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24 Gennaio 2021 - 3° Domenica del Tempo ordinario - Anno B


Gn 3,1-5.10; sal 24; 1Cor 7, 29-31; Mc 1, 14-20


Chiamati a continuare nel mondo l’opera incarnativa di Cristo


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I brani biblici che la Liturgia della Parola ci propone, quest’oggi, riprendono e approfondiscono ulteriormente il tema della chiamata, come a volere testimoniare la fondamentale importanza che essa assume per la fede personale e comunitaria. Chi nella propria vita spirituale si sofferma solo di rado a considerarla o la ritiene addirittura marginale, rischia di precludersi la possibilità di cogliere la bellezza, la profondità e la libertà che la relazione personale con Dio comporta. La Bibbia ci racconta sovente di figure che, con la loro chiamata personale, hanno contribuito non poco a sviluppare la dimensione comunitaria della fede. Basti ricordare Mosè, la cui vocazione determina una vera e propria svolta nel cammino della fede biblica. Essa segna infatti il passaggio da una fede individuale, quale era appunto quella trasmessa dai patriarchi come Abramo, Isacco e Giacobbe, ad una fede comunitaria che divenne il principio fondativo sul quale si costituì il popolo d’Israele. Dimensione personale e comunitaria della fede vanno quindi di pari passo: l’una non può prescindere dall’altra. Entrambe hanno la loro origine nella chiamata personale che Dio rivolge a ciascuno. La chiamata personale costituisce pertanto il principio di ogni autentico cammino di fede personale ed ecclesiale. Consapevoli di ciò proviamo ad evidenziare gli ulteriori aspetti che emergono dai racconti biblici di oggi.

Dopo quella di Samuele un’altra vocazione profetica viene sottoposta alla nostra attenzione. Di Giona non disponiamo dati certi. Del suo libro invece gli studiosi ritengono di datarne la redazione tra il 450 e il 200 a.C., periodo che corrisponde all’incirca all’epoca del dopo esilio babilonese. Esso ci riferisce di un profeta qualificato come “figlio di Amittai” (Gio 1,1), la cui missione si svolge al limite del paradosso. Questi, infatti, viene chiamato da Dio per annunciare la salvezza ai Niniviti, un popolo storicamente nemico dei giudei. Per questa ragione accetta mal volentieri la missione profetica. Egli è dell’avviso che la “malvagità” (Gio 1, 2) dei Niniviti non meriti di essere giustificata, al contrario, va severamente condannata. Animato perciò da un’idea di giustizia retributiva, secondo la quale Dio deve punire i peccatori e premiare i giusti, si rifiuta di intraprendere una simile missione. Per sottrarsi al comando divino s’imbarca per Tarsis. Una volta in mare la nave viene colta da una violenta tempesta che i marinai sospettano causata dalla presenza a bordo di un colpevole, contro il quale si è scatenata la collera di Dio. Tirano a sorte per individuare l’uomo e questa cade su Giona, il quale chiede di essere gettato in mare, a seguito del quale la tempesta si calma. Avvolto dagli abissi Giona viene inghiottito da un grosso pesce, nel cui ventre rimane chiuso per tre giorni, durante i quali recita un salmo, al termine di esso viene vomitato e rigettato sulla riva. Consapevole della sua disfatta viene chiamato una seconda volta, e finalmente si reca finalmente a Ninive, dove per quaranta giorni predica la penitenza, minacciando rovina contro gli abitanti, nel caso in cui non si convertiranno. Ritiratosi dalla città, Giona si pone di poco lontano, sotto l’ombra di un ginepro, al riparo dal sole, per osservare la reazione dei Niniviti. Avrebbe voluto una punizione da parte di Dio, ma diversamente dalle sue attese i Niniviti, a partire dal re, si convertono. Deluso da questo epilogo Giona rimane addolorato, al punto da desiderare la morte. Ma Dio lo riprende facendo seccare la pianta che gli donava l’ombra. Il dispiacere che prova per questa perdita insignificante offre a Dio l’occasione per farlo riflettere su quello che Dio avrebbe provato per la perdita dei Niniviti.

Una vicenda questa di Giona chiaramente dal valore simbolico. La maggior parte degli studiosi ritiene infatti che la storia di Giona, più che un valore storico, abbia una funzione didattica, il cui scopo è quello di far luce sul naufragio esistenziale a cui va incontro chi si sottrae alla chiamata di Dio. È importante perciò cogliere dietro l’avvicendarsi degli eventi che caratterizzano la sua vita, quegli aspetti che strutturano la dinamica della vocazione. La storia di Giona ci fa capire che la chiamata di Dio non è affatto un percorso idilliaco, che scaturisce dalla totale docilità all’azione dello Spirito di Dio, come sembra emergere dalla vocazione di Samuele. Al contrario è costellata anche da resistenze, ribellioni e rifiuti che evidenziano la fatica dell’uomo a convertire la propria volontà a quella di Dio, verso la quale non pochi nutrono sospetti e pregiudizi culturali, da considerarla perfino come presupposto per limitare la libertà dell’uomo. In realtà Dio non ci chiama per contrastare i nostri progetti, ma solo per realizzare appieno la nostra identità. La sua chiamata è sempre in vista della pienezza della vita. Il suo scopo perciò è la nostra esclusiva felicità. Egli ci chiama ad uscire continuamente fuori dai recinti angusti della nostra esistenza, per renderci partecipi della sua vita divina, per farci provare le vertigini dell’eternità, la gioia della salvezza, l’ebbrezza della libertà. Una salvezza la sua che non si limita all’ambito della vita personale, e neppure solo a quello del popolo d’Israele, ma chiede di essere estesa a tutta l’umanità. È esattamente questo lo scopo della missione profetica di Giona: proporre una visione universale della salvezza. Tutta la sua storia ruota intorno a questa missione.

