24 Luglio 2022 - Anno C - XVII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 23 lug 2022
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 25 lug 2022
Gn 18,20-32; Sal 137/138; Col 2,12-14; Lc 11,1-3
La preghiera: humus della vita spirituale

“Signore insegnaci a pregare” (Lc 11,2) è la richiesta che uno dei discepoli avanza a Gesù, dopo averlo osservato durante uno dei suoi prolungati momenti di preghiera. Affascinato, evidentemente, dal suo rapporto col Padre chiede di esserne fatto partecipe. Da qui la domanda a nome di tutti i suoi compagni: “Signore insegnaci a pregare”. E Gesù insegna loro una preghiera che è rivelativa della vera identità di Dio. “Abbà” è il nome con cui egli qualifica la sua essenza. D’ora in poi i discepoli possono rivolgersi a lui non solo col nome di Jahvè, come avevano acquisto dalla tradizione mosaica, ma con quello di Abbà, Padre. Il nome rivela la particolare relazione intima e speciale che Gesù intesse con lui e che intende condividere con i suoi discepoli. Questa vita relazionale è a fondamento della realtà del Regno, considerato come lo scopo della missione sua e dei suoi discepoli nel mondo. Riletta alla luce dell’atteggiamento di Maria che si pone ascolto ai piedi di Gesù (cf. Lc 10,39) e a quello di Abramo che intercede a favore dei giusti di Sodoma e Gomorra (cf. Gen 18,20-32), la preghiera del Padre nostro sembra costituire il segreto della comunione con Dio, la ragione che fonda l’amore verso il prossimo; l’alimento della vita spirituale personale ed ecclesiale; la sorgente da cui attingere la forza del perdono.
In realtà già qualche domenica fa[1] abbiamo avuto modo di riscontrare questo tema, quando, dinanzi alle esigenze del Regno, Gesù invita i suoi discepoli a “pregare il Padre affinché mandi altri operai nella messe” (cf. Lc 10,2). Oggi la liturgia ci consente di soffermarci più estesamente su di esso e di prendere in considerazione le testimonianze che ci vengono dagli episodi biblici[2]. Nello specifico commenteremo, dunque, la preghiera di intercessione di Abramo (cf. Gn 18,20-32), oltre a quella del Padre nostro di Gesù (cf. Lc 11,2-4) e a quella insistente dell’amico inopportuno (Lc 11,5-8). Il brano evangelico inoltre insiste anche su alcuni requisiti, tra cui la “perseveranza”, come condizione per renderla efficace, specie nelle circostanze in cui si ha la sensazione di un prolungato silenzio di Dio (cf. Lc 11,9-13). Ne scaturisce una sorta di ‘regola d’ora’ della preghiera che Gesù formula in questi termini: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,9-10). Il Padre, sempre attento alle esigenze dei bisognosi, non si lascerà sfuggire le loro richieste.
Quella di Abramo è una preghiera essenzialmente altruistica, in quanto viene praticata non per esaudire i propri bisogni, ma per la salvezza degli altri[3]. Il termine che la definisce rende particolarmente evidente il suo significato: intercedere, infatti, significa “passare attraverso” (da inter = “tra”, “attraverso” e cedere = “passare”, “camminare”). In altre parole Abramo si ritrova tra due amori, per i quali prova una rispettiva e irresistibile attrazione: quello di Dio, di cui conosce la giustizia, e quello dei giusti di Sodoma e Gomorra, di cui conosce la rettitudine. Pur consapevole dell’inevitabile conseguenza della decisione di Dio di condannare il peccato dei Gomorrei e dei Sodomiti, egli si schiera a favore dei quei pochi giusti che sono ivi presenti. Abramo non accetta la mentalità religiosa del tempo, secondo la quale a causa del peccato di alcuni tutti devono subire la stessa condanna. Da qui la sua decisione di intercedere a loro favore dinanzi a Dio e di perseverare in essa anche quando prende realmente coscienza che il loro numero è sorprendentemente sparuto.
