24 Marzo 2024 - Anno B - Domenica delle Palme
- don luigi
- 23 mar 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Mc 11,1-10; Sal 23/24; Is 50,4-7; Sal 21/22; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47
La logica pasquale della passione

“Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Non è facile sintetizzare in pochi versetti l’intero racconto della passione, specie quando comprende tanti episodi evangelici, come quelli che vengono proposti dalla Liturgia della Parola, durante la Domenica delle Palme, dove ognuno richiederebbe uno specifico commento. Anche la semplice selezione di quei brani che potrebbero essere considerati più espressivi e rappresentativi di questo racconto, si rivela un’impresa alquanto impegnativa. Ciò non ci impedisce di individuare la chiave di lettura che consente di cogliere la sua essenza, per capire il modo con cui tradurre la passione di Cristo nel vissuto quotidiano della nostra fede. Forse nessun brano, tra quelli che ci vengono proposti dall’attuale Liturgia, consente di comprendere la logica della Passione, come questo di Paolo ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”.
Con questo brano Paolo non si limita alla descrizione narrativa della Passione e morte di Gesù, come fanno tutti gli altri evangelisti, ma si sforza di comprendere l’intera missione di Cristo nel mondo, e quindi di spiegare la ragione che lo ha indotto a incarnarsi e a rimanere fedele al disegno salvifico di Dio “fino alla morte di croce”. Particolarmente significativa appare, perciò, l’interpretazione che egli dà dell’umiltà e dell’obbedienza con cui Gesù vive la prassi salvifica, e che lui esprime in termini di kenosi, ovvero di “svuotamento” di tutte quelle prerogative divine che lo avrebbero, in certo qual modo, favorito nella sua missione. Da qui la scelta di Cristo di compiere la salvezza da “uomo”, o meglio, da “schiavo”, di chi, cioè, non ha più nulla di suo, e dipende in tutto e per tutto dal suo ‘padrone’. Si comprende allora l’estrema novità di questa sua opera, che lo induce ad essere totalmente fedele al Padre, fiducioso della sua azione salvifica. Convinto che solo a queste condizioni Dio avrebbe manifestato tutto il suo potere divino in lui. In altre parole, Gesù ha salvato l’umanità non tanto in virtù della sua divinità o appellandosi ai poteri divini di cui disponeva in qualità di Figlio di Dio, quanto perché ha lasciato Dio totalmente libero di essere Dio in lui, e di manifestare così il suo potere divino. È in questo che Cristo diventa luogo di salvezza, per chiunque crede in lui. Ecco lo specifico della sua salvezza, che costituisce un autentico paradosso e scandalo per chi – allora come oggi – è abituato ad immaginare Dio e il suo Cristo, come un “potente tra i potenti”. Gesù, invece, ispirandosi alla figura del” Servo sofferente” di Isaia, non esita a manifestare tutta la fragilità umana e divina del Messia, al punto da “non opporre alcuna resistenza” ai suoi flagellatori, né “sottrarsi” ai loro “sputi e insulti”; al contrario, porgendo loro il “suo dorso e la sua guancia”. Uno stile messianico il suo che getta nella più totale confusione gli esperti conoscitori delle Scritture, come scribi, farisei e sacerdoti, ma che rende la faccia “dura come pietra”, ovvero convince intimamente con la sua sapienza, coloro che si affidano a lui, perché “sanno che Dio non delude” mai (cf. Is 50,5-7).
Anche l’autore della Lettera agli Ebrei contribuisce a rendere più esplicita questa logica messianica di Gesù, quando afferma che egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia” (Eb 12,2).

