica più solo le persone dello stesso clan, parenti, amici e connazionali, ma anche lo straniero che dimora in territorio giudaico e condivide la stessa esperienza di fede. Gli altri invece continuano ad essere considerati nemici, verso i quali era persino consentito manifestare sentimenti di disprezzo (cf. Mt 5, 43). La straordinaria rivoluzione relazionale scaturita dal vissuto evangelico di Gesù porta il termine ad essere esteso perfino al nemico, che diventa così il prossimo da amare come se stessi, come attesta la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10, 25-37). Ed è appunto questo estremo sviluppo evangelico che ci invita ad un’attenta riconsiderazione del concetto di prossimo nell’oggi della nostra realtà sociale.

A giudicare dall’attuale clima culturale notiamo che nonostante l’apporto della riflessione cristiana non mancano i casi in cui il prossimo continua ad essere considerato come l’altro da sé, il diverso, dal quale prendere le dovute distanze e precauzioni. Basti osservare il modo con cui viene interpretato il fenomeno dei migranti e non ultime le disposizioni nei confronti del Covid 19, per capire come essi stanno determinando nella nostra mentalità un preoccupante cambio culturale, nei confronti del concetto di prossimo, dove, paradossalmente, perfino i familiari, rischiano di essere considerati come i diversi, gli altri dai quali difendersi o sospettare. La situazione ci induce perciò a rivedere seriamente le nostre scelte di fede, per comprendere non solo il loro fondamento teologico, ma anche per cogliere la dinamica delle relazioni interpersonali. In questa luce l’alterità, la diversità lungi dall’essere considerati condizioni che marcano la differenza, costituiscono, al contrario, i presupposti necessari per l’unità. L’amore verso il prossimo non prevede la riduzione dell’altro a sé, ovvero l’eliminazione della sua diversità, ma la presuppone. Esso non tende ad uniformare le differenze, bensì a svilupparle. Ma ciò prevede il coraggio del confronto e quindi il superamento del proprio egotismo ed egocentrismo. D’altra parte, un simile amore, non esclude, anzi prevede la valorizzazione della propria individualità. Non a caso Dio chiede di amare l’altro come se stessi, ovvero di nutrire per l’altro lo stesso amore che si coltiva per sé. Pertanto chi non ama se stesso, neppure può amare l’altro da sé. L’esclusione o la riduzione di questa polarità relazionale mette seriamente a rischio l’unità proprio dell’amore. Ogni atto d’amore cristiano prevede questo sforzo. Ed esso è tanto più autentico ed efficace quanto più è libero e gratuito. L’amore del prossimo costituisce perciò il principio di ogni autentica azione politica, la forma più concreta della carità cristiana.

[1] La Legge, i Profeti e gli Scritti costituiscono le tre parti della Tanàkh, ovvero ella Bibbia ebraica. Il termine è un acronimo formato dalle prime lettere della Torah (Legge), Nebi’im (Profeti), Ketubim (Scritti sapienziali).

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