Ma proviamo a inquadrarla nel contesto biblico. Abramo capisce che i “tre misteriosi uomini” che si sono presentati a lui alla Quercia di Mamre, sono venuti per uno scopo ben preciso: non solo per confermare la promessa divina della sua discendenza, come il Signore stesso ebbe a dirgli: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio” (Gen 18,10), ma anche per decidere le sorti di Sodoma e Gomorra, di cui era giunto a conoscenza dei loro peccati, come riferiscono i versetti 20 e 21 dello stesso capitolo: “Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a veder se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere”. Dinanzi al drammatico scenario che si prospettava Abramo, mosso dalla compassione dei giusti di Sodoma e Gomorra, decide di prendere posizione a loro favore, arrischiandosi in una preghiera audace, fino a rasentare la sfacciataggine. Egli non mette in discussione la giusta condanna di Dio, ma non vuole che la sua esecuzione, finisca per sterminare i giusti che si trovano nelle due città. E anche quando capisce che essi sono relativamente pochi, prende le loro difese e persevera nella sua decisione finché non induce Dio a mutare il suo verdetto. Questo atteggiamento di Abramo che sotto il profilo religioso può risultare irriverente, si rivela invece come un gesto altruistico che non sfugge all’attenzione di Dio, il quale, diversamente dalle aspettative, si mostra pieno di stima nei suoi confronti e accondiscende la sua richiesta[4]. Questa testimonianza ci viene proposta come un’autentica manifestazione di intercessione del prossimo che avrà una sua straordinaria eco nella preghiera di Mosè a favore del popolo d’Israele (cf. Es 32,11-14)[5].
Con la preghiera del “Padre nostro” Cristo invece ci rivela l’esatta identità paterna di Dio[6]; al tempo stesso, ci invita a tessere con lui la sua stessa relazione filiale. Attraverso questa preghiera il discepolo di Gesù impara a “vivere da figlio nel Figlio”, secondo le indicazioni definite da san Paolo nella sua lettera ai Galati 4,1-11; 5,1.13-26. Pregare perciò con la preghiera di Gesù significa imparare a vivere nella stessa vita di comunione col Padre e a trovare in essa le ragioni e il fondamento della comunione fraterna ed ecclesiale. È questo il nuovo linguaggio della fede che Gesù è venuto a rivelare, attraverso il quale ciascun discepolo può nutrire per Dio “gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” (cf. Fil 2,5). Paternità e filialità sono dunque i sentimenti che più di ogni altri devono nutrire la vita spirituale del discepolo. È da qui che scaturisce la relazione fraterna tra di loro, vero collante della vita ecclesiale. Se il discepolo è figlio egli deve tendere alla stessa perfezione del Padre (cf. Mt 5,48), ovvero condividere la sua stessa santità (cf. Lv 19,2). “Santificare il nome” del Padre, significa allora riconoscerne la divinità, la grandezza, la superiorità rispetto a tutti e a tutto. È questa la vera preghiera di lode. Il più grande sacrificio dell’uomo consiste nel riconoscere che Dio è Dio. Egli è Signore, ovvero colui che è al di sopra di ogni cosa. E cos’è la santità se non l’amore misericordioso che qualifica la paternità di Dio. È questa la vera perfezione a cui il discepolo deve tendere (cf. Lc 6,36).
Relazionarsi a Dio in questi termini significa creare i presupposti della vita del suo Regno nel mondo, unico scopo di tutta l’attività predicativa di Gesù e quindi anche dei suoi discepoli. Come Gesù anche il discepolo deve imparare a far convergere ogni suo pensiero, parola e gesto, verso la realizzazione del Regno di Dio nel mondo e per farlo deve condividere la sua volontà. Tale volontà non va considerata come un imperativo divino prestabilito, una sorta di norma legale da attuare indistintamente alla lettera, sempre e a tutti i costi, ma come il bene migliore per noi, che si dischiude nelle varie circostanze della storia, e al quale il Signore chiede di conformare la nostra vita[7]. La sua attuazione richiede perciò un’adesione libera e volontaria da parte nostra, certi che il suo compimento comporta la realizzazione piena della nostra esistenza. Una simile operazione prevede un totale rinnegamento di sé, da considerare quella di Dio come la massima espressione della nostra volontà. Un’unità d’intenti completa e piena dunque, tale da fare della vita umana il riflesso di quella divina: “come in cielo, così in terra”[8]. Vivere costantemente nella volontà del Padre, significa, allora, mostrarsi totalmente disponibili al suo disegno di salvezza, vivendo all’insegna della sua fiducia, abbandonati alla sua provvidenza, in tutte le circostanze della vita, non solo in quelle dei bisogni contingenti, ma soprattutto in quelle della sofferenza, dell’afflizione, dell’ingiustizia personale e sociale. È soprattutto in queste circostanze che il discepolo impara a capire che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4).