Anche il racconto marciano della chiamata dei primi discepoli, per quanto stringato, offre non pochi elementi caratteristici sul tema della vocazione. Essi sembrano distinguersi meglio dal confronto col brano di Giovanni, il quale sembra lasciare intendere che la chiamata di Cristo presupponga un cammino spirituale personale che Giovanni e Andrea, intraprendono durante il loro discepolato col Battista. Si tratta di un cammino caratterizzato da un’attesa messianica, come emerge dall’immediato annuncio che Andrea rivolge al fratello Simone. “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1, 41), evidenzia, perciò, quel cammino di ricerca personale sul quale si innesta la chiamata divina. Essa è costitutiva della vocazione, perché rappresenta quel sostrato spirituale umano, sul quale si innesta l’opera di Dio. E’ su questa base che si capisce meglio lo stile narrativo di Marco, il quale concentra la sua attenzione maggiormente sulla radicalità della chiamata di Cristo e sulla totalità della risposta dei discepoli. Egli infatti, non si sofferma a raccontare i risvolti psicologici ed umani, come fa l’autore del libro di Giona, ma si limita solo a narrare l’essenziale, lasciando al lettore il compito di ricostruire, con la propria esperienza personale, quell’azione dello Spirito che traspare dal suo racconto. In questo senso la radicalità che Marco racchiude nella sua formula: “E subito lasciarono le reti lo seguirono” (Mc 1,18), dice la determinazione alla quale chiunque, una volta compiuto il discernimento, deve giungere per mettere mano all’aratro della propria conversione (cf. Lc 9,62). Quando essa giunge non è possibile più tergiversare. Il suo processo di maturazione è giunto al compimento. Al discepolo spetta solo decidere e lasciarsi guidare dallo Spirito di Cristo. Ecco la disponibilità alla quale Marco intende condurre il suo lettore. La chiamata di Cristo provoca perciò una vera e propria svolta esistenziale, che non si limita alla sola sfera morale, ma cambia il destino della loro vita: da pescatori di pesci a pescatori di uomini (cf. Mc 1,17), una formula con la quale Marco intende dire che quella di Cristo è una chiamata capace di risignificare e riorentare la vita delle persone. Essa non cancella la vita di prima, semplicemente la trasfigura dal di dentro. Ecco il principio incarnativo e redentivo che guida la sua missione salvifica.

Questa radicalità si comprende meglio alla luce della predicazione evangelica di Gesù, tutta incentrata sull’annuncio del regno di Dio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Il compimento di cui parla Gesù non è quello del tempo cronologico, ma quello del tempo kariologico, ovvero del tempo di grazia, col quale Dio predispone i cuori alla conversione, offrendo le condizioni per un reale cambiamento di vita. È a questo tempo che fa riferimento Paolo quando nel brano della sua prima lettera ai Corinti dice: “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7, 29). Esso viene emblematicamente descritto anche nella sua seconda lettera ai Corinti quando, citando il profeta Isaia 49, 8, dice: “Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6, 2). Anche la sequenza con cui Marco dispone i verbi “convertitevi e credete” non è casuale, ma intenzionale: occorre convertirsi, ovvero rinnovare la propria mentalità, aderendo al modo di pensare di Cristo, per giungere ad un autentica esperienza di fede. Solo all’interno di questo rinnovato orizzonte relazionale si coglie la realtà divina del Regno che egli rende evidente col suo stile di vita evangelico. Vedere, convertirsi e credere descrivono così il metodo evangelizzativo di Gesù.

Diverse possono essere le domande che scaturiscono da questi brani biblici, dalle quali vorremmo ora provare a lasciarci interpellare. Il profeta Giona, come abbiamo visto, introduce nella chiamata non solo la possibilità umana di sottrarsi all’iniziativa di Dio, ma perfino di ribellarsi ad essa. Questo fatto ci invita a far luce su tutte quelle resistenze che albergano dentro di noi e che molto spesso ci precludono la possibilità di sperimentare la pienezza della vita nuova in Cristo. Capita, perciò anche a me di provare queste resistenze e se si, qual è la ragione che le determina? Sarebbe opportuno provare a dare un nome a quelle paure, ansie, preoccupazioni che in diversi modi limitano i nostri slanci spirituali. Nominarle significa imparare a dominarle e a superarle. Quali condizionamenti culturali mi impediscono di estendere i confini della salvezza di Dio anche a quegli orizzonti geografici diversi dai miei? Saprei individuare le tappe di quell’itinerario spirituale col quale Dio va dispiegando la sua chiamata nella mia vita? Quanto incide la mia ricerca personale nel processo vocazionale? Ho avuto modo di cominciare il mio cammino di conversione? Se sì, cosa mi impedisce di progredirle portarlo a compimento? Cosa mi trattiene di giungere alla totalità della risposta dei primi discepoli? In che modo riesco a coinvolgere gli altri all’interno della mia personale esperienza di salvezza? Sono in grado di rendere attraente e appetitibile, agli occhi degli altri, lo stile evangelico della vita di Gesù? Quali forme, linguaggi e mezzi sono chiamato ad assumere nell’oggi del processo ecclesiale di evangelizzazione?

Naturalmente a queste domande ciascuno può affiancare anche quelle più personali che nascono da esigenze spirituali particolari, l’importante non è rispondere a tutte, ma lasciarsi stimolare da quell’opera misteriosa dello Spirito che attraverso la chiamata personale di Dio, continua nel mondo l’opera incarnativa e redentiva di Cristo.

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