Riletta alla luce di questi brani biblici la Passione di Cristo manifesta tutto lo spessore della sua valenza teologica, sfuggendo a quelle interpretazioni devozioniste che, senza nulla togliere alla spiritualità popolare, hanno finito col relegarla in quella sfera intimistica che l’ha privata della sua incidenza antropologica, culturale e sociale. In questa prospettiva, quel cammino di conversione che abbiamo cercato di tratteggiare e di manifestare nelle sue diverse declinazioni: morale, spirituale e intellettiva, trova qui la ragione d’essere. Che senso ha persistere in quella tenace, ma abitudinaria prassi religiosa che riduce la nostra partecipazione a un formalismo spirituale, privandola di quella reale e libera adesione personale alla logica della passione di Cristo? Non si tratta solo di imitare la passione di Gesù, ma di viverla animati dalla sua stessa passione d’amore per l’uomo. “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49). Senza questo amore la sua passione rischia di ridursi solo a una forma di sofferenza. Pertanto la sua è una passione che va e intesa non solo come pathos, ovvero come sofferenza, ma anche come desiderio struggente d’amore che egli nutre per il mondo e per ciascuno di noi. La Passione di Gesù si comprende solo alla luce di quest’originario, infinito e totale amore di Dio, per il mondo e che Giovanni esprime in modo emblematico nel suo Vangelo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16). È animato da questo amore che Gesù, in quanto Figlio, dona tutta la sua vita. È qui la sorgente della sua Passione. Ed è questo l’amore che salva. È partecipando di questo amore che anche noi abbiamo modo di salvarci. Non si tratta di saper soffrire, magari con tenacia o appellandosi, come eroi, alle virtù umane, ma di soffrire come Cristo: per amore delle persone e per amore di Dio. Tanta gente soffre eppure non si redime, anzi spesso si dispera, giungendo persino a imprecare contro il cielo e maledire Dio. Per patire con Cristo non basta soffrire, occorre dare alla sofferenza il suo stesso significato e viverla lasciandosi scarnificare e plasmare da essa, con fedeltà, umiltà e obbedienza, come lui. Solo quando il dolore viene accolto, vissuto e donato con amore, rende efficace la nostra passione e attuale la nostra salvezza. È a queste condizioni che anche noi diventiamo strumenti di salvezza per quanti credono in Cristo per mezzo di noi. Parola chiave di questa prassi salvifica, dunque, è la kenosi che deve diventare lo stile della nostra partecipazione all’opera salvifica di Cristo. Il che significa che anche noi, come lui, siamo chiamati a svuotarci di tutti quei privilegi umani – e purtroppo anche ecclesiastici – che impediscono allo Spirito di Dio di agire liberamente in noi.

Senza questa ragione teologica o questa passione d’amore per l’uomo, tutte le volte che ci ritroviamo coinvolti in una nostra o altrui passione, rischiamo di assumere uno di quegli atteggiamenti descritti dai vari personaggi del racconto evangelico. Anche noi allora possiamo tradirlo o venderlo al migliore offerente, come Giuda, sebbene gli avesse confermato la sua amicizia con un bacio; anche noi possiamo rinnegarlo, come Pietro, benché anche lui gli avesse dichiarato la sua decisione di seguirlo fino alla morte; oppure osannarlo e subito dopo denigrarlo, come la folla di Gerusalemme; abbandonarlo come i discepoli, dopo aver condiviso con lui la Cena Pasquale; anche noi possiamo mostrarci scettici, come i farisei, quando non ci lasciamo interpellare dalla sua prassi evangelica, così diversa dalla nostra idea messianica; o ancora condannarlo come i sacerdoti, quando la sua fede sovverte lo status quo del nostro sistema religioso; mostrarci indifferenti, come Pilato, quando prendiamo atto che le sue questioni spirituali non hanno nessuna rilevanza politica o sociale; oltraggiarlo, come i soldati, quando finalmente riusciamo a sfogare la nostra frustrante sudditanza sociale su di lui; insultarlo e deriderlo come i passanti, perché finalmente la morte di croce dà prova della sua impostura.
Ma tra i tanti atteggiamenti che si prospettano davanti a noi, non possiamo escludere quelli che nonostante le nostre fragilità, rivelano anche il nostro amore per lui, quando, come la donna di Betania nella casa di Simone, riusciamo ad avere il coraggio di ungere perfino i suoi piedi; oppure quando ci prestiamo a condividere il peso della sua croce nelle passioni della nostra vita quotidiana, come fa Simone di Cirene; o ancora piangerlo come le donne ai piedi della croce; o mettere a disposizione i propri beni, come fa Giuseppe d’Arimatea che ripone il suo corpo nel sepolcro di sua proprietà. Tra tutti questi possibili atteggiamenti, particolarmente significativo è quello del Centurione, l’unico in grado di cogliere l’identità divina di Gesù, nella sua apparente sconfitta. Dalla sua intuizione capiamo che la Passione di Cristo costituisce la chiave per comprendere il segreto dell’opera salvifica di Dio e il senso di ogni sofferenza umana. Pertanto anche noi, come il Ladrone, quando ci troviamo all’estremo orizzonte della nostra vita e davanti a noi sembra prospettarsi solo la delusione della sconfitta o il buio della morte, chiediamo la grazia di rivolgerci a Gesù e dirgli: “ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42), affinché possiamo sentirci ripetere da lui: “In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Ecco il fine del nostro itinerario di conversione.




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