In un contesto di benessere come il nostro, chiedere al Padre il “pane quotidiano” può risultare irrisorio e superfluo, in realtà il vero pane di cui abbiamo urgentemente bisogno, oggi, è quello del senso, ovvero del significato della vita. E cosa più della Parola di Dio può dare senso alla nostra esistenza? Quanti obesi dal benessere muoiono negli stenti del non senso. Forse non è un caso che la bulimia del benessere è indice di un’anoressia di senso. “Dacci, oggi il senso quotidiano” potrebbe essere allora la formula con cui tradurre la domanda di Cristo nell’attuale contesto culturale.
Entrare nella comunione del Padre significa non solo vivere del suo amore, ma condividere anche la sua logica misericordiosa che ha nel perdono la più grande manifestazione dell’amore umano. “Perdona i nostri peccati, affinché anche noi perdoniamo quelli dei nostri debitori”. Perdonare è l’atto che fa nuove tutte le relazioni e che consente di andare oltre ogni forma di offesa. Il perdono è la terapia più efficace contro le diverse forme di peccato personale e sociale. È il segno distintivo della presenza operante di Dio nel mondo e la condizione per giungere a quella definitiva rappacificazione dell’uomo con Dio, con sé, col fratello, col creato. Ma il perdono del Padre dipende dal nostro: egli ci perdona nella misura in cui siamo disposti a perdonare. L’uno dipende dall’altro e l’uno sfocia nell’altro. Solo chi è riconciliato veramente con Dio potrà a sua volta manifestarlo agli altri.
Esercitarsi nell’arte del perdono significa imparare a perseverare nella misericordia di Dio, a rimanere cioè nella comunione con lui, soprattutto quando siamo tentati dalle suggestioni del male. La comunione con lui diviene allora la principale condizione spirituale contro ogni forma di tentazione che si insinua dentro di noi, perfino quella più dura dell’abbandono di Dio, sperimentata da Gesù sulla croce (cf. Mc 15,34; Sal 21). Forse non c’è tentazione più grande se non quella di sentirsi abbandonati da Dio nelle tentazioni, da qui l’invocazione: “non abbandonarci alla tentazione” (Lc 11,4). Contro di esse non c’è virtù che regga, se non abbandonarsi a Dio e alla potenza della sua Parola, come Gesù nel deserto (cf. Mt 4,1-11). Padre nelle tue mani consegno il mio “peccato”, diviene allora il segreto per lasciare che la potenza del suo Spirito trasformi i nostri peccati in gesti d’amore.
Con la parabola dell’Amico inopportuno Gesù sottolinea, invece, la necessaria insistenza da assumere nella preghiera, quale atteggiamento fondamentale per vedere le nostre richieste esaudite da Dio. Anche in un altro caso Gesù fa riferimento a questo atteggiamento, come quello manifestato dalla Vedova molesta (cf. Lc 18,1-8). In realtà esso caratterizza chiunque è intenzionato ad ottenere qualcosa da lui, come la donna Siro-Fenicia (cf. Mc 7,24-30) e perfino sua madre Maria, durante le nozze di Cana (cf. Gv 2,4-5). Si tratta di un atteggiamento limite, suscettibile anche di una interpretazione umana, in quanto in certi casi l’insistenza potrebbe essere indice della nostra ostinata caparbietà e sfrontata insolenza. Occorre veramente sapersi nella volontà di Dio, per giungere a tanto. Non a caso dunque Gesù ci invita a rivolgerci al Padre nel suo nome, ovvero nella piena comunione d’amore con lui. Solo questa unità con lui conferisce forza alla nostra richiesta e convinzione alla nostra perseveranza. È a questa condizione che egli ci conferma la certezza di essere esauditi: “Qualunque cosa chiedere al Padre nel mio nome egli ve la darà” (cf. Mt 21,22; Gv 14,13-14; 15,16; 16,23). In effetti chi è in Dio non chiede mai per se stesso, ma sempre per l’altro. Questa forma di altruismo è indice di una totale libertà da se stessi. In tal caso si è nella giusta condizione per chiedere a Dio qualsiasi cosa: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato” (Gv 15, 7). Se questa è la condizione a cui possono giungere gli uomini che sono condizionati dal peccato, quanto ancora di più Dio che è la bontà per eccellenza: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli quanto di più Dio darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11,13).
Stando alla testimonianza di Gesù la preghiera, quindi, più che un’invocazione estemporanea che nasce dal grido di un cuore affranto, è un atteggiamento di vita, un modo di essere nel mondo secondo lo Spirito. Gesù non solo pregava, ma era egli stesso preghiera. Tutta la sua vita era un perenne canto di lode a Dio. Per Gesù la preghiera è il modo per stare costantemente in Dio, e rimanere in comunione perenne con lui. Prima ancora di essere una formula verbale la preghiera del Padre nostro è allora uno stare con Cristo in Dio, esattamente come lui era con lo Spirito nel Padre. Pregare il Padre, col Padre, nel Padre e per il Padre era per lui il modo più autentico per essere nel mondo.
[1] Cf. 14a Dom del TO Anno C.
[2]I diversi riferimenti biblici a nostra disposizione ci danno modo di conoscerne meglio le forme e i metodi con cui praticare la preghiera, perciò distinguiamo la preghiera di intercessione, di supplica, di invocazione, di implorazione, di lode, di ringraziamento, di adorazione, di consacrazione, di discernimento e perfino di imprecazione. La preghiera tuttavia può essere anche privata, personale, individuale, comunitaria, mentale, vocale … Insomma esistono diverse forme di preghiera e ciascuna dispone di un metodo specifico per essere praticata, che prevede o meno anche il coinvolgimento il corpo. La preghiera è certamente la pratica religiosa più diffusa, ma anche la meno conosciuta. La stragrande maggioranza delle persone la ritiene un atteggiamento naturale e spontaneo che sorge in alcune circostanze particolari, come quelle di un grido di aiuto verso il cielo, indipendentemente dall’identità di Dio a cui si fa riferimento. Per molti cristiani essa viene ridotta a formule verbali o scritte, acquisite nell’infanzia durante la formazione catechistica. Invece, là dove essa viene colta e praticata nel suo significato più specifico, diventa l’humus della vita spirituale personale ed ecclesiale.
[3] La sua funzione non è quella di ricordare a Dio i bisogni degli altri, poiché Dio sa già di cosa hanno bisogno (cf. Mt 6, 32), ma induce a sentirsi responsabili delle loro esigenze bisogni davanti a Dio.
[4] Questo brano si rivela particolarmente significativo a livello teologico, poiché ci fa assistere al superamento della mentalità religiosa del tempo, secondo la quale il peccato comportava sempre una responsabilità collettiva, da qui la convinzione della stessa sorte riservata ai giusti e agli ingiusti. Abramo, invece, si sottrae a questa convinzione comune, determinando lo sviluppo del principio della responsabilità individuale, come verrà espresso poi in Dt 7,10; 24,16; Ger 31,29-30; Ez 14,12s e 18. Per di più egli si domanda se per il merito di alcuni giusti, tutti i colpevoli non potrebbero ottenere il perdono di Dio. Le risposte di Dio confermano questa sua convinzione, qualificando il ruolo salvifico dei santi nel mondo. Ma mercanteggiando la misericordia di Dio Abramo non osa scendere al di sotto della soglia dei dieci. Invece, secondo Ger 5,1 ed Ez 22,30, Dio perdonerà a Gerusalemme anche per la presenza di un solo giusto. Infine in Is 53, è la sofferenza del solo servo che deve salvare tutto il popolo; ma questo tipo di annunzio sarà compreso e realizzato solo da Cristo. Egli, infatti, ancora più di Abramo si mostra disponibile a morire perfino per i peccatori.
[5] Alla fine, però, Sodoma e Gomorra vengono distrutte, poiché non si riescono a trovare neppure quei pochi giusti così tanto auspicati da Abramo. Il male di cui i suoi abitanti si erano macchiati fu tale che osarono tentare perfino di violentare quegli uomini che si presentarono ad Abramo (cf. Gen 19,5).
[6] Pertanto chiunque lo invoca con questo nome significa che ha deciso di condividere la relazione filiale di Cristo. La filialità non dipende dall’essere creature di Dio, ma dalla fede in Cristo riconosciuto come Figlio di Dio. È in lui Figlio che diveniamo figli dell’unico Padre. La filialità di Cristo è a fondamento della relazione fraterna delle persone.
[7] La volontà di Dio non è quella di un despota che costringe tutti, compreso il Figlio, a soddisfare il proprio egoismo. Al contrario essa va pensata come un percorso spirituale che traccia il cammino di umanizzazione dell’uomo. Farla significa, perciò, divenire profondamente e autenticamente se stessi.
[8] Regno di Dio e volontà di Dio – come paternità e filialità – sono indissociabili. Non è possibile realizzare il suo regno nel mondo, senza volere la volontà del Padre. Il Regno è la volontà di Dio pienamente dispiegata e realizzata nel mondo.




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